Calabria

Da tempo in Calabria la Cgil, pur rimanendo il più grande sindacato regionale, vive una acuta crisi di credibilità e consenso da parte dei lavoratori. Una crisi complessa che parte da lontano, da quando, cioè, il sindacato calabrese è diventato laboratorio del modello concertativo attuale, rendendosi garante dell’applicazione di politiche che hanno garantito il cedimento sul terreno salariale, l’abbattimento dei minimi contrattuali, l’introduzione di forme diffuse di precarizzazione e di flessibilità, che via via hanno acuito uno stato di subalternità istituzionalizzata tra il lavoratore e la direzione dei lavori.

Sono gli anni in cui la Cgil, sindacato ancora in grado di mobilitare decine di migliaia lavoratori nelle lotte più dure ed aspre della Calabria (forestali, tessili, giovani della legge 285, ferrovieri, elettrici, chimici, lavoratori delle comunicazioni), dà corso alla ricerca, ad ogni costo, della mediazione con padronato e controparti, determinando l’isolamento del lavoratore, il quale anche nelle controversie individuali su specifiche inadempienze contrattuali del datore di lavoro, è quasi sempre inascoltato o perdente per la mediazione che il sindacato realizza sulla sua testa.

A giustificazione di quest’arretramento in Cgil si sottolinea la grave crisi occupazionale della Calabria, con punti altissimi di disoccupazione, la fragilità del sistema produttivo calabrese. E, mentre il lavoratore è costretto a subire questa esasperata azione mediatrice sindacale, che mortifica le rappresentanze e lavoratori e la democrazia interna, la classe politica calabrese dei governi democristiani e socialisti, attraverso l’uso spregiudicato delle risorse pubbliche costruisce, con un capillare controllo dell’avviamento al lavoro, quel perfetto sistema clientelare che non solo è un’enorme contenitore elettorale, ma ramifica a livelli balcanici la corruzione nel pubblico impiego. Inizia da qui la crisi di credibilità e di ruolo della Cgil calabrese, che perde di consenso e tende ad essere più soggetto politico che sindacale, a danno soprattutto della democrazia interna.

Negli anni che seguono la ricerca ossessionata di una soluzione concordata sindacato e governo per la gestione dei vari pacchetti dell’intervento straordinario in Calabria e quindi di nuove politiche per l’occupazione, viene presentata come la contropartita della linea morbida e dell’assenza di conflitto tra sindacato e impresa, sicché con la fine delle politiche dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno d’Italia e la selvaggia privatizzazione degli anni novanta la Cgil e il sindacato confederale calabrese sono coinvolti una crisi organizzativa, di abbandono e rifiuto di adesione, non ancora conclusa.

Nella Calabria degli anni novanta, flagellata dalla politica della concertazione avviata dall’attuale capo del governo Amato, il livello occupazionale cala paurosamente per effetto dei processi di privatizzazione e riorganizzazione delle grandi aziende pubbliche: sono più che dimezzati i lavoratori delle ferrovie, gli elettrici, i telefonici, i postali; l’aziendalizzazione del pubblico non risparmia l’occupazione nella sanità, nelle scuole (con il taglio delle classi) e in tutti gli altri settori della pubblica amministrazione. La globalizzazione dei mercati, l’unione monetaria europea e il taglio del finanziamento pubblico per il sistema produttivo meridionale mettono il sindacato alle corde. La minaccia della chiusura delle poche fabbriche calabresi è una costante degli ultimi dieci anni ed è usata dall’impresa per alzare sempre di più il prezzo. In questa situazione il sindacato è permanentemente costretto a rincorrere governo, impresa, enti territoriali nel disperato tentativo di salvare posti di lavoro, riuscendovi solo raramente. La Cgil calabrese rimane, così, stretta nella tenaglia della drammatica condizione economica e sociale del territorio, da una parte, e dalle politiche nazionali che sacrificano il mondo del lavoro calabrese alle economie più forti dell’impresa italiana.

Nonostante gli scarsi risultati sul piano dell’occupazione e della conservazione dei minimi contrattuali, la Cgil, tuttavia persiste sulla strada della concertazione attraverso l’esaltazione dei patti territoriali e dei contratti d’area, costruendo quasi una teologia attorno alla new economy, ottenendo come contropartita lo smantellamento di forti strutture produttive e la cancellazione di significative professionalità operaie (per esempio l’area industriale di Crotone), e la demolizione delle garanzie salariali; e cede inarrestabilmente sul fronte del lavoro nero, dello sfruttamento femminile e minorile, della assoluta assenza dei minimi salariali e della sicurezza nel lavoro. In un quadro di difficoltà generale la Cgil è costretta a misurarsi con le lotte, molte volte spontanee, dei lavoratori dell’edilizia.L’unica categoria che, pur tra numerose contraddizioni, di volta in volta costringe i sindacati a rompere i tentacoli della mediazione verticistica e, insieme ai forestali, rappresenta lo zoccolo duro e più politicizzato del sindacalismo calabrese. Va ricordata, per esempio, la lotta nello lo scorso inverno dei lavoratori della Bocoge (impresa da molti anni impegnata nei lavori di completamento dell’Università della Calabria) che raggiunge le cronache nazionali: gli edili salgono su una gru a cento metri e scendono solo alla ripresa della trattativa con l’azienda, che attraverso un accordo ingannevole tra sindacato, Rsu e azienda, aveva messo in mobilità circa sessanta lavoratori.

La categoria degli edili, tuttavia rimane la più esposta ai rischi di sicurezza, alla perdita del posto del lavoro, allo smantellamento della busta paga e delle retribuzione. Quindici morti per incidenti sul lavoro nel ’99 e dieci nel ’98 sono indicatori dello stato di estrema insicurezza nella quale vivono i lavoratori; e mentre la mortalità parla drammaticamente con i numeri, difficile è capire la vastità degli incidenti sui luoghi di lavoro e degli infortuni che essi determinano. Difficile da capire, ma soprattutto da intercettare, per effetto dell’evoluzione dell’impresa edile e delle stesse figure professionali. La grande impresa, quella che concorre alle grandi opere pubbliche, è l’unica dove è possibile pensare alla vecchia maniera ad una sindacalizzazione delle maestranze. Ma, quando all’interno di questi grandi lavori pubblici scattano i meccanismi del subappalto selvaggio, voluti per abbattere i costi di lavoro e per favorire l’ingresso dell’organizzazione mafiosa, l’azione del sindacato raggiunge i livelli minimi di presenza e di intervento. Ancora peggio è ciò che accade nei piccoli cantieri, dove le classiche figure professionali si sono trasformate in piccola impresa, facendo scomparire del tutto la figura dell’operaio dipendente, trasformato in lavoratore autonomo. È a partire da questa involuzione-degenerazione dell’impresa, nella quale non esistono sistemi di sicurezza e sparisce la busta paga,che prende corpo una concorrenza sleale (su una base di totale irregolarità) tra imprese stesse che mette in crisi quanti tentano (come avviene anche in alcuni settori della Fillea) di reintrodurre la legalità ed l’agibilità.

Una recente attività investigativa di una Task-Force del Ministero del lavoro, condotta nella provincia di Cosenza e nel comprensorio di Gioia Tauro, ci da un quadro drammatica. A Cosenza, su 42 aziende edili ispezionate, 42 sono risultate irregolari; le ispezioni hanno interessato 244 lavoratori e 96 di questi (pari al 39,3%) sono risultati in nero. Gli interventi ispettivi, che hanno interessato cantieri di manutenzione e ristrutturazione di abitazioni civili e due cantieri di lavoro per l’ampliamento dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, hanno rilevato per i piccoli cantieri una pericolosa situazione di rischio per lavori effettuati su impalcature precarie, su tetti e cornicioni senza misure cautelative, e così via. A Gioia Tauro su 8 aziende ispezionate (3 realizzavano opere pubbliche) 7 sono state trovate irregolari per assunzioni illecite, per l’elevata insicurezza sui cantieri, per subappalti irregolari. Nel complesso le violazioni rilevate sono state 183 su 42 aziende ispezionate a Cosenza e 66 su 8 cantieri a Gioia Tauro. Il documento evidenzia che solo 2 delle 42 aziende ispezionate nel cosentino avevano avuto negli ultimi otto mesi visite ispettive. Tale rilevamento non può non far sospettare l’esistenza di una pratica di corruzione che attraversa alcuni settori degli ispettorati provinciali del lavoro, che invece di intervenire per ripristinare la legalità nei cantieri, il più delle volte agiscono in complicità con le aziende a danno dei lavoratori.

Nell’asetticità della relazione si legge che l’attività degli ispettori è stata resa difficile dalla palese ostilità di molti datori di lavoro tanto da dover ricorrere all’aiuto delle forze dell’ordine, ed inoltre che pur rilevando numerosi contingenti di lavoratori in nero l’inchiesta ha riscontrato la scarsa collaborazione degli stessi che, apparentemente, sembrerebbero non voler essere tutelati… in relazione alla paura di perdere comunque un posto di lavoro, seppur precario e irregolare, che – se rifiutato da un lavoratore – certamente verrebbe occupato da altri disponibili ad essere assunti irregolarmente e senza tutela.

È, dunque, evidente che è nella arroganza dei datori di lavori e nella debolezza del lavoratore a difendere i suoi diritti, che sta tutta la sconfitta della Cgil e del sindacato confederale calabrese, che segna anche la sconfitta della sinistra storica e di governo della Calabria.

Qualche giorno fa a Soverato, con la morte accertata di dodici persone per l’allagamento di un campeggio abusivo, si è consumata in questa martoriata regione un’altra tragedia annunciata. È del tutto evidente che ci sono responsabilità penali di chi non ha rispettato le leggi sulla sicurezza.

Ma c’è, al disopra di ciò, una responsabilità politica delle classi dirigenti, di ieri e di oggi, comprese quelle sindacali, subalterne alla cultura del mercato e della speculazione sul territorio; timorose e genuflesse di fronte alle deliranti accuse di Bossi e della sua compagnia contro il Sud iperassistito, che hanno ceduto il territorio calabrese alla speculazione privata sottraendolo al controllo diretto di migliaia di lavoratori. L’alluvione dei giorni scorsi, la serie infinita degli incendi nei boschi, gli inquinamenti delle acque, la cementificazione devastante del territorio, le discariche abusive, dovrebbero far capire che il mercato e l’impresa non sono sufficienti a portare la Calabria a livello delle altre regioni e che la new economy é un nuovo espediente per impinguare le casse dei poteri forti calabresi.

La sfida che il sindacato e la sinistra hanno di fronte è quella di partire dal territorio, la cui tutela non può essere affidata agli speculatori della teologia della privatizzazione. Occorre invece rilanciare un modello di sviluppo in cui i parchi, l’ambiente, l’agricoltura, l’industria di trasformazione e soprattutto il recupero dei centri urbani, la manutenzione dei centri storici, dei monumenti ridiano dignità e lavoro ai calabresi.