Sinistre alla prova d’autunno. Sinistre al bivio: o si imbocca la strada dell’alternativa o si annuncia un autunno inteso come avvento di inverno (delle sinistre). E non esiste una via di mezzo. Si tratta perciò di porre in analisi, con le prospettive vicine e lontane, anche gli errori del passato e del presente, e capire come e perché esse (le sinistre) permangano tuttora nelle sabbie mobili della sconfitta. E, soprattutto, capire come uscirne, e quando, e con chi, e verso dove.
È la prova d’autunno. Non si scappa
A. Nell’analisi partiamo dall’Italia, decodificando la fase attraverso il filtro di fattori semplici: la guerra e Berlusconi. La proiezione del neoliberismo e il suo epigono. È la guerra americana e sono le nefandezze del Governo italiano – governo del “fascismo diluito” (così Luigi Pintor) – che in 17 mesi ha inanellato tali e tante sconcezze che richiederanno almeno un decennio per porvi rimedio, che esigono ora in risposta un forte “alzo di tiro” in mobilitazione, programmi e alleanze d’azione. Oggi la mobilitazione appare, programmi e alleanze ancora no. È il punto di partenza.
Allora i casi sono due: o si radicalizza lo scontro e si porta a unità su un primo obiettivo – altolà alla guerra e “Berlusconi a casa”– le forze che stanno scendendo in campo in questo autunno così diverso dai precedenti e si dà così profondità politica alla protesta e all’indignazione, oppure si fà un po’ di rumore, iniziativa per iniziativa. Ma poi si tirano i remi in barca o in attesa delle elezioni (ma le prime sono fra 20 mesi!), o in attesa di una nuova Genova dei movimenti, o in attesa di un miracolo della Fondazione di Sergio Cofferati, visto come il Padre Pio di una sinistra che, senza idee, si affiderebbe ai sogni per esorcizzare gli incubi.
Si decida questa sinistra politica al bivio, non lasci la scena vuota. Non è un caso che poi, su questa scena, oggi facciano irruzione registi, professori, sindacalisti. E i partiti?
Si alzi il tiro oggi e si fuoriesca dall’orbita dell’ultimo grande errore del centro sinistra (e di Cossutta) del ’98. Si colga la novità: il riaffacciarsi di una riscossa operaia – le ore di sciopero sono aumentate del 400% in un anno e sono due gli scioperi generali proclamati dalla CGIL in soli 6 mesi – che va composta con l’indignazione contro le destre che si percepiva già ai banchetti per i referendum di Rifondazione e della CGIL, indignazione montante che ha reso possibile la manifestazione di popolo ( e non di ceti medi) del 14 settembre. Questi due elementi indicano la strada da imboccare oggi al bivio, operando perché non succeda(penultimo grande errore) come con la mortificazione della lotta sulle pensioni del ‘94.
Ma oggi non basta quel risveglio per un alzo di tiro che orienti le tante lotte sparse sulla strada dell’alternativa – dalla scuola ai girotondi su giustizia e informazione, dai meccanici della FIOM alla resistenza alla Bossi -Fini, dalla Fiat che bisogna impedire che esca dall’auto, alla grande lotta della CGIL, fino ai no global – è necessaria la loro ricomposizione in una piattaforma complessiva che parli a grandi masse e faccia loro capire che cos’è l’alternativa di domani , la luce in fondo al tunnel della sconfitta, per la quale è sacrosanto battersi oggi. Non è sufficiente indignarci o disobbedire. Cambiamo il passo, alziamo il tiro.
Questo disegno tuttora non c’è e, questo disegno, non è un documento, pagine scritte, ma un progetto che parli di cose da fare e bisogni da soddisfare “per chi, con chi e contro chi”, e parli di valori, che non possono essere la stessa cosa per il pensionato e per il redditiere, parli di società, parli di prodotti strappati al mercato e ricondotti al “valore d’uso” e parli di ambiente, giustizia, libertà, democrazia, lavoro, pace. Parli di noi, costruito da noi. Ma non c’è. Si resta nel tunnel: indignati e arrabbiati taluni, rassegnati altri. Giriamo pagina: con questo autunno ci sono le condizioni di “pensare lottando”. Prepariamo la primavera.
B. Il disegno speculare invece c’è, ed è lucidissimo, portato avanti con cinica determinazione da questo governo” estremista per vocazione”. È un chiaro progetto di classe (il loro): è il disegno della redistribuzione della ricchezza strappata ai ceti meno abbienti per girarla a padroni e redditieri, a sostegno di un sistema che, per reggere, ogni giorno deve mangiare un po’ di industria, un po’ di Stato sociale. E il disegno si può realizzare solo se i ceti meno abbienti sono prepotentemente deprivati di diritti e ridotti a creta molle che il padrone modella a suo piacere.
Anche per questa ragione il nodo dell’autunno è: riportare le lotte e i fermenti, in atto e annunciati, dentro un alveo strategico che si incanali nella strada dell’alternativa.
Sinistre in cammino. Un cammino a tappe. In tre tappe: la prima consiste nel tenere alto il tono delle lotte di oggi; la terza consiste nell’avviare la costruzione di una grande piattaforma (un programma) della sinistra di alternativa; tra le due la tappa ponte, che consiste in una “piattaforma minima di fase” che, partendo da quella coppia – no alla guerra, “Berlusconi vai a casa”– costituisca il comune denominatore unificante delle lotte della stagione (l’alzo di tiro) e, insieme, costituisca la password , la chiave d’accesso, per il salto di qualità verso, appunto, il programma dell’alternativa che è “vero” alzo di tiro progettuale, quello che fa capire l’altra società, il nostro mondo. Nel complesso, opera impervia. Noi oggi siamo nella prima tappa, va perciò gettato il ponte del programma minimo di fase verso il programma di alternativa che vuole una sinistra di alternativa.
È un lavoro da comunisti.
Quali i contenuti di un programma minimo di fase? Quali quelli di un programma dell’alternativa? Quali gli ostacoli – culturali, concettuali, politici – che faranno da freno?
C. Programma minimo di fase è quello che parla dell’immediato ma già introduca idee per il salto superiore. E deve fare presa, far prendere coscienza degli interessi. Esso deve dire che: i salari vanno non solo difesi (è bestemmia riproporre la scala mobile?) ma aumentati; la riforma fiscale deve essere progressiva e siano oggi impedite quelle sanatorie premianti gli evasori; l’“esclusione sia esclusa” e il cittadino immigrato non sia cittadino di livello inferiore; il lavoro torni a tempo indeterminato per due ragioni, la prima è per offrire certezze alle nuove generazioni, la seconda è dovuta al fatto che solo con il “posto fisso” e non con la flessibilità si può riconquistare la qualità nella produzione che, oggi, è schiacciata sulla sola “competizione di prezzo” e regge con i contoterzisti e il lavoro sommerso (27% del PIL); l’industria che produce ricchezza va difesa e, nella stessa, vanno sottratte isole al mercato in cui riparlare di “imponibile di manodopera” in direzione della piena occupazione; la ricerca e l’innovazione vanno sostenute con il credito. Non è, questo pro gramma minimo, l’alternativa, l’altra società, ma vi allude. Apre finestre da cui si può vedere, appunto, la comunità “dei liberi e dei giusti”, che è il cuore del programma che vogliamo: l’altro mondo da conquistare strappandolo al capitale, sostenendolo con la lotta di un blocco sociale che, battendosi per se stesso, lotti per un’altra economia e per un’ altra società in cui non si debba più vivere da “lupo in mezzo ai lupi”. Un blocco che abbia al centro il lavoratore (industriale, dei servizi, autonomo, precario) di un nuovo proletariato, motore della trasformazione e soggetto della rivoluzione.
Questa la via: lotte dell’autunno, programma minimo di fase, progetto di alternativa. Se imbocchi l’altra via ti trovi a braccetto con Berlusconi con cui, mimando il conflitto, competi alla Tony Blair per gestire lo stesso modello.
In questo secondo caso è rappresentata tutta la crisi delle socialdemocrazie, l’impraticabilità della metafora di Olof Palme “andare al governo per far sgocciolare il profitto sui bisogni” che, dopo la caduta del contrappeso dell’Est socialista, si è rovesciato “nei bisogni spremuti sui profitti”. Se poi, sulla prima via, trovi chi pensa di saltare sulle spalle del movimento sindacale per farsi trasportare fuori dalle sabbie mobili della sconfitta, ebbene costui sappia che se alla lotta sindacale – in cui ti batti per il pane – non dai uno sbocco superiore – “il pane migliore che te lo dà il cambio del fornaio” sarà costretto a fermarsi quando il movimento si fermerà ottenuto o no il pane (contratto o articolo 18). Se poi trovi chi pensa di saltare sulle spalle al movimento no global (“il movimento ci salverà”) per uscire dalle stesse sabbie mobili, ebbene costui sappia che se a questo movimento – che si batte per un uso diverso della terra, dell’acqua, della materie prime, dei brevetti, dei farmaci – non si offre lo sbocco superiore che risiede nel controllo già nazionale dei processi, sarà costretto (questo movimento) a ridursi nella dimensione protestataria del “non ci sto” che non è incisiva sui rapporti di produzione. Se ci si dice “il movimento è tutto”, ci si sottrae al compito e si celebrano, oltretutto, congressi sbagliati, come il 5° di Rifondazione (la lingua batte…) in cui si fa l’apologetica del movimento con moderne fasi scarlatte. E non si fa il Partito, che dovrebbe invece indagare sul fatto che bastino o meno “i movimenti dal basso per costruire una comunità civile e radicale in grado di mettere in discussione la ristrutturazione capitalistica e la globalizzazione”. (Rossana Rossanda) E si rischia il fuorigioco politico: l’isolamento. E in effetti, DS e PRC oggi inseguono in affanno.
Sintesi: senza partiti i movimenti sono destinati a rifluire, ma senza i movimenti i partiti languono.
Autunno 2002: i movimenti ci sono, mancano i partiti. E i partiti ci vogliono per un progetto e uno sbocco. Del resto i signori del governo lo hanno capito benissimo.
Si ritrovi l’intelligenza e il coraggio di alzare il tiro, si sappia che dalla palude non si esce da soli, si comprenda che il movimento non è il Cireneo che porta la croce dei partiti. E ci si impegni nella lotta e nel progetto. Un tempo il PCI ci provò. Ma anni dopo si gettarono i semi della sconfitta di oggi che, quindi, non vede la genesi solo nel terribile ‘89 e negli errori successivi qui richiamati.
D. Anni e anni fa, quasi mezzo secolo, il PCI di Togliatti definì, dopo lungo e tormentato percorso, il suo “programma “. Era l’8° congresso. Quasi contemporaneamente la CGIL di Di Vittorio varò il “Piano del Lavoro”. Nei due casi furono i migliori intellettuali del Paese, in verifica continua con gli operai, i contadini e i tecnici d’avanguardia, a comporre gli elaborati.
Non è certo il caso di riprendere quei contenuti, in larga misura inattuali – l’Italia di allora era ancora paese prevalentemente agricolo – ma è il caso di dire che nelle due opere c’era forte l’idea dell’alternativa. Questa alternativa poi bussò per davvero alla porta della politica, 15 anni dopo: ma quella porta si dischiuse ma non si spalancò. Perché? La brevissima e ultima analisi che ora segue, si propone nella lettura dell’errore del tempo, la genesi della sconfitta, di rappresentare quanto da evitare in questo tempo, senza più alle spalle un partito formidabile quale fu il PCI.
Ripartiamo dagli errori del passato per costruire la sinistra alternativa del presente.
Si può dire così: con le lotte operaie e studentesche degli ultimi anni 60 e poi con i successivi referendum su divorzio e aborto in Italia, la scintilla si frantumò l’egemonia della DC. Un altro Governo è possibile – lo pensammo davvero – e quella progettazione di 15 anni prima arrivò al vaglio. Perché non passò se non per brevissima stagione? Per ragioni esogene ed endogene. Per la reazione feroce delle destre sostenute dagli americani, in primo luogo, e poi perché la tragedia cilena indusse a riflessione il PCI costretto al passaggio, sotto anche la pressione del brigatismo( la vicenda Moro), dal compromesso storico a quell’accordo capestro con la DC.
Le ragioni endogene, che si compongono con le pressioni esterne, sono da ricercare nella scelta che operò il gruppo dirigente del PCI di non incanalare la lotta nell’alveo di una strategia anticapitalistica. Questa scelta ebbe due conseguenze: la dissolvenza dell’impianto programmatico definito negli anni 50 dal PCI e dalla CGIL, la prima; la seconda consistette nel fatto che il ripiegamento dei comunisti consegnò la scena alla possente controffensiva a tutto campo del craxismo, che investì sull’individualismo piccolo borghese, sulle mille particolarità della società civile e disinvestì dal lavoro dipendente, incontrando su questo terreno anche altre teorie (l’operaio sociale ad esempio) in mutuo sostegno. Infine Craxi pose mano al pensiero di Marx e attaccò frontalmente l’operato di Togliatti, senza trovare resistenza nel PCI. Il deserto ideologico nel quale ci troviamo da 20 anni e passa, nasce dalla disarticolazione di allora.
Ma c’è un punto, nell’elaborazione teorica del PCI, che orientò il cambio dell’alveo, da anticapitalista a socialdemocratico. E fu quando la sua ala destra cominciò a sostenere che la democrazia poteva crescere nella pancia del capitale per migliorarlo progressivamente e che, quindi, la democrazia non era un mezzo da impugnare per un fine – rovesciare questa società e costruire la società del socialismo – ma era un fine in sé. Nel contempo l’ala sinistra spostava l’attenzione sui movimenti, allora invero imponenti – sono le lotte operaie e studentesche, è la lotta contro la guerra USA al Vietnam – e, dai movimenti, ricercava nuove forme di democrazia partecipata dal basso, dalla fabbrica al territorio. Queste forme però non ressero quando il capitale – non più indagato e non più avversato, anzi talvolta accompagnato nelle sue scelte economiche – passò al contrattacco. E partì dalla FIAT (licenziamenti, marcia dei 40.000, sconfitta operaia) e poi, come una carica di cavalleria, si lanciò sulla scala mobile e sulle deindustrializzazioni. Amara riflessione: non ci sarà stata più la classe operaia, come dicevano i cattivi maestri di ieri e di oggi, ma è dalla fabbrica e contro la classe operaia che la popola, che la grande borghesia fa scattare la lotta di classe e passa, oggi come ieri. Poi arriva l’89, Craxi è gettato via come un cane morto, la pervasività della globalizzazione scatta, con Achille Occhetto che, piegando verso la liberaldemocrazia, sparge il sale sulle macerie. Il resto è storia recente. Ma quelli sono gli errori, la genesi della sconfitta.
La conclusione è questa: i comunisti non possono vivere di sola tattica. Devono essere i protagonisti promuovendo i movimenti e non inseguendoli quando appaiono.
Devono però riemergere le grandi idee che sono l’orizzonte in cui va ripensato il nuovo programma e, con questa coppia definita – grande idea e programma – si operi nelle tattiche e nelle contingenze di fase, con le alleanze indispensabili per raggiungerlo. Ma il fine è uno solo: la società socialista dei liberi e dei giusti. Il marxismo sia il pensiero orientante, con le ricche letture e le sperimentazioni di Gramsci e Lenin. Le tattiche le più diverse, ma funzionali al fine. Il Partito lo strumento unico per avvicinare il fine e gestire i mezzi.