Brasile e America Latina, una nuova fase

L’America Latina sta attraversando una fase di importanti mutamenti politici. Il dato di maggior rilievo è stata l’elezione, con un suffragio schiacciante (53 milioni di voti al secondo turno, pari a quasi il 60% dei votanti) di Luis Inacio Lula da Silva, del Partito dei Lavoratori (PT), sostenuto da un’ampia coalizione elettorale che vedeva nel suo nucleo centrale il Partito Comunista del Brasile (PcdoB) e contava pure sulla partecipazione di formazioni di centro, come il Partito Liberale (PL), che ha espresso il vice-presidente, il senatore José Alencar, un imprenditore nazionalista del settore tessile.

Lula ha conquistato la presidenza della Repubblica nel maggior paese del sub-continente (8,5 milioni di Kmq, oltre 170 milioni di abitanti) con un programma di cambiamenti politici, economici e sociali, tra cui una profonda democratizzazione dello Stato, l’attuazione di un nuovo modello di sviluppo, con giustizia sociale, redistribuzione della rendita e sovranità nazionale, riforma agraria e avvio di un processo per far avanzare il Paese sulla strada del progresso sociale. La vittoria di Lula ha suscitato enormi aspettative e speranze nel popolo brasiliano che, come egli stesso ha detto nel discorso della vittoria di fronte ad una massa enorme che accalcava l’Avenida Paulista, “ha vinto la sua paura”.

Cause e significato della vittoria di Lula

Il trionfo elettorale delle forze progressiste e della sinistra brasiliane interrompe un ciclo storico di dominio delle oligarchie conservatrici, antidemocratiche e subalterne ai centri del potere internazionale che si sono succedute nel comando dello Stato nazionale fin dalla proclamazione della Repubblica, 113 anni fa: un periodo segnato anche da golpe militari e dittature, alcune di tipo fascista, come quella durata per ben 21 anni in una fase recente (1964-1985). Per la prima volta nella storia del Brasile, sale al vertice del potere nazionale una forza politica democratica e progressista, con la peculierità – anch’essa inedita – di un presidente con una esperienza di vita epica.

Originario dei settori più poveri del Brasile profondo, emigrò in tenera età in una San Paolo che già stava trasformandosi nel maggior centro industriale del paese alla metà del secolo scorso, passò parte della sua infanzia come venditore di strada, frequentò la sola scuola primaria, divenne meccanico tornitore, fu operaio nella filiale di una grande multinazionale dell’auto, dove divenne sindacalista. Presidente del sindacato dei metallurgici di San Bernardo (città del polo industriale di San Paolo), guidò importanti scioperi operai alla fine degli anni ’70, in pieno regime militare. Fece il suo battesimo di fuoco nelle lotte sociali, per approdare successivamente alla politica come fondatore del PT.

Lula ha vinto le ultime elezioni presidenziali dopo tre sconfitte anteriori: 1989, 1994, 1998. Bisogna capire perché oggi ha vinto. Politologi dalla vista corta, ma con opinione influente nei grandi mezzi di comunicazione, attribuiscono la vittoria di Lula a fattori meramente congiunturali e ad una abile operazione di “marketing” elettorale, sovrastimando il ruolo della pubblicità rispetto alla politica. Non si tratta affatto di negare che Lula ha saputo superare anche questo ostacolo, trovando la forma giusta per infrangere o neutralizzare i pregiudizi innominabili di una classe media cosmopolita e gretta, che frequenta Miami due volte l’anno, ma che ignora le periferie dei grandi centri urbani del proprio paese, dove si concentrano moltitudini immense di miserabili. Né si possono eludere i limiti oggettivi della situazione. Lula vince le elezioni in un contesto sfavorevole di rapporti di forza, in una società essenzialmente conservatrice, sotto la pressione neoliberale ed il forte ricatto dei potentati del capitale finanziario, creditori del debito del Brasile e detentori dei capitali che finanziano i conti esteri del paese, il che lo ha costretto a fare alcune concessioni programmatiche, soprattutto inerenti all’accettazione di alcuni aspetti di una linea macroeconomica imposta dall’ultimo accordo col Fondo Monetario Internazionale (FMI). In questo scenario, il PT ha reso compiuta la sua conversione socialdemocratica, arretrando e meritandosi così l’elogio delle classi dominanti locali e delle forze liberali d’America e d’Europa. Ma nulla di tutto ciò, di per sé, può spiegare la sconfitta di una forza politica solidamente installata al potere, come era il gruppo guidato dall’ex – presidente Cardoso.

La vittoria di Lula corrisponde al fallimento delle politiche neoliberali dei due governi successivi di Fernando Henrique Cardoso, che hanno portato il paese alla bancarotta finanziaria, a una estrema vulnerabilità verso l’estero, a un insopportabile debito interno ed estero, alla svalutazione della moneta nazionale nei confronti della valute forti, alla stagnazione economica, a una disoccupazione e precarizzazione del lavoro senza precedenti, al crollo dei redditi da lavoro, a una economia di penuria, aggravando tutti i problemi sociali storici e strutturali del paese.Il Brasile, con una linea dettata dal FMI e supinamente accolta dai governi precedenti, si è trasformato in un’ impresa in cui le eccedenze della produzione agricola servono a finanziare un debito pubblico che supera il 60% del PIL. Con un cappio di restrizioni monetarie ed elevatissimi tassi di interesse che lo strangolano. La logica che ispira tale orientamento è il contenimento della crescita e una gestione delle eccedenze esportabili al fine di ottemperare religiosamente ai precetti del debito estero.

Il paese è esausto per l’attuazione prolungata di tale politica. L’indicatore dell’esaurimento di tale modello, al di là dei fenomeni economico-finanziari menzionati, è la crisi sociale che si riflette nei 50 milioni di brasiliani che vivono sotto la linea della povertà e nell’esplosione di una allarmante violenza urbana, che provoca annualmente circa 30.000 morti in azioni violente di vario tipo. Obbiettivamente, il Brasile è giunto alla fine di un ciclo. Il neoliberismo ha condotto il popolo e la nazione ad una situazione limite, la cui prosecuzione produrrebbe sofferenze enormi, comprometterebbe irrimediabilmente l’avvenire del paese e potrebbe portare la società a uno stadio inaudito di degradazione. E’ questa consapevolezza, giunta per varie vie al nostro popolo, che ha prodotto una vittoria così schiacciante per Lula; in lui il popolo ha identificato l’interprete delle sue inquietudini.

La vittoria di Lula è anche il risultato di una accumulazione di forze prodottasi nella società brasiliana a partire dalle lotte contro il regime militare (pacifiche e violente, legali e clandestine, elettorali e armate), passando per la campagna per elezioni dirette (1984), per l’Assemblea Costituente (1986-1988) e innumerevoli lotte politiche e sociali, tra cui le citate campagne elettorali presidenziali.
Il trionfo elettorale delle forze progressiste brasiliane è anche il frutto di una maturazione politica della sinistra, che ha trovato la via per sfuggire all’isolamento e ha compreso che un fronte ampio e l’unità di tutte le forze rappresentava lo strumento fondamentale della vittoria. Di grande importanza in questo ambito è stato il contributo del Partido comunista do Brasil (PCdoB), che con la sua esperienza e densità politica e ideologica, è stato protagonista essenziale della costruzione di quel nuovo pensiero politico che ha orientato la campagna. L’elezione di Lula, imperniata su un fronte ampio, è stata la forma concreta per misurarsi con gli attuali rapporti di forza nel mondo e in Brasile, fortemente segnati dall’offensiva conservatrice e di destra contro le forze del cambiamento e rivoluzionarie.
Almeno nel caso brasiliano, è stato provato che, per affrontare una situazione con tali caratteristiche, è necessario creare ampie coalizioni e adottare piattaforme in grado di unire larghe masse attorno ad obiettivi concreti chiari. In Brasile, in virtù della sua formazione economica, sociale e politica, emergono tre questioni chiave intrecciate tra loro: la questione nazionale, perché il Brasile è estremamente dipendente, la questione democratica, perché dietro un regime costituzionale formale, la democrazia brasiliana è monca, e la questione sociale, perché il capitalismo in Brasile è socialmente iniquo e portatore di diseguaglianze territoriali e sociali insopportabili.

Una tendenza generale che investe tutto il continente

L’installazione di un governo delle forze progressiste in Brasile apre la possibilità di cambiare i rapporti di forza nella regione. La vittoria di Lula, inoltre, si inserisce in una sequenza di fatti che stanno caratterizzando il continente.
In Ecuador, dove regna l’instabilità politica ed economica, accompagnata da un esplosivo deterioramento delle condizioni di vita del popolo, dove l’economia è stata “dollarizzata” e dove si sono avvicendate importanti crisi politiche negli ultimi cinque anni, l’ex colonnello Lucio Gutierrez, anch’egli alla testa di un’ampia coalizione di forze politiche e sociali, ha vinto le elezioni presidenziali, sorpassando i candidati delle oligarchie. Gutierrez si era caratterizzato, nello scenario politico, per aver assunto la leadership della ribellione indigena-popolare del gennaio del 2000, un movimento popolare di un’estensione e una profondità tali da mettere in crisi il governo e aprire una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria nel paese andino.

Argentina, Bolivia, Colombia: cresce la spinta popolare al cambiamento

Tutto sta ad indicare che è in via di formazione una forte tendenza che segnerà per molto tempo l’evoluzione politica nella regione. Essa punta al rafforzamento delle lotte e dell’impegno per trasformazioni di fondo nell’ordine costituito. D’altra parte, anche se percorrendo vie diverse, essa è venuta manifestandosi in Argentina, con la clamorosa uscita di scena del governo di Fernando de la Rua. L’Argentina è la manifestazione più eloquente e acuta del fallimento del modello neoliberale. La ribellione popolare che ha spazzato via De la Rua non si è trasformata in rivoluzione, per la mancanza del fattore soggettivo, la cui più evidente dimostrazione è la frammentazione delle sinistre. Ma da essa è venuta la creazione di un nuovo movimento sociale, combattivo, nelle strade, che a poco a poco si va trasformando in fattore progressivo, che spicca in mezzo al caos conseguente alla carenza delle istituzioni. I grandi assenti sono la politicizzazione e la costruzione dell’unità.

Lo scenario politico latino-americano è stato fortemente caratterizzato recentemente anche dalla memorabile campagna elettorale di Evo Morales in Bolivia, che ha raccolto i sentimenti anti-oligarchici e antimperialisti di estesi strati della popolazione; dagli avvenimenti in Venezuela, dove i tentativi di golpe, i sabotaggi e l’interferenza diretta degli Stati Uniti non riescono a bloccare l’impeto trasformatore trasmesso alla popolazione dalla rivoluzione bolivariana; dalle nuove possibilità che si aprono in Uruguay, rappresentate dalla crescita del “Frente Amplio” e dal suo consolidamento come principale forza politica del paese; dalla ripresa del movimento popolare in Perù, dopo la fine della dittatura di Fujimori. In Colombia, il regime di emergenza di un governo di estrema destra, che ha scelto la via della militarizzazione esasperata, non riesce ad annientare la lotta armata. Il conflitto colombiano continua a sollecitare una ripresa del dialogo e la ricerca di soluzioni giuste e durature.

A tutto ciò si somma il movimento unitario che si sta costruendo contro l’ALCA, che trova le sue radici nella medesima coscienza nazionale che ripudia le privatizzazioni e il pagamento dei debiti, a spese delle condizioni di vita dei popoli. I due plebisciti realizzati in Brasile – quello dell’anno 2000 sul debito estero e quello del 2002 a proposito dell’ALCA – sono fatti paradigmatici di tale sentimento, come lo sono anche gli incontri continentali che hanno avuto luogo l’anno scorso in Ecuador e a Cuba, l’XI Incontro del Forum di San Paolo ad Antigua in Guatemala, così come il III Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre all’inizio del 2003.

Tutto ciò sta ad indicare una nuova tendenza e un nuovo clima politico nella lotta sociale. Ma è ancora insufficiente per cambiare sostanzialmente i rapporti di forza. E’ una tendenza che richiede del tempo per affermarsi ed assumere un carattere antimperialista più nitido, dato che, per ora, essa è fortemente influenzata da forze vacillanti e “intermedie”. Nella forma e nelle linee concrete, è una tendenza variegata, che si manifesta con ritmi diseguali nei differenti paesi e la cui intensità corrisponde ancora a un quadro di forze condizionato dalla sconfitta del socialismo come sistema mondiale e dall’egemonia della superpotenza Usa.
Ma ciò che è più importante è che l’essenza del fenomeno è rivoluzionaria.

Controllo egemonico e minacce USA

Nel suo insieme l’America Latina vive la fine di un ciclo, che coincide con la crisi del neoliberismo e di un ordine internazionale ingiusto, che deve estinguersi per aprire la strada al progresso sociale. La stagnazione, la dipendenza e la vulnerabilità esterna costituiscono le caratteristiche centrali della situazione economica.
Con variazioni di ritmi e forme, a seconda delle specifiche situazioni nazionali, l’America Latina ha vissuto gli ultimi quindici anni sotto il segno del “Consenso di Washington” e degli accordi con il FMI, le cui ricette sono l’aggiustamento fiscale permanente, la flessibilizzazione delle legislazioni del lavoro, l’apertura economica e finanziaria indiscriminata, le privatizzazioni generalizzate e il pagamento puntuale del debito estero.
Per l’applicazione di tale ricetta, è venuto a crearsi un sistema istituzionale di “democrazie controllate”, regimi politici che, dietro una facciata formalmente democratica, hanno limitato la rappresentanza popolare e hanno usato i parlamenti come cassa di risonanza del potere esecutivo.

Questo tipo di governo è la garanzia del controllo politico da parte dell’imperialismo nord-americano e degli organismi finanziari internazionali, dopo il superamento della fase dei regimi militari. Si è venuto a formare una specie di consorzio di interessi tra i settori delle classi dominanti locali e il capitale finanziario internazionale, che si è messo a dettare le regole della politica economica attraverso il FMI, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. In sostanza, sebbene non sempre si manifesti in tal modo, è contro questo ordine, contro questo nefasto dominio imperialista, che si sviluppa l’attuale movimento sociale e politico in America Latina.
Il processo politico in corso in Brasile e nell’insieme del subcontinente, mentre apre molte speranze di trasformazioni politiche, economiche e sociali, e la possibilità di mutamenti nei rapporti di forza, contiene allo stesso tempo molti rischi e minacce per la democrazia e la sovranità dei popoli e dei paesi latino-americani.
Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di considerare l’America Latina il proprio “cortile di casa” e tutta la loro strategia di dominio egemonico del mondo parte dal presupposto che al centro dell’impero ha validità quella clausola irremovibile, secondo cui l’America Latina è integrata in modo definitivo nella sua area di influenza. Per questo è pura illusione immaginare che, poichè gli Stati Uniti sono impegnati in Medio Oriente, in Asia Centrale e nell’Estremo Oriente, essi riducano il loro impegno volto ad esercitare il controllo economico e politico del subcontinente.
Dove risiedono le principali minacce?

Primo, nella riaffermazione da parte dell’imperialismo nordamericano che, indipendentemente dallo sviluppo delle situazione politica, gli Stati Uniti non cederanno spazio, non rinunceranno al controllo dell’America Latina. Questa posizione è emersa chiaramente durante la crisi venezuelana, quando il governo Bush si è collocato apertamente a fianco dell’opposizione al governo di Caracas e ha proposto l’allontanamento del Presidente Hugo Chavez. E si è manifestata con altrettanta chiarezza in relazione alla proposta brasiliana di costituire un gruppo di paesi amici, alla quale il governo Bush ha reagito, prima combattendola e poi, quando la proposta è passata, esigendo di essere parte integrante del gruppo. La reazione degli Stati Uniti all’ elezione di Lula in Brasile e di Gutièrrez in Equador è esplicativa di come la superpotenza del Nord stia interpretando i cambiamenti politici in corso. Nel momento stesso in cui invitavano Lula a visitare la Casa Bianca, prima ancora del suo insediamento come nuovo Presidente, avanzavano minacce non tanto velate, dimostrando che non erano disposti a tollerare mutamenti politici e cambiamenti di rotta. “Lula e Gutièrrez possono essere di sinistra, ma in quanto democratici saranno sicuramente pronti ad essere amici dei loro vicini e degli USA…potremo lavorare tranquillamente con loro per la libertà e la sicurezza dell’Emisfero”, ha dichiarato Otto Reich, sottosegretario di Stato Usa per l’America Latina.

ALCA un progetto di dominazione neo-colonialista

In secondo luogo, la strategia degli Stati Uniti consiste nell’esercitare il controllo egemonico utilizzando la forma dell’ “integrazione”, attraverso l’Area del Libero Commercio delle Americhe (ALCA), area che dovrebbe entrare economicamente in vigore nel 2005.
Il progetto di una integrazione commerciale e della formazione di un “mercato comune” delle Americhe è una vera e propria finzione, rispetto alle colossali disuguaglianze tra l’ economia degli Stati Uniti e quelle dei paesi della regione: in verità l’ALCA è parte di un disegno strategico dell’imperialismo nordamericano volto a rafforzare il proprio dominio in America Latina.
Una volta realizzato, il progetto dell’ALCA implicherà un salto di qualità nelle già tradizionali relazioni di dipendenza economica e politica tra la gigantesca potenza dell’Emisfero nord ed i paesi centro e sudamericani. Si tratta del più ambizioso, egemonico ed estensivo piano di nordamericanizzazione ed integrazione subordinata mai concepito dagli USA verso l’America Latina. E’ un progetto di dominazione neocolonialista, di vassallaggio, nel quale i paesi che si integreranno si trasformeranno in appendici e colonie degli Stati Uniti. Il processo di costituzione dell’ALCA sta procedendo velocemente.
L’approvazione da parte del Congresso USA e l’inizio dei negoziati concreti, con la consegna da parte di ognuno dei paesi delle offerte di riduzione delle tariffe, agli inizi del 2003, sono stati i passi per l’avviamento concreto dell’ALCA. L’integrazione proposta dagli Stati Uniti, che piega agli interessi nordamericani anche l’Accordo Multilaterale per gli Investimenti (AMI), si ridurrà ad un disastro economico per tutti i paesi latinoamericani, favorendo irrimediabilmente la svendita della loro sovranità.

Rischi di collasso finanziario

Sono prevedibili le conseguenze nefaste di quel progetto di integrazione: allargamento e approfondimento del modello neoliberale; apertura totale delle economie, col conseguente abbattimento delle residue difese nazionali; creazione di una zona economica privilegiata per i grandi gruppi economici e finanziari nordamericani; nuovi sacrifici per i lavoratori, flessibilizzazione ulteriore del lavoro e abbattimento dei diritti. Sul piano politico sarà inevitabile un forte restringimento della vita democratica : i paesi non si reggeranno più sulle loro Costituzioni, che rischieranno di divenire lettera morta, ma saranno governati dalle leggi e dalle norme sovranazionali. All’ALCA si aggiungono altri piani strategici: il Piano Puebla-Panamà, da applicare all’America Centrale e al Caribe e il Piano Colombia – Iniziativa Regio-nale Andina, volto ad intervenire politicamente e militarmente nel conflitto colombiano. Come si vede, si tratta di un progetto generale denso di pericoli.
Il terzo grande rischio che oggi incombe sull’America Latina ed in special modo sul Brasile è quello di un collasso finanziario. Da molti anni il Brasile dipende, sia per ciò che riguarda il proprio bilancio interno che per il pagamento del debito estero, dai vari e successivi accordi col FMI. E’questo il problema centrale, il vero nodo dell’economia brasiliana, è questo il principale ostacolo allo sviluppo nazionale e alla costruzione di un modello alternativo, che possa basarsi sull’indipendenza nazionale e sulla giustizia sociale. Già prima delle ultime elezioni e soprattutto dopo l’insediamento del nuovo governo, le principali pressioni esterne e le maggiori preoccupazioni del nuovo gruppo dirigente erano relative, appunto, a tale questione: al rapporto dell’economia brasiliana col FMI. Tra il 1° e il 2° turno, il sottosegretario al Tesoro Usa, Kenneth Dam, ha dichiarato:“ Gli Stati Uniti sono disposti a collaborare con il governo Lula, a condizione che adotti politiche sane, basate su di un bilancio equilibrato ( senza giri di vite fiscali), con un controllo dell’inflazione e nel rispetto dei contratti firmati ( tra i quali quello, da rispettare scrupolosamente, del pagamento del debito)…gli aiuti economici del FMI sono sempre a disposizione, a condizione che vi siano politiche giuste ”.
Il governo Lula ha sin qui scelto di cedere a tali pressioni esterne. La politica economica annunciata e messa in pratica nella fase di transizione, guidata da un ex trotzkista convertito al monetarismo e divenuto ministro delle Finanze, e dall’ex presidente della Banca di Boston nei confronti della Banca Centrale, ha molte somiglianze con la politica economica del governo precedente. Questa politica prevede un’agenda di “riforme” della Previdenza Sociale, della struttura tributaria del Paese e del sistema finanziario ( concessione dell’autonomia alla Banca Centrale) in sintonia con il progetto delineato dagli organismi finanziari internazionali.
Questa politica economica è il paradosso del governo di Lula, che si rivela un governo attivo, avanzato, ricco di iniziative positive sul piano sociale e in politica estera. Ma il paradosso della linea economica rischia di arrestare il processo riformatore, di deludere le aspettative del popolo brasiliano, che continuano ad essere grandi, fa correre il grande pericolo al governo Lula di perdere la fiducia popolare.
Il problema della politica economica, il rischio di non poter avviare un nuovo modello di sviluppo nazionale e promuovere la giustizia sociale, saranno le questioni al centro del dibattito politico. Il governo di Lula è egemonizzato da un partito di sinistra eterogeneo, il PT, entro il quale si ritrovano diverse forze e orientamenti politici e culturali, da quella socialdemocratica – che rappresenta la maggioranza – a gruppi di ultra-sinistra. Il governo conta sul sostegno del PCdoB, che vi partecipa anche a livello ministeriale; un partito che da oltre 80 anni ha una sua esistenza autonoma e indipendente. Nel governo sono anche presenti partiti di centro, che rappresentano importanti frazioni delle classi dominanti. E’, dunque, un governo di centro-sinistra ( definizione che in Brasile e in America Latina non ha la stessa valenza e connotazione che ha in Europa), plurale, eterogeneo, che riunisce un vasto fronte di forze politiche. Tutto ci dice che all’interno di questa coalizione si alterneranno fasi di unità e fasi di lotta interna. L’unità vi sarà quando gli interessi nazionali e popolari – contemplati nella piattaforma elettorale di Lula – convergeranno. Le fasi di lotta emergeranno quando si tenterà di dare corpo ad un progetto antagonista e alternativo della società brasiliana, quando si tenterà il passaggio dall’attuale fase di subordinazione al neoliberismo ad una fase di sviluppo economico segnata dal progresso sociale, dal rafforzamento e dall’allargamento della democrazia.

Possibilità di nuovi rapporti di forza in tutta la regione

Il Brasile si è rivelato più volte, negli ultimi decenni, un Paese dalle grandi potenzialità, per ciò che riguarda la lotta per la trasformazione sociale. Il governo Lula, per la sua natura e per la capacità che ha in sé di unire un nucleo maturo di sinistra brasiliana – di cui fanno parte i comunisti – può essere una trincea avanzata di questa lotta. E può dare un contributo decisivo per un cambiamento dei rapporti di forza a favore dei popoli dell’intera regione.
Questa lotta per la trasformazione, nella fase attuale di globalizzazione imperialista, deve necessariamente articolarsi e rinvigorirsi all’interno di ambiti internazionali, quali il Forum di San Paolo ed il Forum Sociale Mondiale.
Il Forum di San Paolo è e continuerà ad essere per molto tempo, un luogo dove costruire convergenza e unità delle forze della sinistra latinoamericana e caraibica. Dopo i suoi undici incontri, il Forum di San Paolo è ormai uno degli appuntamenti di maggior rilievo mondiale per ciò che concerne la confluenza unitaria delle forze progressiste internazionali. Conver-genza non significa monolitismo, non cancella le differenze. Anche al suo interno sono presenti l’unità e la lotta, tra concezioni “terzaforziste” e adattative e concezioni strategicamente rivoluzionarie.
Il Forum Sociale Mondiale, dopo i tre incontri di Porto Alegre, si è consolidato come un luogo di riflessione, dibattito e lotta contro la globalizzazione imperialista. Avendo posto al centro temi politici quali la lotta per la pace, la lotta contro l’ALCA e la questione dell’ordine economico e finanziario neoliberista, il Forum si è politicizzato, dando con ciò, nei fatti, una risposta alle mitologie che teorizzano una presunta estraneazione dei movimenti sociali dalla lotta politica, e al loro presunto rifiuto di ogni prospettiva politica. Lungi dall’affermare che il “movimento dei movimenti” sarebbe la via per il superamento della “crisi generale della politica”, il Forum Sociale Mondiale ha avvicinato i movimenti sociali alla politica. I rapporti con i partiti politici, in questo contesto, sono divenuti una questione di modalità. Così come la questione ineludibile del congiungimento delle lotte nazionali con le lotte e le iniziative di tipo internazionale. L’interazione tra i due momenti si è imposta nell’esperienza e nella pratica. Gli avvenimenti in corso in Brasile e in tutta l’America Latina sono la migliore conferma che questa linea è quella giusta e necessaria.

(Traduzione a cura della redazione)

L’autore ha pubblicato di recente : Conflitos Internacionais num mundo globalizado, Ed. Alfa Omega, Sao Paulo, 2003