E’ la cronaca commentata, più che altro modesti frammenti e non di più, di un viaggio dentro l’economia e il lavoro di quel tratto di Cina costiera, la Cina delle “aree speciali” e delle “città a porte aperte”, che va da Shanghai a Dalian.
1 – Una nuova città che apre le porte
Dalian è una bella città del sud Manciuria, tre milioni e passa di abitanti, collocata sulla cuspide della penisola che si trova tra il Mar Giallo e il Mar Bohai, proprio ai confini con la Corea del Nord laddove passa il famosissimo trentottesimo parallelo. Il territorio offre scenari che, con un po’ d’azzardo, reggono il confronto con quelli di cui dispone il nostro paese a Capri ed Ischia, senza però l’assedio del turismo di massa. Turisti certo ci sono, soprattutto russi della vicina, si fa per dire, Vladivostok ma quelli che circolano di più sono i commercianti, coreani e giapponesi in particolare. Dalian è una città nuova – grandi vie, piazze e un’architettura originale inventata per dare identità a una realtà senza radici – città sorta praticamente nel dopoguerra con l’industria tessile, siderurgica e di produzione elettrica. Non esiste perciò la “Dalian vecchia”. La vecchia Dalian era solo una piccola cittadina di servizio a un grande porto militare dalla forte valenza startegica che russi e giapponesi si contendevano a cannonate. Dalian è diventata oggi una delle città cinesi “a porte aperte” per gli investitori di altri paesi e quel porto, oggi dismesso, è al centro di un grande progetto di reindustrializzazione. Vi si lancia la grande fiera CIGF (China International Garment and Textile) nel corso della quale, in un importante Forum internazionale, viene posto, netto, l’obiettivo che i cinesi si propongono: oggi si venga a Dalian (e altrove) ad investire ma, ci dicono, a investire per il mercato cinese, perché la Cina, questo è sottolineato più e più volte in tutto il viaggio, il mercato ce l’ha in casa e guarda, con grandi aspettative, particolarmente alla media imprenditoria italiana e, pertanto, invita le Istituzioni ad accompagnare questo tipo di investitori nell’approccio al mercato cinese. I grandi, da Armani a Dolce & Gabbana, vanno per conto loro, i medi no. E’ nel contesto di questo obiettivo che viene così sottoscritto un protocollo tra il Sindaco di Dalian, Mr. Xia, e la Provincia di Milano.
2 – Innovazione e Proletariato nell’immensa Shanghai
Shanghai, rispetto a Dalian, è tutt’altra cosa, del resto raccontata più e più volte, ma l’impressione di chi entra in questa megalopoli di probabilmente venti milioni di abitanti (tre Shanghai fanno l’Italia!) concentrati dentro un cerchio urbano di cento chilometri di diametro, è assolutamente spiazzante. Ci sono arrivato di sera, accolto dalla fantasmagoria di luci di centinaia e centinaia di grattacieli svettanti, una vera e propria Disneyland dell’architettura più spericolata in cui si raccolgono tutte le grandi trasnazionali del pianeta, non ne manca una. Shanghai oggi è la vera porta della Cina: da lì entra il lavoro, l’innovazione, lo sviluppo. Lo era in verità, una gran porta d’accesso, anche nel secolo scorso quando, da quella porta, penetrò la modernità, commerciale e violenta, delle Concessioni. Altra cosa Shanghai rispetto ad Hong Kong che, invece, è la porta d’uscita: da Shanghai entra il lavoro industriale, da Hong Kong esce il lavoro trasformato in finanza. A Shanghai, del resto, è nato e si è moltiplicato il proletariato industriale. Ed è nato il Partito. Al n°106 di via Xingye, nella vecchia casa di una ex Concessione francese, trova sede il Museo del Primo Congresso. In quelle stanzette, il 1° Luglio 1921, dodici delegati in rappresentanza dei 57 comunisti cinesi di allora (avete letto bene, cinquantasette!) fondarono il Partito e si misero in un cammino che li portò su quel palco da cui nel 1949 Mao (uno dei dodici, altri tradirono) annunciò la vittoria dei comunisti sui nazionalisti del Guomindang. Sulla parete della stanzetta sta tuttora affissa, a fianco di un ritratto di Marx, la famosa frase del Presidente “una scintilla può appiccare il fuoco alla pianura”. Per davvero la pianura cinese è in fiamme, ma con la scintilla di quella modernizzazione “denghista” in corso e che a Shanghai più di altrove si rappresenta, che forse il vecchio Mao era lontano dal concepire così.
La megalopoli ha due volti o più. Se guardi in alto, intuisci ad esempio il globo bianco del sole velato da una perenne foschia grigiastra e soffocante, se guardi in basso, dietro le quinte dei grattacieli, scopri tanti parchi verdi e bei viali con gelsi secolari. Se, ancora, giri lo sguardo sulla città infinita vedi ovunque agitarsi le braccia di gigante delle gru che indicano i lavori in corso per l’Expo 2010 – enorme attesa, grandi aspettative per davvero diffuse – se lo abbassi sulle strade vedi la moltitudine degli operai in movimento, che vanno o tornano di giorno e di notte dai cantieri, donne e uomini in tuta blu ed elmetto giallo, il proletariato è in marcia, la base del tutto sono loro, ora come allora. Ti viene perciò in mente una delle “città invisibili” di Italo Calvino, appunto la città dei due volti, Moriana. Shanghai è una immensa Moriana. Se poi la giri in taxi – tantissimi, costano pochissimo, tutti Wolkswagen (dov’era la Fiat in questi ultimi dieci anni?) – non puoi non ammirare a bocca aperta la città palcoscenico dove, sotto i grattacieli, va in scena con cento e cento contraddizioni, l’innovazione rappresentata anche dalla passerella grandi marchi, come fosse una via Condotti di Roma o una via Montenapoleone di Milano, ma moltiplicati in mille e mille outlet e Mall. Se, infine, sull’angolo di un Mc Donald o di un Pizza Hut, ti infili nelle quinte del gran palco, dentro il labirinto delle vie laterali, ti appare subito il popolo e una città diversa, pulsante e vera, l’altra città che quasi quasi ricorda la Napoli dei vicoli e dei bassi: negozietti, mercatini colorati dove ti vendono palle di riso cotte al vapore o frittelle, giardinetti pettinati, nessun assalto di venditori al turista, nessun mendicante e, sui marciapiedi fuori casa, famigliole chiassose sedute che mangiano pescando verdura o pesce da pentoloni in perenne bollore su fornelletti traballanti.
Forse Shanghai è la metafora della Cina, Asia ed Europa insieme, paese in cammino accelerato in cui il vecchio ed il nuovo appunto si fondono.
3 – Le due velocità del grande balzo viste da Dalian
C’eravamo andati in Cina costiera, per cercare di capire qualcosa del lavoro e, in particolare, del lavoro industriale. E abbiamo così visitato fabbriche soprattutto tessili, sia a Dalian che a Shangai. Che queste visite e i tanti colloqui che le hanno accompagnate, rappresentino uno spaccato veritiero del tutto proprio non saprei dirlo. Comunque a Dalian abbiamo visitato la Trands, una media azienda, in Cina il metro di misura è un pò diverso rispetto all’Italia, di 11mila dipendenti. Ci accompagnava la signora Li Gui Lian, una simpatica sessantenne dai modi spicci. Sarà un caso ma, anche in seguito, abbiamo incrociato tante donne nei punti di comando (avranno applicato in giallo le quote rosa?). Trands produce uniformi, in 5milioni di capi l’anno, e altri 5milioni di capi soprattutto maschili ma di livello medio-basso, indirizzati sia al mercato interno che all’esportazione in Corea, Usa, Inghilterra, Germania. In Italia avevo sentito dire che la Cina è la sartoria del mondo, a Dalian ho avuto la percezione che sia proprio così. Ma ho visto altro che, ancora in Italia, avevo ancora sentito affermare dal Ministro del Commercio Bo Xii Lai, già sindaco proprio di Dalian, e in visita due anni fa al nostro Paese: “In Cina – raccontava il Ministro agli imprenditori italiani – esiste oggi una fascia di quasi 200milioni di persone che ha maturato una capacità di acquisto di prodotti in fascia alta e, per stare all’abbigliamento, vuole e può vestire italiano”. Anche il sindaco attuale di Dalian, Mr. Xia, ci raccontava la stessa cosa e alla Trands l’abbiamo verificata. Infatti, in un enorme capannone con duecento macchine per cucire sempre in azione, duecento sartine confezionano, su disegno si badi di due stilisti italiani, 10mila abiti uomo l’anno, abiti di buon livello che adattati al gusto cinese, vengono venduti, appunto, solo ai cinesi ad un prezzo variabile dai mille euro a capo sino ai 3.500 euro per i capi “su misura”. E l’offerta, si lavora su tre turni, non regge all’incalzare della domanda interna. Se non è una novità questa. La domanda (l’altra) anch’essa incalza: e il salario? Questo è il nodo, almeno per me. Alla Trands per 46 ore alla settimana è di 2.500 – 3.000 euro l’anno. In questo dato – 2.500 euro l’anno per confezionare capi che possono costare l’uno altrettanto o più – è rappresentata la contraddizione del miracolo cinese, fenomeno a doppia velocità: esplosivo, come reddito, per quella fascia alta di consumatori di cui ci raccontava il Ministro, lento per la classe operaia della Cina costiera, lentissimo (ma questo non l’ho verificato ma solo ascoltato) per i lavoratori dell’interno e quelli delle zone rurali. Certamente gli sforzi giganteschi, il “grande balzo”, per combattere la piaga della povertà sta dando risultati straordinari ma, in questi risultati che sarebbe disonesto non riconoscere, ci sono questi elementi di una ricomposizione sociale tuttora da conquistare. La marcia continua per riportare al centro della società quelle tute blu con gli elmetti gialli, lo sviluppo, per dirla con Confucio (oggi si può citarlo anche in Cina) deve essere armonioso.
4 – Ricercatori cinesi e cercatori d’oro italiani. Il Partito che c’è ma non si vede e il Sindacato che non c’è e forse si vedrà.
A Shangai abbiamo visitato la Shantex, un complesso di 30mila dipendenti (tanti quanti la Fiat di oggi in Italia), una holding che lavora su tutta la filiera del tessile. La Shantex è una fabbrica modello, il suo presidente, il signor Xi Shi Ping, è anche il primo segretario del PCC di Shanghai, il che non è poco. A tal proposito il Partito, di cui ho incontrato i dirigenti, mi ha dato l’impressione di essere ovunque ma assai diffuso e penetrato dentro i gangli della società, non oppressivo, non una sovrastruttura di apparati così come invece mi era apparso talvolta in Unione Sovietica, ma riconosciuto come guida. Questa percezione di riconoscimento la trovi anche, ad esempio, nei cinesi che lavorano in Italia, lo vedo a Milano nello storico quartiere di Paolo Sarpi, ove i cinesi si sentono non dissidenti in fuga ma donne e uomini parte di un progetto globale. Ma la mia è solo un’impressione. Quel che più mi ha colpito della holding Shantex, che fattura due milioni e mezzo di dollari, è la consistenza, a monte della filiera, del comparto ricerca di 800 ingegneri operanti su tutta la gamma larga di una produzione che va dai semilavorati, ai tessuti di cotone e sintetici, dagli ignifughi, alle linee di intimo maschile e femminile sino alle linee bambino del brand Walt Disney. Una produzione indirizzata per il 60% all’esportazione (la sartoria del pianeta) e, in 5mila punti vendita alla Cina. Ragionando ancora sulla consistenza della ricerca mi sono ricordato di un dato che forse spiega, più del costo del lavoro, il perché la Cina del tessile (e non solo) fa passi da gigante sul terreno dello sviluppo e perché l’Italia procede come i gamberi: in Italia l’unica facoltà del tessile di cui disponiamo (Bersani e Mussi, sveglia!) sforna solo dieci ingegneri l’anno, mentre la Cina ne mette sul mercato 25mila; fatte ovviamente le debite proporzioni (la popolazione cinese è venti volte quella italiana) resta il fatto che sugli ingegneri tessili il rapporto non sia di 1 a 20 ma di 1 a 2.500. Qualcosa non torna per l’Italia del tessile, e non solo del tessile. Non si perde solo nella competizione di prezzo ma si è sconfitti in quella della qualità. Eppure c’è un grande apprezzamento per i tessuti italiani (particolarmente per i filati di lana), per gli accessori (borse e scarpe), per i macchinari e, ovviamente, per la creatività e il design, e ci viene pressantemente rivolta, tanto a Dalian quanto a Shanghai, la richiesta di collaborazione, di partnership, di azioni comuni per, e qui ritorna il richiamo al punto di svolta, per il mercato cinese. Sarebbe questo l’approccio positivo al mercato globale e liberalizzato che però vuole si giri pagina in Italia, questo lo dico io, rispetto a quelle delocalizzazioni in Cina costiera praticate da imprenditori italiani, quei cercatori d’oro che chiudono bottega in Provincia di Milano o Vicenza, con tanto di licenziamenti a carico della collettività (provando a speculare successivamente sulle aree lasciate dismesse) per poi importare in Italia prodotti del lavoro cinese con il marchio contraffatto “made in Italy”! Quando la Cina alzerà il livello dei salari, l’annuncio è dato, che faranno mai questi nostri emigranti esentasse?
Ho poi chiesto, e c’era una ragione, di visitare la tintoria della Shantex, dove si trattano anche i tessuti della Lacoste di tutto il mondo. Accompagnato dal direttore, la signora Maria Ma, ho avuto confermate le impressioni raccolte a Dalian ma con un elemento in più, interessantissimo per noi alle prese con la Legge 30. Infatti, in quella grande tintoria di tuttora 3mila operai, servita da una centrale termica a carbone (e lo si sente nell’aria) da 250 Mw, l’anno scorso hanno licenziato 1.500 lavoratori (era poi questa la ragione della richiesta della visita) ma non per un crollo di committenza ma in seguito alla sostituzione delle macchine obsolete. Ecco, se c’è una cosa che mi ha colpito nelle poche fabbriche visitate è la convivenza sullo stesso sito di macchine sorpassate, che l’Italia ha abbandonato, con sistemi sofisticatissimi di cui l’Italia non dispone. Ancora si rappresenta l’immagine del vecchio e del nuovo insieme. Un mistero come possano convivere. Un mistero se non ci fossero quegli ingegneri a monte e quelle tute blu con gli elmetti gialli a valle a fare miracoli. Fatto sta che in Shantex il nuovo ha fatto un salto in avanti ma ciò ha comportato esuberi, diremmo noi, di 1.500 operai delle vecchie linee. Che si fa in questo caso, a quale Centro per l’Impiego si sono rivolti? Ho appreso, me l’ha detto anche la signora Ma e poi l’ho verificato, che c’è una indennità “alimentare” di buona uscita ma negoziata singolarmente con i lavoratori (del Sindacato, almeno in Shantex, non ho percepito presenza) e, la ricollocazione in altri lavori, a Shanghai è pressoché immediata. Se un problema, perlomeno qui, non c’è è proprio quello del lavoro. Non sarà la tanto decantata Flexsecurity danese, ma ci assomiglia. Se non altro però la Cina si sta dotando di una legislazione del lavoro che la Danimarca, esempio che vorremmo copiare in Italia, non si propone affatto di sostenere.
5 – Con il Governatore e all’università: lo sviluppo è sempre innanzi tutto ma…
Ma è l’incontro con il Governatore del Distretto di Huang Pu, la giovanissima signora Guo Fang, ancora le donne sulla plancia di comando, che ci consente di comporre in sintesi gli spunti di viaggio raccolti sino allora. Huang Pu è uno degli otto Distretti in cui è composta la megalopoli di Shanghai, è la circoscrizione dell’ “innovazione, moda e design”, e il Governatore di questa “città nella città” di due milioni di abitanti, il doppio di Milano, ha tutti i poteri del Sindaco. Oggi, ci ripete pazientemente la signora Guo, lo sviluppo è in testa a tutte le priorità della Cina e, nel suo distretto, sviluppo vuol dire anche ristrutturare palazzi e aree per adibire, gli uni e le altre, a centri commerciali e di ricerca di altissimo livello. In effetti ce ne siamo resi conto quando abbiamo visitato il cantiere dell’area di Nanjing Lu, sul lungomare, dove si sta intervenendo con tempi serratissimi sulla struttura molto particolare e ardita dell’ex macello di Shanghai costruito dagli inglesi ai primi del Novecento, per adibirlo appunto a esposizioni di cui, la prima, sarà già nel novembre di quest’anno, con la Shanghai International Creative Industry Week. Ma la cosa più interessante, che la signora Guo ancora ci racconta, risiede nel doppio superamento in corso che già avevamo ascoltato più e più volte durante visite e incontri. Quello della fase praticata di rallentamento della produzione spinta per l’esportazione. Se, ad esempio, fino a ieri le vendite della Cina verso gli Usa aumentavano al ritmo del 30% all’anno, da oggi si devono ridurre al 7-8%. Parallelamente va superata la fase dell’accoglienza vantaggiosa dell’investitore straniero, quello che poi importava i prodotti del lavoro cinese nei paesi d’origine, da superare con l’accelerazione dell’accoglienza ancor più vantaggiosa dell’investitore, e guardano all’Italia, che invece vuole coniugare ma per il mercato cinese (questo il filo conduttore del tutto) creatività, design, intraprendenza, macchine e tessuti italiani con l’enorme capacità produttiva che è data dalla combinazione di questo software con quegli ingegneri, quei ricercatori e quelle centinaia di milioni di tute blu con l’elmetto giallo che, da oggi, vogliono lavorare per il proprio benessere e non per il profitto dei cercatori d’oro di lontani paesi capitalisti o di qualche pescecane locale. Perché c’è anche questo. E la Cina non ci chiede solo il bello, per stare al tessile/abbigliamento, non sfilate di modelli impossibili da portare per le cinesi e i cinesi, ma ci chiede l’utile e ci chiede il comodo. E soprattutto ci chiede un approccio competente e rispettoso di una cultura millenaria. In questa direzione avevo l’anno scorso appreso con grande interesse di quell’accordo italo-cinese di interscambio di culture e che ha portato oggi, alla grande Fudan University di Shanghai, una trentina di giovani studenti milanesi, avanguardia di quanti sono destinati a sostituire, su un altro piano, i cercatori d’oro brianzoli o trevigiani. Avevo appuntamento con uno di loro. Una curiosità: la prima cosa che hanno dovuto fare questi ragazzi appena arrivati nella città universitaria, un campus immenso a dieci chilometri dal centro, è stata quella di comperarsi la bicicletta per girarsela questa città lungo grandi viali alberati. Il mito dei cinesi in bicicletta sopravvive almeno all’università. Questi giovani italiani studiano la Cina, studiano il cinese, studiano la filosofia marxista, studiano l’economia. Una cosa, dopo quegli incontri dei giorni precedenti, mi interessava approfondire con quel giovane italiano che studia con giovani cinesi. “Ma qui – la mia domanda – sono tutti d’accordo con questo sviluppo?”. La risposta è che sono tutti d’accordo – questa la sua opinione – su una apertura al mercato necessaria per uscire dall’arretratezza, ricollocando la Cina come grande potenza economica e politica nel mondo. La questione perciò non è “se” aprire al capitalismo, ma “come”. Su questa base sorgono i problemi: questo sviluppo, che avvia al superamento dell’arretratezza, trascina con sé, così come è ora, grandi ineguaglianze, contrapposizioni di interessi, classi. La discussione è serrata: vanno date voci e come a queste classi? Riesce a rappresentarle il Partito Comunista della “futura umanità” quale garante della stabilità nella trasformazione? Questa è la discussione che, assai esplicita, circola apertamente nell’Università, soprattutto tra i cinesi e, credo circoli nel Paese. Intanto sul piazzale della Fundan il Grande Timoniere ci guarda dalla fissità della sua statua, visto dai giovani solo come un padre nobile della patria. Ma la rivoluzione culturale del 1966 è dimenticata. Chiudo con due brevi riflessioni che ho maturato nel corso della visita, l’una sull’economia, l’altra sulla politica.
6 – I cinesi ci copiano? Proviamo noi a copiarli.
Esiste una previsione secondo cui, pur rallentando il ritmo di crescita dello sviluppo, la Cina fra trent’anni diventerà la maggiore economia del Pianeta. E che la maggiore economia del Pianeta sia diretta da un Partito Comunista che, per allora o assai prima, si propone di chiudere la forbice sociale tra ricchi e poveri, è un dato già ora di enorme rilevanza. Interessante è capire come è stato possibile realizzare questo primo grande balzo della “rivoluzione denghiana”. Che tutto, come sostengono taluni anche a sinistra, si riconduca al luogo comune secondo cui i cinesi ci copiano i prodotti, si colloca nella banalità e nella superficialità di un approccio che invece merita analisi approfondite. Ad esempio, mentre noi inseguivamo l’abbaglio del “piccolo è bello”, la Cina formava saperi e attraeva talenti. Accenno solo alle procedure del progetto con gli elementi e i dati raccolti nel viaggio, così come li ho capiti io. Mi soffermo su due settori dell’economia: quello dell’automobile e quello dei computer.
L’azienda statale Shanghai Automotive Industry (Sai) costruiva, sino a vent’anni fa, trattori per il lavoro nelle campagne. In sede di Governo a quel tempo venne sottoscritta un’intesa tra Sai con Wolkswagen e General Motors. Così la Sai cambiò missione. Quei taxi di Shanghai furono il primo prodotto dell’accordo ma, quest’anno, la Sai lancerà la prima utilitaria cinese che sarà prodotta, entro il 2015, in due milioni di esemplari di cui un milione e mezzo per l’acquirente cinese. E pensare che, a suo tempo, lo stesso Governo cinese aveva ufficialmente chiesto alla Fiat un progetto di mobilità urbana e, quindi, certo l’auto ma non solo auto, ma ne aveva ottenuto il rifiuto. La Fiat non guardava all’Asia ma al Sud America, con quel che è poi successo. Un solo dato che misura la potenzialità oggi del mercato dell’auto in Cina, e di tutta una filiera che va dalla gomma, al laminato d’acciaio, ai freni: se oggi negli Usa ci sono 940 veicoli ogni 1.000 abitanti in età per guidarli, in Cina sono solo otto i veicoli ogni mille persone, ma la popolazione cinese è cinque volte superiore a quella degli Usa. Il margine è immenso. Lascio sullo sfondo i problemi, anch’essi enormi, che comportano le emissioni dei motori a scoppio che vorrebbero già oggi dai paesi industrializzati, e non solo dalla Cina domani, investimenti possenti su altri motori, che però non vengono prodotti per il boicottaggio dei signori del capitalismo che controllano le fonti dei combustibili fossili a partire dal petrolio.
Secondo esempio. Sempre vent’anni fa esisteva un’azienda commerciale cinese, la Legend, che distribuiva personal computer di marche straniere. Poi Legend si industriò nel creare propri Pc per il mercato interno. Definì così una joint venture con Microsoft e cambiò nome in Lenovo. La marcia, da allora, divenne inarrestabile, tanto che l’anno scorso Lenovo ha addirittura comperato la divisione Pc di Ibm Mondo, fino al punto di trasferire il proprio quartier generale nel Nord Carolina. E’ la Cina, paradosso, che oggi delocalizza.
Sullo slancio di questi esempi, me ne hanno raccontati altri cento, continuare ad affermare che la Cina avanza perché copia prodotti e sistemi, significa cogliere il filo d’erba e non vedere la prateria. La Cina sta valorizzando con grande acume i propri asset e sfida l’Occidente. Anche Francia e Germania lo stanno facendo e si specializzano per correlarsi all’avanzata del “distrettone Cina”. L’Italia, che invece ha venduto i propri asset al peggior offerente, si trova di converso ad essere in competizione con la Cina sulle produzioni povere che la Cina prima o poi ci lascerà ma sta andando, è andata, fuori mercato su tutto il resto. Regge solo come subcommittenza in punti specifici delle filiere di qualità, ma ha perso le filiere. Aspetto, almeno nell’economia, una svolta dal Governo ma sono pessimista. Chiudo questa riflessione con una provocazione. La Cina ci copia? Cominciamo noi a copiare la Cina almeno nel ruolo che deve assumere, se non con un Partito che in Italia non c’è, almeno con lo Stato già iniziando ad almeno consorziare imprese per conferire alle stesse la dimensione competitiva per correlarsi con dignità all’economia del gigante.
7 – La locomotiva ha lasciato indietro i vagoni. Al Partito Comunista il compito del riaggancio sociale.
La locomotiva va forte e nelle aree speciali va molto forte. Un dato dell’ultimo agosto ci dice di una crescita che è all’11,3% ma, sempre ad agosto, si è registrato anche il picco dell’inflazione più alta degli ultimi nove anni (6,5%). Aumenta quindi il costo della vita e aumentano i prezzi, quello della carne in particolare. Certo, il dato è ancora assai lontano da quel 18% che fu una delle cause scatenanti, altre ne vennero aggiunte, della rivolta di Tienanmen del 1989, ma ho visto circolare una certa preoccupazione negli amministratori. Oltretutto i cittadini, quelli che possono farlo, stanno stornando risparmi alle banche per “giocarseli” in Borsa. Brutto segno. La locomotiva va forte, molto forte, perché le condizioni produttive sia per l’industria locale che per le joint venture con gli stranieri, restano estremamente favorevoli e non risultano scalfite nemmeno dalle campagne di propaganda che, di volta in volta, vengono orchestrate contro la Cina: dall’aviaria, alle contraffazioni, sino allo scandalo che ha coinvolto la partnership con la statunitense Mattel. Questi attacchi non lasciano traccia perché sulla Cina ci sono troppi interessi. Non solo è la sartoria del mondo, ma ha accumulato tutti i rottami di ferro che servono per la produzione di acciai (è l’altoforno del mondo e così fra non molto controllerà navalmeccanica, elettromeccanica, industria degli elettrodomestici, dell’auto, dell’edilizia, ovunque ci sia necessità di acciaio) e, in campo finanziario, è il primo creditore del debito degli Usa di cui la Cina di fatto è diventata la Banca. La Cina della rivoluzione denghiana è, perciò, una potenza planetaria ma resta quel problema: la locomotiva va forte, molto forte, troppo forte e rischia di lasciare indietro i vagoni. Le aree speciali staccano le aree rurali, quei 200milioni di ricchi staccano il miliardo di non ricchi e la fascia dei poveri che, pur ridotti, restano il problema dei problemi. Nell’ottobre del 2007 si apre il XVII congresso di quel Partito Comunista che nacque in quella stanzetta di Shanghai nel luglio di 86 anni fa. E all’ordine del giorno del congresso si colloca di fatto l’analisi delle conquiste come quella degli squilibri che le conquiste hanno incorporato. So che il dibattito nel PCC è molto serrato e non va ridotto alla banalità dello scontro, che pure c’è, tra innovatori e conservatori. I riflettori di tutto il mondo saranno accesi sulla Cina, oltretutto il 2008 sarà l’anno delle Olimpiadi di Pechino, e l’evento verrà usato per cento scopi. Aspettiamocelo. Mi sembra però che già un fatto, ma lo dico con estrema prudenza, pare muoversi nella direzione giusta: quello del tentativo di ricomporre la forbice sociale aperta. A gennaio infatti andrà in vigore la “riforma del lavoro”. Una specie di statuto dei lavoratori che si muoverà nella direzione, così almeno ho letto, sia del lavoro a tempo indeterminato, sia del ruolo di un Sindacato di cui, nel viaggio, non ho avuto traccia. Il mio però resta un viaggio troppo breve per avere idee consolidate in un paese così grande. Mi domando solo, per concludere questi appunti: cosa mai penseranno i cercatori d’oro stranieri a partire da quelli italiani che, novelli Marco Polo, avevano chiuso bottega in Italia per inseguire in Cina il lavoro a costo sempre più basso e senza diritti, quando si troveranno a fare i conti in Cina con quello che hanno avversato in Italia?
fonte : www.gramscioggi.org