Autonomia delle esperienze organizzate e punto di fusione nel conflitto sociale

È ancora molto diffusa in Italia l’idea che esista “la sinistra” come insieme di forze politiche, sindacali e sociali che, al di là delle abissali differenze reali, possano vantare una qualche identità comune, un terreno programmatico comunque accomunabile. Sembrava che, almeno dopo l’aggressione alla Jugoslavia guidata dalla “sinistra” di governo, il discorso della “unità della sinistra” fosse chiuso per sempre: e che si riconoscesse definitivamente che la pare maggioritaria (malgrado l’importante rottura operata, in Italia, dal Prc) dell’esperienza organizzata comunista, socialista o comunque intesa “di sinistra”, era ormai trasmigrata – con una irreversibile accelerazione dopo l’89 – nel campo capitalista, ove oggi opera per la gestione politica del capitale di Stato e privato nazionale, nonché per il controllo/integrazione delle classi e ceti salariati e subordinati. Al di là dell’incredibile appiccicosità del mito dell’”unità della/delle sinistra/e”, è visibile anche ai ciechi la linearità del percorso della sinistra liberista, del PDS/DS, della grande maggioranza della Cgil e dei Verdi, nonché di cascami della storia comunista e socialista immessi nei governi di centrosinistra. È una irreversibile scelta di campo, una piena integrazione nella gestione dell’esistente, un programma che più di destra nn si può, una impostazione politica e ideale del centrosinistra che si differenzia dal centrodestra non più di quanto il Partito democratico Usa si distingua da quello repubblicano: insomma, due varianti quasi impercettibili dello stesso “prodotto”. Dunque, quando noi pensiamo a quali contenuti e forme organizzate possa avere oggi uno schieramento di sinistra, ci rivolgiamo a forze antagoniste/anticapitaliste che con tale sinistra liberista abbiano operato una cesura reale e che siano radicate nella società, sviluppandovi attività di massa. Peraltro, la penetrazione del dominio del profitto e della mercificazione in ogni poro della società sta allargando sorprendentemente il campo potenziale della contestazione all’esistente, sgretolando i vecchi recinti sociali della “destra” e della “sinistra” e rendendo disponibili a discorsi e lotte anticapitalistiche settori sociali fino a poco fa impensabili o indisponibili. Queste potenzialità, però, per realizzarsi esigono un raccordo efficace tra le forze dell’antagonismo e dell’anticapitalismo, un serio e permanente tentativo di articolare programmi comuni di fase e luoghi (Forum, Convenzioni, Consulte e Reti varie) in cui organizzare insieme conflitti e piattaforme, con una duttile alleanza che faccia salvo il diritto di ognuno di organizzarsi in piena autonomia e di essere coinvolto solo nelle iniziative che condivide: e tale alleanza non esige, a mio avviso, particolari vincoli o statuti, dovendosi costituire su temi e iniziative studiati e programmati consensualmente. Perché una tale alleanza abbia senso, però, essa deve essere stipulata tra strutture con effettivo radicamento sociale, politico e/o sindacale, che consenta loro di verificare/attuare quanto programmato: e non può certo ridursi all’assemblaggio di quadri politici, pur carichi di una loro storia, ma privi di qualsivoglia peso o attività nei vari settori sociali. Tanto più inverosimili appaiono proposte che richiedono – senza che neanche sia chiaro su quali basi programmatiche e con quali “confini” – che le organizzazioni esistenti operino una rapida eutanasia per far sorgere un nuovo soggetto politico – o, peggio, elettorale – quando peraltro tra tali organizzazioni non esiste uno straccio di programma minimo di obiettivi e iniziative a breve-medio periodo. Serve qualcosa di meno e qualcosa di più: meno velleità dirigistiche da generali senza esercito, più unità effettiva ed organizzata di programma e azione comune nella società. E sarebbe anche sbagliato il tentativo di comprimere le varie forme organizzate verso impossibili modelli unitari: è bene, anzi, che ognuno continui a parlare e sperimentare liberamente i propri “dialetti” sforzandosi però poi di usare una lingua comune, concordata, nelle sedi unitarie della auspicabile alleanza. Con la consapevolezza che molto sta cambiando nelle forme dell’azione politica, sociale e sindacale, che una certa fissità di ruoli è oramai cancellata per sempre e che la sperimentazione di nuove forme, pur non annullando le vecchie, le sottopone ad una inevitabile trasformazione. Di fronte alla necessità di ricostruire un nuovo blocco sociale e politico antisistema, non c’è un soggetto-guida sociale o politico che possa dare tempi e modi validi per tutti gli embrioni di anticapitalismo che si manifestano. Inoltre, forme di organizzazione come i Cobas (e in generale il sindacalismo antagonista), vari Centri sociali e parte dell’associazionismo diffuso, non si limitano più ad un ruolo circoscritto di opposizione settoriale ma – agevolati dalla connessione sempre più spinta tra meccanismi politici ed economici, nazionali ed internazionali, nonché degli strumenti di collegamento telematico – intrecciano il ruolo sociale e sindacale con quello politico e si danno una generale “visione del mondo”, solitamente caratteristica della forma-partito, non ponendo limiti a priori al proprio campo di intervento. Ad esempio i Cobas svolgono al contempo funzioni politiche, sindacali, sociali e culturali, rifiutando alla radice la separazione “novecentesca” tra tali attività, e valutando impossibile/autolesionista l’autoghettizzazione in dimensioni esclusivamente categoriali, economiciste, sorvolando sul contesto politico-sociale che ci circonda.

Credo, dunque, che si apra una fase sperimentale, durante la quale vari modelli coesisteranno, sperabilmente correggendo le rispettive storture e trovando forme di stabile cooperazione. Non essendoci per ora un elemento unificante, un collante – né ceto sociale né struttura organizzata né programma – dell’interesse collettivo del fronte anticapitalistico, il punto di fusione andrà cercato progressivamente nel conflitto sociale ed il piano organizzativo non deve contrastare con tale ricerca. Il diritto delle varie forze a mantenere organizzate le proprie esigenze in permanenza ha anche un carattere prefigurante: il “socialismo reale”, infatti, insegna che se il partito-Stato pretende di essere il rappresentante unico degli interessi di tutto il fronte anticapitalistico, non consentendo la libera espressione di ogni componente di esso, scompare qualsiasi criterio attendibile per interpretare i bisogni e le volontà dei vari settori sociali. E se si vuole superare il mercato come elemento-guida per decidere cosa, come, quanto, dove e perché produrre, come si fa a trovare un criterio superiore e democratico se non lasciando esprimere liberamente i vari interessi non capitalistici? Allora è bene che il fronte del lavoro salariato e subordinato si faccia le ossa, svolga le sue prove di unità fin d’ora, senza rappresentanti esclusivi, portati a vanificarne l’espressione libera.