“Fino al 1938, cioè fino a un minuto prima della firma delle leggi razziali, io credo che sia molto difficile giudicare il fascismo in modo complessivamente negativo”: così sentenziava nel 1994 Gianfranco Fini. Nella sua recente intervista, Berlusconi è andato oltre, cancellando persino la limitazione temporale accortamente fatta valere dal leader post-fascista e dipingendo il regime mussoliniano nel suo complesso come un autoritarismo paternalistico e benevolo, che non si sarebbe macchiato di fatti di sangue. Ben si comprende lo sdegno della comunità ebraica: le leggi razziali del 1938 sono solo l’inizio di una parabola, al termine della quale vediamo la repubblica di Salò partecipare attivamente allo sterminio degli ebrei.
Almeno su questo punto il presidente del Consiglio è stato costretto a fare marcia indietro, ma per il resto è rimasto fermo alle sue posizioni. Sono così cancellate le imprese sanguinarie delle squadracce fasciste, mentre ad una bagattella sono ridotte le condanne inflitte dal Tribunale speciale. Soprattutto, completamente rimosso è l’orrore delle guerre coloniali. In Etiopia le truppe fasciste ricorrono all’impiego massiccio di iprite e gas asfissianti, ai massacri su larga scala della popolazione civile, ai campi di concentramento, all’annientamento degli intellettuali e di tutti coloro che possono contribuire a mantener desto il senso dell’identità di un popolo (inoppugnabile è la documentazione raccolta in primo luogo da Angelo Del Boca). In modo analogo si comporta il regime mussoliniano in Jugoslavia. Prima ancora dell’aggressione, la propaganda nazionalista e fascista parla degli slavi come “banditi” e barbari irrimediabilmente estranei alla civiltà (si vedano a tale proposito i pregevoli studi di Enzo Collotti). E, dunque: “Il sangue di un nostro fante vale di più che le carogne immonde di cento banditi”. A ben guardare, non si tratta neppure di uomini ma soltanto di “omuncoli”: la categoria di Untermenschen che presiede alla campagna di sterminio del Terzo Reich in Europa orientale, stimola anche i massacri dell’Italia fascista nei Balcani; se per i nazisti gli Untermenschen superstiti possono essere solo degli schiavi o semi-schavi al servizio del “popolo dei signori”, per i nazionalisti e fascisti italiani gli “omuncoli” che sfuggono all’annientamento costituiscono il “popolo minuto servile”.
Così profonda è la rimozione di queste vicende che anche la grande stampa d’informazione le passa sotto silenzio: non ha difficoltà ad accontentarsi delle scuse rivolte da Berlusconi alla comunità ebraica. È la conferma della sottile vena razzista che continua ad attraversare la cultura e l’ideologia dominante. Per dimostrare la loro affidabilità come uomini di governo “occidentali”, prima Fini e ora anche Berlusconi devono prendere le distanze dall’antisemitismo, cioè dalla persecuzione ai danni di un popolo a suo tempo bollato come “orientale” dal nazi-fascismo ma che ora viene considerato parte integrante dell’Occidente. Non c’è invece bisogno di alcuna riflessione autocritica per quanto riguarda l’opera di de-umanizzazione teorica e pratica e i massacri consumati a danno dei popoli tutt’ora bollati in quanto estranei e ostili alla civiltà e all’Occidente.
In tal modo perde di efficacia e persino di credibilità la condanna dell’antisemitismo. Proprio la storia del colonialismo italiano dimostra in modo clamoroso l’intreccio che lega il razzismo anti-ebraico e il razzismo a danno dei popoli coloniali. Proprio perché il fascismo chiama i popoli coloniali ad essere una riserva di forza-lavoro servile, ed una riserva che si riproduce per trasmissione ereditaria, il fascismo condanna come folli e criminali i rapporti sessuali ed i matrimoni inter-razziali: bisogna impedire “ogni mescolanza con gli indigeni” e ogni “promiscuità sociale” – proclamano i ministri Alfieri e Lessona; è necessaria la più rigida segregazione. D’altro canto – conclude il Duce in persona – perché il regime di apartheid sia privo di varchi, è necessario che la “dignità” e la purezza della razza dominatrice vengano fatte valere non solo “nei confronti dei camiti, cioè degli africani”, ma anche dei semiti, cioè degli ebrei. Dopo il varo della legislazione antisemita, la parabola del delirio razzista raggiunge il suo apice nella repubblica di Salò: l’appello ai giovani ad arruolarsi “affinché i negri, al servizio dell’Inghilterra, non contaminino il sacro suolo” della patria, va di pari passo con la consegna degli ebrei ai nazisti e la concreta collaborazione col Terzo Reich per la “soluzione finale”.
Come si vede, la condanna magniloquente dell’antisemitismo accompagnata dal silenzio sulla persecuzione razziale e sui massacri a danno dei popoli coloniali è inaccettabile sia sul piano storiografico che su quello etico. Si tratta tuttavia di un silenzio che, se pure illogico e immorale, è comunque comprensibile sul piano politico. Intanto, una riflessione autocritica su quest’ultimo punto non può limitarsi a chiamare in causa solo il fascismo. È per prima l’Italia liberale a rinchiudere gli arabi in un campo di concentramento, ed è dell’Italia liberale di Giolitti che Lenin parla allorché denuncia la guerra scatenata contro la Libia come «un macello di uomini, civile, perfezionato, un massacro di arabi con armi “modernissime”», che non risparmia nessuno: «”per punizione” sono stati massacrati quasi 3000 arabi, si sono depredate e massacrate famiglie intere, massacrati bambini e donne».
D’altro canto, non si tratta solo del passato. L’orrore dell’universo concentrazionario colpisce oggi in primo luogo arabi e mussulmani. Basti pensare a Guantanamo, dove senza processo vengono sepolti, in un inferno che suscita lo scandalo della Croce Rossa, i sospetti di “terrorismo”, compresi vegliardi della quarta età e ragazzi che non hanno ancora raggiunto l’età dell’adolescenza. O si pensi ai complessi carcerari in cui Israele rinchiude, sempre senza processo, migliaia di palestinesi, in condizioni così orribili che talvolta gli stessi ufficiali chiamati a far da aguzzini avvertono il bisogno di ricorrere ai tranquillanti (cfr. Yariv Gonen, in La Stampa del 18 aprile 2002). Non bisogna dimenticare neppure l’Irak: in contrasto con ogni norma di diritto internazionale, gli ex-dirigenti politici catturati dagli invasori dileguano nel nulla, dove sono raggiunti da coloro che le forze di occupazione rastrellano casa per casa.
Ora tutto è chiaro. Nessuno chiama Fini a render conto della sua apologia di fascismo “fino a un minuto prima della firma delle leggi razziali” del 1938 e del suo distaccato sorvolare sui crimini coloniali commessi dal regime mussoliniano ben prima di quella data. Al contrario, il sullodato personaggio è divenuto il beniamino degli Stati Uniti e, a quanto pare, anche di Israele. A sua volta, Berlusconi può già fregiarsi del riconoscimento che un’organizzazione sionista statunitense gli ha conferito, nonostante le vibrate proteste di autorevoli intellettuali di origine ebraica.
A giudicare dagli ultimi sviluppi della situazione politica, non mancano i motivi di contrasto tra il presidente e il vice-presidente del Consiglio, e il secondo, riscoprendo finalmente i diritti degli immigrati, si rivela ancora una volta più abile del primo. E, tuttavia, entrambi i personaggi dimostrano di aver appreso e assimilato molto bene la formula che conduce al successo in politica: omaggio e obbedienza al despota planetario che siede alla Casa Bianca, salamelecchi dinanzi ai dirigenti israeliani e ai circoli sionisti più aggressivi ma, per il resto, come amava dire il Badoglio post-fascista, “la guerra continua”: continuano cioè la guerra e le infamie di ogni genere, sul piano della memoria oltre che quello dell’azione politica e militare, a danno del popolo irakeno, del popolo palestinese e di tutti i popoli che hanno la sfortuna di incorrere nella scomunica e nell’ira dell’Occidente e, soprattutto, della superpotenza che ora pretende di rappresentarlo e di guidarlo.