L’ultimo scorcio della vicenda sociale e politica italiana – tra la fase finale del vecchio anno sino a questi primi giorni del 2008 – si è rivelato denso di fatti negativi (in crescita, per così dire, esponenziale) con ogni probabilità emblematici di un potente processo carsico che non depone certo a favore, per utilizzare un eufemismo, di una felice stagione di trasformazione sociale. Senza ricorrere a precise scansioni temporali rievochiamo alcune tappe della lunga teoria delle “cose cattive” materializzatesi solo in questa breve fase. Vorremmo aprire questo sipario nero ricordando la morte per freddo, fame e stenti – tra il 29 dicembre e Capodanno – di quattro “senzatetto”: un uomo di 31 anni di Messina trovato cadavere nel cunicolo di un sottovia a Modugno, in provincia di Bari; un clochard polacco di 50 anni ed un italiano di 70 portati via dal freddo nelle strade di Roma nella notte del primo gennaio; un immigrato indiano di 44 anni, Paul Surinder, ucciso dalla miseria mentre dormiva su di un binario morto della stazione fiorentina di Campo di Marte.
Iniziamo volutamente da queste quattro morti perché esse rimandano all’immutata – col cambiamento di governo – emarginazione degli anziani, dei precari, dei miserabili, degli immigrati; rimandano all’area dei sette milioni e mezzo di persone che nel nostro Paese vivono ormai sotto la soglia della povertà e agli otto milioni che non sono così lontani dallo scivolarci ( basta una cessione del quinto sullo stipendio negata; basta un rata del mutuo della casa che non si riesce a pagare; a volte basta persino una bolletta del gas, quelle “nuove”, figlie del rincaro del petrolio e delle guerre americane); rimandano al problema drammatico della casa per centinaia di migliaia di singoli e di famiglie; rimandano – con buona pace della Lanzillotta e dei suoi decreti liberisti che i comunisti di governo non riescono a respingere – alla drammatica distruzione dello stato sociale.
Ma iniziamo da queste morti anche per rovesciare alcuni antichi assunti – in vigore tra il detto e il non detto – secondo i quali i comunisti dovrebbero lasciare i miserabili alla pietas cristiana o ad occhi pasoliniani. No: anche queste sono le nostre morti. Anche queste sono il segno probante dei tempi. Anche per evitarle siamo comunisti. E con questo spirito ricordiamo un altro pezzo del Natale romano: lo sgombero “umanitario” di un altro campo rom (dopo il grande e vergognoso sgombero successivo all’assassinio della povera signora Reggiani ad opera di un romeno) cancellato dalla frenesia consumistica delle feste, ma che ha visto decine di persone e diversi bambini buttati in mezzo alla strada; e la morte di un tossicodipendente, vittima dell’ennesima partita di eroina killer, abbandonato tra i cassonetti dei rifiuti della capitale.
Ha ragione Mario Marazziti, il portavoce della Comunità di Sant’Egidio, impegnata da decenni nell’assistenza ai senza casa: “Solo a Roma i senza dimora sono 7 mila, di cui 3 mila vivono in strada. Questo fenomeno si va allargando in tutte le metropoli italiane. Le famiglie sono più fragili, il lavoro si perde facilmente o non si trova, aumentano gli sfrattati e la povertà di massa e i salari da fame sono ciò che davvero minano la sicurezza sociale. Chi non vuole vedere non guardi. Ma, ormai ovunque, cresce il popolo della miseria: vive nelle periferie, negli interstizi delle città, nei tubi di eternit, nelle gallerie, nelle case diroccate, lungo i greti dei fiumi…”.
L’orrore natalizio romano riflette in verità quel dolore metropolitano che aveva già intuito e cantato Claudio Lolli, quel dramma sociale, ormai cifra stessa delle cittadelle capitalistiche, che insorge da tempo dalle banlieues parigine, un dolore quotidiano che si riversa su milioni di sottoproletari delle metropoli italiane, su di una forza lavoro di vaste proporzioni, “misteriosamente” accumulatasi, dispersa e disperata, nuova e ancora sconosciuta alle forze della sinistra, una contraddizione sociale che Gramsci non poteva conoscere ma che i comunisti di oggi debbono imparare a ri-conoscere, se vogliono essere all’altezza dei tempi e dello scontro di classe.
Ma se apriamo il sipario nero su questa fase le cose cattive si affollano come in un quadro futurista. Il decreto governativo, nato su ispirazione di Veltroni ed emesso dopo l’assassinio della Reggiani: un decreto razzista, che intendeva consegnare così tanti poteri ai prefetti che i prefetti stessi ne hanno avuto paura, respingendolo; un decreto che violava il senso stesso del Diritto e procedeva per spinta fascista: per colpa di un singolo si tentava di colpire un intero popolo, per colpa di un romeno si tentava di colpire tutti i romeni. Ed è su questa scia, quasi in una cancellazione tra “destra” e “sinistra”, che prima di Natale vi è stata la decisione, da parte del Comune di Milano guidato da Letizia Moratti, di non concedere più, ai figli di immigrati senza permesso di soggiorno, l’accesso agli asili nido. Niente male, nel sessantesimo anniversario della Costituzione, la Carta che Luigi Scalfaro definì come “documento di perenne validità perché pone al centro la persona umana”.
E a proposito della Costituzione e del suo articolo 11, quello che ripudia la guerra (il più violato), non si può dimenticare che nelle feste sacrosante vi sono stati anche due viaggi importanti: l’uno del Presidente Napolitano a Washington, l’altro di Prodi a Kabul. Di fronte a Bush, un re imperialista in agonia politica, il Presidente della Repubblica ha sentito comunque il dovere di garantire enfaticamente che l’Italia proseguirà la sua missione in Afghanistan e che Vicenza può essere già considerata dagli Usa una propria base militare, al servizio dei propri interessi. Prodi, a Kabul, sfilando di fronte ai militari italiani, ha trovato anche il modo di commuoversi “per il servizio eroico prestato al Paese” e, preso dall’emozione, ha garantito anch’egli, stabilendo un’asse con Napolitano, che l’Italia non si muoverà dall’Afghanistan. E, sempre “ nel ricordo” dell’articolo 11, più o meno negli stessi giorni, dalla Difesa e dagli Affari Esteri ha preso corpo il progetto dell’invio dei poliziotti italiani in Kosovo, a difendere e garantire la nefasta secessione kosovara contro la sovranità della Serbia, ancora al servizio degli Usa e in spregio di tutti i popoli dei Balcani, dei moniti della Russia e degli stessi – fragili – equilibri internazionali.
E poi, l’attacco di Giuliano Ferrara e della teodem Binetti alla 194, la legge sull’aborto. Rispetto a quest’attacco s’è levato un pericoloso coro di assensi, organizzatosi attorno al cardinal Camillo Ruini e al consigliere cattolico di Veltroni, Giorgio Tonini. E’ stato Ruini a dare il là, col tono mieloso ed insieme inquietante tipico di certa moderna inquisizione. “Forse, dopo trent’anni, bisognerebbe aggiornare la legge 194 al progresso scientifico che ha fatto fare grandi passi avanti alla sopravvivenza dei bambini immaturi…”. E Tonini, sulla falsariga: “Dopo trent’anni non è una bestemmia ragionare sulla legge dell’aborto…Progressi medici e Ru 486 (aborto chimico) lo consentono”.
La risposta delle donne – fortunatamente in campo, per tutte e tutti, in questa fase così passiva – non si è fatta attendere. Ha scritto Maria Antonietta Garofolo, su Liberazione, in una lettera dal titolo “ Abbiamo già pagato” : “ …è un tentativo di sminuire le battaglie che tante donne hanno portato avanti affinché quella che divenne poi la legge 194 ci sottraesse alle mammane, al gambo del prezzemolo e alla morte certa. Alludo alla svolta veterocattolica, integralista e di presumibile matrice opusiana di chi pensa che la legge sia stata concepita quale metodo anticoncezionale, quale rimedio per negare in qualche modo le responsabilità del concepimento. Non è così, la legge va esattamente in direzione contraria: la maternità quale scelta consapevole ed assistita…Ritengo che l’affondo o la moratoria, che dir si voglia, abbia radici politiche ed ideologiche molto antiche e che si insinui prepotentemente nella propensione a restaurare temi e problemi che gravano ancora oggi sul corpo della donna e sull’autodeterminazione di soggetti di diritto quali noi siamo. Risarcire in qualche modo i cattolici dell’Opus dei che sono al governo non può e non deve voler dire che consegniamo nelle loro mani le nostre libertà …”.
Scriveva Spadolini, in relazione allo storico contrasto tra Stato e Chiesa, che le sponde del Tevere tendono, di volta in volta, a restringersi o ad allargarsi. E’ indubbio che dopo la fine della Democrazia Cristiana il Vaticano abbia nutrito e nutra ancora il timore di perdere la propria visibilità e “soggettività” nella società italiana e abbia, di conseguenza, sprigionato più aggressività nel tentativo di imporre i propri temi. Con un risultato, dobbiamo dire, molto positivo dal punto di vista del papato : non solo, infatti i Pacs e poi i Dico sono stati cancellati dall’agenda politica, ma anche il testamento biologico, la condanna dell’omofobia e ogni altro tema laico viene mandato alla gogna, sino ad arrivare, appunto, alla nuova crociata contro la 194. Con l’obiettivo finale – e non lontano, da parte del Vaticano – di avere al proprio fianco non solo la destra, non solo la Binetti e i teodem, ma anche, come nuovo e ricettivo ventre molle, il Partito Democratico, con i comunisti e la sinistra paralizzati – anche sui temi dei diritti e della laicità, oltre ché su quelli sociali ed internazionali – dalla loro involuzione governista.
Vi sono stati poi i temuti rincari su prezzi e tariffe, preannunciati da voci che sembravano maligne epifanie delle destra, ma che si sono rivelati veri e persino più pesanti di quanto temuto: elettricità + 3,8%; gas +3,4. Per una famiglia media la bolletta “della luce” costerà 48 euro in più, quella del gas circa 35. Dopodichè, dati Istat dicembre 2007: benzina verde l’11,6% in più rispetto al 2006; gasolio + 15,4% ; il pane + 12,3% e rincari pesanti anche per il latte, la pasta, gli ortaggi.
Nel frattempo, tra fine dicembre ed inizio gennaio, si pubblicano gli studi sui salari italiani fatti dalla OD&M e risulta che negli ultimi cinque anni le buste paga hanno perso il 10% del potere d’acquisto; che gran parte dei salari sono oggi Co.co.co. e Co.co.pro., a compenso libero e dunque ancor più erosi dall’inflazione ed esclusi dalle statistiche ufficiali; che per i precari non pare esserci più soluzione anche per via di quel Protocollo sul welfare che li ha condannati e collocati definitivamente nel mercato inferiore del lavoro.
Per non citare sempre i grandi pensatori e ascoltare qualche volta i lavoratori e la loro intelligenza, sarebbe bene rileggersi la lettera che Antonello Tiddia, della Rsu CarboSulcis di S.Antioco (Cagliari) ha scritto il 5 gennaio su Liberazione:“ …Propongo il ripristino di un meccanismo di scala mobile. In questi anni sono diminuiti i salari e aumentati i profitti, cioè è aumentato lo sfruttamento e il plusvalore relativo. Il taglio dei salari e del loro potere d’acquisto ha provocato un rallentamento dell’economia e quindi ha alimentato una spirale recessiva; in questa situazione i maggiori profitti sono andati a gonfiare la rendita finanziaria e non hanno determinato un aumento degli investimenti… la reintroduzione della scala mobile è assolutamente necessaria per evitare che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; la sua reintroduzione non è solo indispensabile per difendere i redditi da lavoro dipendente, ma secondo me è obbligatoria per evitare che l’economia italiana entri in una spirale ancor più recessiva e pesante in cui tutta la società si impoverisce. In tutti questi anni ci hanno troppe volte spiegato che la classe operaia doveva fare gli interessi generali del paese e dunque accettare i sacrifici. Era ed è sbagliato e falso. Perché gli interessi di tutta la società coincidono con gli interessi dei lavoratori e solo aumentando i redditi da lavoro dipendente è possibile avere uno sviluppo civile del paese”.
Niente altro da aggiungere, se non che l’obiettivo della scala mobile – sacrosanto – sembra addirittura uscito dal novero delle questioni almeno teoricamente contemplate, sia per il governo Prodi che per la sinistra e i comunisti che ne fanno parte. Che non sembrano reagire con gran forza alle provocazioni del Ministro Damiano, anche quando, come ha fatto arrogantemente sulle pagine de La Stampa il 29 dicembre scorso, dichiara che l’accordo sui salari si potrà firmare tranquillamente anche senza i metalmeccanici della Cgil.
La battaglia della Fiom contro l’accordo governo – sindacati sul welfare non è stato digerito da nessuno: padroni, governo e sindacati governisti se la sono legata al dito e, per loro, Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi debbono ancora pagarla. D’altra parte, per allargare l’affresco di fase, è importante ricordare quanto accaduto, qualche giorno prima di Natale, alla Powertrain, ex Meccaniche Mirafiori, dove la maggioranza dei lavoratori ha avuto l’ardire di bocciare il passaggio da 15 a 17 turni di lavoro settimanali e per questo ha subito la rivalsa della Fiat, nel senso che la metà dei 140 lavoratori interinali sono stati, entro il 31 dicembre, licenziati.
E’ in questo contesto che si va aprendo la cosiddetta verifica tra Cosa Rossa e governo. Una verifica che, da quanto emerge, da ciò che allo stato delle cose possiamo conoscere, rischia di essere particolarmente minimalista e organizzarsi essenzialmente attorno alla proposta del ministro Damiano relativa alla detassazione dei salari. Una detassazione che, se rimanesse così come prospettata, aggiungerebbe sui salari medi (mille euro) circa 40 euro in più al mese. A fronte di una crescita, come visto, particolarmente forte di prezzi e tariffe; di una stagione contrattuale ancora all’insegna del contenimento del costo del lavoro e della negazione di ogni meccanismo, pur minimo, di adeguamento di salari e stipendi al costo della vita. A fronte, soprattutto, dell’abbandono della lotta alla precarietà. E ciò in una verifica nella quale sembrano già rimossi i problemi internazionali: il Prc, e tutta la Cosa Rossa, sono già pronti a votare il nuovo rifinanziamento per la guerra in Afghanistan, per nuove truppe nel Kosovo e per le altre “missioni” internazionali ?
Si può dimenticare, nel tratteggiare questa ultimissima fase e i suoi singulti, ciò che è accaduto e sta accadendo a Napoli e in Campania per ciò che riguarda l’inferno dei rifiuti? E’ indubbio che siamo di fronte ad un fallimento totale dell’esperienza Bassolino, che non ha saputo, in tanti anni, impostare un minimo progetto relativo allo smaltimento dei rifiuti ( a cominciare dall’incapacità di avviare la raccolta differenziata ) e non ha saputo – o peggio: voluto o potuto – liberarsi della camorra, che ha in mano, anche nel campo dei rifiuti, “ le chiavi della città”. Ma è anche vero che in quel fallimento sono pienamente coinvolte le forze della sinistra, compreso il Prc campano, subordinato a Bassolino e incapace, in tanti anni, di avere un lampo di libertà e di autonomia. Così che la disastrosa esperienza di Rifondazione in Campania si fa paradigmatica di un’intera degenerazione governista, che ci vede cattivi e subordinati protagonisti in tante amministrazioni locali, sino al governo centrale. In Campania – segno estremo della sconfitta – si invia l’esercito ed è certo che si tocca il fondo con la nomina dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, a commissario straordinario per l’emergenza. Tutti ricorderanno chi è De Gennaro: è l’uomo della macelleria cilena a Genova, l’uomo che sospese per tre giorni la Costituzione, l’uomo dell’inferno ove trovò la morte Carlo Giuliani. Che fine ha fatto la richiesta della Commissione d’inchiesta sui fatti di Genova? Condividiamo lo stupore e l’amarezza di Vittorio Agnoletto, nel momento in cui legge i commenti di Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena, che dicono di “mantenere le riserve” su De Gennaro, ma che capiscono il governo. Esercito e De Gennaro in Campania: cosa che avrebbe fatto un governo di destra, non un governo con la Cosa Rossa dentro. A Napoli, come a Vicenza, come nella Val di Susa, i comunisti e la sinistra dovevano e dovrebbero essere alla testa dei movimenti e non surgelarsi nei sempre più isolati luoghi istituzionali, nell’attesa passiva, condivisa con Amato e Mastella, che i soldati riportino l’ordine a Napoli e i treni la spazzatura in Germania.
Anche il processo di svendita, da parte del Tesoro, del 49,9% dell’Alitalia alla compagnia francese Air-France-Klm non depone certo a favore di un governo dalla forte pulsione progettuale, ma piuttosto di un circo Barnum allo sbando, subordinato ai poteri forti – nazionali e transnazionali – che altro non sa fare che prendersela con i deboli (i lavoratori) e subire l’influsso egemonico di quelle multinazionali che, nel segno neoimperialista dell’Unione europea, puntano ad uno svuotamento strategico del nostro sistema industriale.
Due fatti pesanti possono chiudere il quadro di questa davvero non felice fase: da una parte le proposte volte ad una controriforma sulla legge elettorale ed istituzionale; d’altra parte l’eccidio degli operai dell’acciaieria Thyssen Krupp. Per ciò che riguarda il Vassallum di veltroniana ispirazione condividiamo sino in fondo le critiche che i gruppi dirigenti del PdCI e dei Verdi hanno portato con molta forza a Veltroni e allo stesso Prc. L’obiettivo “americano” di ridurre tutto ad un bipolarismo-bipartitismo intercambiabile, apparentemente aconflittuale ma in verità tendente a spegnere il conflitto solo dalla parte operaia, subordinando il tutto ai padroni del vapore, è il progetto più antidemocratico circolato in Italia da molti anni a questa parte, molto peggiore – per dire – della famosa “legge truffa”. E, partendo da ciò, davvero sconcerta l’atteggiamento del gruppo dirigente del Prc, volto ad oscuri accordi da retrobottega con Veltroni e Berlusconi al fine di far passare un sistema elettorale con sbarramento alto e variegato e diretto, anch’esso, a “semplificare” il quadro politico e tendente, nell’essenza, a chiudere i confini sociali e politici nel recinto dell’alternanza, cancellando la possibilità stessa dell’alternativa e precostituendo – a partire, appunto, da un nuovo quadro elettorale – un accordo strategico “a sinistra” tra PD e Cosa Rossa. Da una parte chiudendo accuratamente, con sbarramenti “veltroniani” che superano e smentiscono quello tedesco, ogni ipotetica presenza a sinistra della Cosa Rossa ( alla faccia dell’ enfasi sul pluralismo come sale della democrazia); dall’altra tentando di costringere gli alleati meno dotati elettoralmente a legarsi alla stessa Cosa Rossa, che a quel punto diverrebbe per essi un soggetto-prigione (con vocazione partitica) da cui avrebbero grandi difficoltà – qualora lo volessero – a liberarsi per riprendersi l’autonomia.
“L’improvvisa” proposta del vicerè del PD e alter ego di Veltroni, Franceschini, relativa al presidenzialismo, altro non appare – in questo contesto – che un naturale ed ulteriore sviluppo negativo del Vassallum. Per la critica al presidenzialismo di Franceschini ci affidiamo alle lucide parole di Rossana Rossanda, che su Il Manifesto, in un articolo dal significativo titolo Francia, cattivo esempio, così ha scritto: “Il sistema elettorale alla francese, al quale inclina Walter Veltroni, è il peggiore nei dintorni. Un presidenzialismo secco, vera e propria monarchia, senza neanche un’adeguata informazione degli elettori…Nel sistema statunitense, come in quello francese, l’obiettivo è ridurre più che si può la complessità delle espressioni politiche in una società complessa… Il richiamo al sistema francese è eloquente: esso si propone di distruggere tutti i contendenti tranne due. E già dire due è molto, perché negli Usa come in Francia, è difficile che il secondo arrivato resti visibile. Chi si ricorda più di Kerry? E che cosa conta più Segolène Royale?… Resta la necessità per chi non è uno dei due grandi partiti ammessi dal bipolarismo di esistere…”.
A chiudere il quadro, l’orrore della Thyssen Krupp. Sui sette operai morti alle acciaierie di Torino molto è stato scritto e molta retorica è stata versata, con il pericolo che presto il silenzio avvolga le vittime. Ciò che resta è che essi sono stati divorati dal fuoco della fonderia alla quarta ora di straordinario, dopo le otto ore di lavoro “ordinario” in quell’inferno quotidiano, e nulla più di questo ci dice come i salari operai siano da fame. Ciò che resta è lo svelamento improvviso della mancanza delle più elementari norme di sicurezza nei luoghi di lavoro, base materiale della strage quotidiana dei lavoratori. Ciò che resta è il contrasto terribile tra questa disgrazia e il fatto che nel Protocollo del 23 luglio vi sia la detassazione, per i padroni, degli straordinari, mentre per gli straordinari non solo gli operai ci muoiono, ma ci pagano anche le tasse. Ciò che dovrebbe restare – e non resterà, in questo quadro – è che il toyotismo che segna da troppi anni anche l’intero processo produttivo italiano è stato interiorizzato da tutti – padroni, sindacati e buona parte della “sinistra” – come il moderno e inevitabile sistema per far fronte alla concorrenza internazionale. Pur sapendo che esso ha in sé, come leggi intrinseche, l’apologia del massimo profitto, l’abbattimento dei diritti e dei salari e l’abbattimento di ogni costo legato all’ambito della produzione, innanzitutto i costi della sicurezza sul lavoro e sulla manutenzione, come sanno bene, da circa un quindicennio, innanzitutto (ma non solo) gli operai delle fabbriche, dei cantieri edili e navali.
Dopo l’eccidio molte proposte si sono levate, a protezione dei lavoratori. Spicca, tra queste, quella di Guglielmo Simontacchi, giurista della Fiom. Simontacchi, ricordando il ruolo centrale che potrebbe svolgere – e non svolge – la magistratura relativamente alla prevenzione degli infortuni e alla repressione delle violazioni nel campo dell’igiene e la sicurezza sul lavoro, invita il Presidente Napolitano, quale Presidente anche del Consiglio Superiore della Magistratura, ad imporre tutta la sua autorità affinché presso i tribunali siano obbligatoriamente istituite sezioni o giudici specializzati nel settore dei reati in materia di diritto penale sul lavoro e presso le procure siano, altrettanto obbligatoriamente, previsti piani organizzativi per i reati in materia lavoristica. La proposta ci appare tra le più serie e concrete.
Tuttavia, crediamo che il problema centrale sia quello dei rapporti di forza sociali in questo Paese: o si cambiano attraverso l’apertura di un nuovo, e necessariamente non breve, ciclo di lotte sociali od ogni tentativo di cambiamento rischia di essere illusorio e fuorviante. A partire – e ciò vale per i comunisti e la sinistra – da quello di cambiare le cose all’interno di un governo moderato ed essenzialmente subordinato come il governo Prodi. Ai funerali di Giuseppe De Masi, la settima vittima della Thyssen Krupp, i lavoratori hanno gettato via, rifiutandola, la corona di fiori inviata dall’azienda. Simontacchi ha ragione nel proporre atti concreti: ma non si può partire che da qui, dai quei fiori padronali gettati al vento, per far ripartire il conflitto e il cambiamento. Per far divenire verosimili i progetti positivi.
In verità, quest’ultima , grave, fase non è che il prodotto – una cronaca annunciata – del combinato disposto dei rapporti di forza, sociali e politici, profondamente sfavorevoli agli interessi di massa; delle politiche del governo Prodi e dell’avvento, particolarmente negativo, del Partito Democratico. Le due Finanziarie di Padoa Schioppa (rilevanti spostamenti di risorse verso le imprese e irrilevante redistribuzione del reddito); la spinta liberista insita nel Protocollo del 23 luglio; le altissime spese militari e le politiche internazionali subordinate agli Usa e alla Nato: tutto ciò non ha solo rappresentato – per il movimento operaio complessivo – un danno in sé, ma ha largamente contribuito a spostare il quadro in senso ulteriormente moderato, incoraggiando i poteri forti , la conservazione e la Confindustria ad osare e chiedere sempre di più. L’avvento del Partito Democratico ha accelerato i processi negativi, e la rottura con le forze sociali più avanzate e con i movimenti di lotta ha tolto gli ultimi, deboli, vincoli sociali al governo.
Andiamo constatando, in effetti, il pieno fallimento del governo Prodi e del centro sinistra, come rimarcato anche dal Presidente della Camera Bertinotti. O meglio: constatiamo il suo progressivo ed irreversibile passaggio nel campo liberista, il suo totale abbandono di un progetto pur debolmente riformista. E, mentre sul piano sociale a pagarne il prezzo più alto sono i lavoratori e i precari, sul piano politico pagano un prezzo altissimo, in termini di erosione di consensi e di credibilità popolare, le forze comuniste e di sinistra.
Particolarmente colpite, tra queste, è Rifondazione Comunista, un partito in piena crisi. Una crisi, innanzitutto, di identità politico-culturale: il lungo processo di decomunistizzazione condotto per oltre un decennio da Bertinotti e dal suo gruppo dirigente ha rappresentato, infatti, una corposa azione di pars destruens, alla quale non è corrisposta un’altrettanta corposa azione di pars costruens. Il risultato è quello di un partito senza più anima e senza più cultura politica certa. La stessa, strutturale e cronica mancanza di radicamento, sia nei luoghi di lavoro che nei territori, accentua la crisi del Prc, che imbocca la strada del completo sbandamento nell’inverarsi del progetto politico che la maggioranza avvia sciaguratamente al Congresso di Venezia: scelta del governo sino al governismo pagata con la rottura pressoché completa con i movimenti, un rapporto che sin che è stato in vita ha mascherato i limiti già presenti in Rifondazione.
Letto attraverso l’involuzione profonda del proprio statuto culturale e della propria linea politica, il tentativo del Prc di superare la propria identità comunista per trasformarsi nella Sinistra Arcobaleno appare davvero come lo sbocco naturale della lunga direzione e pulsione bertinottiana. Ed è del tutto evidente che nella stessa frenesia con la quale si vuol costituire la Cosa Rossa si nasconda il desiderio di superare con un balzo quel limbo politico e culturale in cui il Prc è stato collocato dai bertinottiani; si nasconde, insomma, il desiderio di superare finalmente l’incertezza di senso di Rifondazione attraverso la cancellazione del “retaggio” comunista.
Da questo punto di vista un po’ ipocrite e patetiche appaiono le garanzie che i gruppi dirigenti offrono relativamente al permanere del Prc quale partito comunista. E’ il processo stesso di costituzione della Cosa Rossa che rende oggettivo il rischio altissimo della scomparsa dell’autonomia e dell’identità comunista. Per diverse questioni, la prima delle quali è la seguente: in virtù della crisi del movimento comunista mondiale un partito comunista nazionale può rilanciarsi solo se rinuncia a facili nostalgie e semplicistiche reiterazioni, costruendo la propria essenza rivoluzionaria inverando e misurando il grande patrimonio storico e culturale del movimento comunista nella carne viva delle contraddizioni presenti, molte delle quali nuove e sconosciute.
E’, questo, un obiettivo ambizioso, alto, ma anche l’unico che può permettere un rilancio. Ma per far ciò occorre una piena, totale autonomia: culturale, politica, organizzativa, persino economica. Senza tale autonomia il progetto del rilancio di un partito comunista, rivoluzionario, è destinato in partenza a fallire. E poiché la Cosa Rossa chiede ad ogni soggetto aderente, per costituirsi, una cessione significativa di sovranità (e lo chiede in modo particolare ai comunisti) è del tutto evidente che in quell’esperienza ciò che viene immediatamente meno è proprio l’autonomia e, di conseguenza, la base materiale per il progetto di un rilancio di una forza rivoluzionaria. Questo dato oggettivo è così pesante che si imporrà persino sull’eventuale buona fede di chi, tra il gruppo dirigente del Prc, “garantisce” ancora oggi che la Cosa Rossa non sarà la tomba di Rifondazione. Ma, d’altra parte, chi ha memoria del processo di scioglimento del PCI che precedette la Bolognina, ricorderà che Achille Occhetto (mentre dalle pagine de La Repubblica presentava alla borghesia la sua nuova creatura) sulle pagine de L’Unità rassicurava l’esercito comunista dei “friggitori di salsicce” (fulgida espressione di D’Alema) che la sua “Cosa” non avrebbe tradito il comunismo. Si è visto… E non è un caso che Occhetto sia ora approdato alla Cosa Rossa Due.
Seconda questione: è il terreno stesso sul quale si costituisce la Cosa Rossa che indica chiaramente la natura del soggetto nascente. Essa sorge sul terreno meno indicato per una forza di sinistra: quello assolutamente incongruo del governo, e di quale, moderato e subordinato governo! Ma la scelta di questo terreno indica non solo la natura futura, ma anche l’orizzonte politico della Cosa Rossa, che già si vive – segnata dai vincoli dettati dalla Sinistra Democratica – come alleata naturale del PD di Veltroni, in un’ottica bipolare e d’alternanza (ed è la stessa Carta dei Valori dell’Arcobaleno a confermare, nel suo povero spirito e nella sua smorta lettera, tali tendenze). E tutto ciò mentre la realtà sociale ci dice a chiare lettere che il primo compito delle forze comuniste e anticapitaliste, oggi, sarebbe non quello di consumarsi nell’infruttuosa area governativa ma di rimettersi alla testa delle lotte, nel doppio obiettivo di cambiare i rapporti di forza sociali e far emergere quel blocco sociale per l’alternativa che è ancora in fieri, (poiché socialmente e storicamente nuovo), ma che esiste nella figura centrale della salarizzazione generale, nelle figure del precariato di massa, nel lavoro immigrato di massa e nella forza lavoro accumulatasi e in ebollizione nelle metropoli, e che può essere evocato ed unito solo attraverso il conflitto. La Cosa Rossa è la risposta contraria a tutto ciò: mentre la situazione richiederebbe un Lenin contemporaneo, noi ci affidiamo a Mussi: un socialdemocratico, nemmeno di inizio, ma di fine ‘900.
Dunque, “lo strappo” dalla realtà sociale, operato dal gruppo dirigente del Prc per ricollocare Rifondazione in un ambito moderato, è violento. E se tu operi una prima violenza politica – è la storia a tramandarcelo – sei destinato ad operarne altre, di omologa natura. Solo a partire dal fatto che nella trafelata costruzione della Cosa Rossa vi sia stata una prima violenza (lo strappo dalla realtà delle cose presenti, dall’identità originaria comunista e dal suo ruolo sociale) si può “comprendere” la catena delle violenze successive operate dal gruppo dirigente del Prc contro i propri iscritti, la propria base militante, il proprio elettorato: la decisione dell’abbandono della falce e il martello; la proposta del tesseramento alla Cosa Rossa ( che tradisce chiaramente la volontà di costruzione di un nuovo partito, col rischio che la Federazione sia solo un “traghetto”, una proposta volta a guadagnare tempo ed ammansire gli iscritti); l’assunzione di un nuovo simbolo politico; la decisione delle liste unitarie col “nuovo” ( non particolarmente appassionante) simbolo dell’arcobaleno; la decisione della nascita stessa della Cosa Rossa attraverso i forum costituenti; la decisione – gravissima – di annullare (per la prima volta nella storia del Partito) il Congresso che doveva statutariamente tenersi e farlo slittare non si sa a quando, certamente quando tutto sarà deciso e la Cosa Rossa sarà costituita alle spalle e contro la stragrande maggioranza degli iscritti e dei militanti, che a quel punto non potranno più nemmeno fiatare.
La Cosa Rossa contro la stragrande maggioranza degli iscritti: è azzardato esprimersi così? No: perché siamo convinti che se essi potessero liberamente esprimersi, senza la dittatura partitica burocratica, i trucchi d’apparato, il loro giornale, Liberazione, utilizzato come “la voce del padrone”, con tutto l’ambaradan, insomma, volto ad organizzare consenso attorno al gruppo dirigente – cosa che abbiamo già visto nello scioglimento del PCI – sarebbero contro la liquidazione del loro Partito, del Partito comunista. D’altra parte ci sembra di grande interesse l’inchiesta ( pubblicata su Liberazione del 30 dicembre, a firma di Vittorio Rieser e Vittorio Mantelli, per il Dipartimento Nazionale Inchiesta del Prc) dalla quale, per ciò che riguarda la Cosa Rossa, si evince che il 20% degli iscritti è irriducibilmente contrario, mentre un’area prevalente sarebbe d’accordo ma solo “ a determinate condizioni”. “ Emerge cioè – scrivono gli autori – la preoccupazione di non disperdere la ricca esperienza di Rifondazione Comunista ”. Attenzione alle parole : gli autori scrivono che tale posizione è prevalente. E ciò in un’inchiesta lanciata in un contesto completamente egemonizzato dai gruppi dirigenti, senza aver mai aperto una vera discussione nei Circoli e nelle Federazioni. Un 20% di “no” senza ombre di dubbio ed un prevalente desiderio di non liquidare il Prc. E’ per questo che non si fa il Congresso?
Noi siamo certi che non dobbiamo rimanere comunisti per tigna (come si espresse infelicemente, ma anche significativamente, Bertinotti), ma perché le sempre più alte e spesso drammatiche contraddizioni del capitalismo e la sua incapacità di soddisfare i bisogni collettivi e le aspirazioni individuali ripongono al centro le ragioni alte del socialismo: sia la necessità di cancellare, dalla realtà sociale e nel patrimonio culturale collettivo, la liceità borghese dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, che la necessità di liberarsi dal lavoro, attraverso la costituzione di un nuovo paradigma che rifiuti la mitizzazione del produttivismo sensimoniano e metta il formidabile apparato macchinico moderno al servizio degli uomini e delle donne e non al servizio del massimo profitto. Un obiettivo di lunga lena, che può persino apparire di lusso in questa fase in cui un ragazzo o una ragazza sono costretti ad abbassare le loro aspettative, cercando con il lumicino qualsiasi lavoro; ma un obiettivo che non deve essere espulso dal corredo tattico e strategico di una forza rivoluzionaria. Anzi, riassunto e rilanciato nella prassi, iniziando a battersi seriamente per la riduzione dell’orario di lavoro.
Noi pensiamo che questa progettualità sociale e politica avanzata, di segno anticapitalista, possa addensarsi – per ragioni storiche, teoriche e ideali – prioritariamente in un Partito comunista, rivoluzionario. E’ per questo che pensiamo al Partito comunista non come una tigna o ad una coazione a ripetere, ma come una necessità sociale e storica. E in conseguenza di ciò continueremo tenacemente a batterci contro la liquidazione del nostro Partito e per il suo rilancio. Continueremo a farlo, a partire dalla consultazione che il gruppo dirigente ha promesso relativamente al governo e nella quale esprimeremo chiaramente il nostro punto di vista: uscire dal governo Prodi, poiché il sangue versato dal Partito per la sua tenuta è già copioso; perché ciò non è valso a nulla; poiché non abbiamo inciso in nessun punto, poiché siamo divenuti ormai complici delle politiche di guerra e delle politiche dal segno antipopolare, come nel caso dell’ultima fiducia accordata al Protocollo sul welfare.
Alla prossima consultazione ci esprimeremo in questo senso, tuttavia una cosa va detta: come può il gruppo dirigente portare il Partito a tanto disastro e poi deresponsabilizzarsi, passando la palla avvelenata alla base? No: un gruppo dirigente porta sino in fondo il proprio progetto politico, magari lo corregge in corsa, ma poi si fa giudicare democraticamente dal Congresso. E se gli iscritti bocciano l’operato si dimette. E’ troppo facile fare come Bertinotti, che prima costruisce e sorregge tutta la linea di Venezia e poi, senza un minimo d’autocritica per tanta rovina, un giorno si sveglia e decreta il fallimento del centro sinistra (per che cosa? Siamo maliziosi: per un governo tecnico o istituzionale con il compito di varare una legge elettorale concordata con Veltroni? Far parte di un governo tecnico, magari di Grandi Intese, sarebbe per i comunisti cadere dalla padella alla brace. Saremmo nettamente contrari).
Certo, è molto comodo, per l’attuale gruppo dirigente bertinottiano cavarsela, ora, con la consultazione. Essa, ormai lanciata, dovrà avere il maggior numero di elementi democratici possibili; tuttavia temiamo fortemente che sulla scia dell’americanizzazione crescente (primarie, gazebo, plebisciti) possa assumere i caratteri di un consenso organizzato e calato dall’alto. Chi parteciperà: gli iscritti? Gli elettori? Tutta la Cosa Rossa ? Chi gli pare? Dove si parteciperà? Con quali criteri? Con quale discussione preventiva? Su quali documenti politici? Non si sa nulla: o meglio, come direbbe Henry Miller, siamo di fronte ad un caos organizzato, funzionale ai voleri dei gruppi dirigenti.
Anche alla luce di ciò riteniamo l’annullamento del Congresso un vero e proprio vulnus democratico, nella vita del Partito. Un atto prepotente che la dice lunga sulla determinazione giacobina con la quale i bertinottiani vogliono operare lo strappo della Cosa Rossa. E davvero cervellotico, completamente ipocrita è l’argomento (espresso non solo dalla maggioranza, ma anche da una delle minoranze) secondo il quale il Congresso non poteva più tenersi poiché era stata lanciata la consultazione. Naturalmente, l’argomentazione va rovesciata: avete lanciato la consultazione anche per allontanare quello che per voi è ormai “lo spettro che s’aggira nel Partito” : appunto, il Congresso.
Continueremo, comunque, a chiedere con forza che il Congresso sia democraticamente e statutariamente celebrato. E lì ci batteremo affinché tutte le compagne e i compagni che non intendono ammainare la bandiera comunista si uniscano, al di là delle provenienze congressuali e le mozioni precedenti.
Poiché vi è un bene supremo da difendere: l’autonomia e il rilancio del Partito della Rifondazione Comunista. Non più debole, ma più forte di prima. Non dall’incerta identità, ma dalla natura antimperialista e anticapitalista più chiara; non meno unitario, ma più largamente unitario, in una concezione dell’unità che non lo veda succube della sinistra di stampo socialdemocratico, ma legato sia ai grandi movimenti di lotta – contro la guerra, quello operaio, quello di Genova – che ai movimenti che si autorganizzano sui territori: No Tav, No Dal Molin, No F35 Novara, No Base Usa di Camp Darby, No Sigonella, Via le bombe di Pordenone, Coordinamento Sardo Gettiamo le Basi, Rete Nazionale Disarmiamoli, il movimento di lotta in Campania, i movimenti che nel Paese si costituiscono per la difesa dell’ambiente, della scuola, dei lavoratori : sono tanti, segnano i piccoli paesi e le città, sono nostri referenti e li abbiamo dimenticati .
Vogliamo un Partito non più balbettante nella sua natura comunista, ma che sappia far partire davvero quel progetto che è inscritto nel suo nome: rifondazione comunista; dunque un Partito rivoluzionario quanto democratico al suo interno, che sappia anche, e finalmente, proporsi come forza catalizzatrice della vasta diaspora comunista italiana, per una nuova, aperta e dialettica unità dei comunisti ( partiti, movimenti ) da rinsaldarsi in una libera ricerca politico-teorica, nel progetto strategico del socialismo e nella lotta sociale. Per buttare al vento – come gli operai della Thyssen Krupp – i fiori dei padroni.