Aspettative e realtà del movimento contro la guerra

*direttore di Contropiano

Ad aprile dello scorso anno, in troppi avevano prematuramente ritenuto che la guerra in Iraq fosse finita. A dimostrare il contrario sono state le contraddizioni seguite all’occupazione militare della coalizione guidata dagli Stati Uniti (Italia inclusa) e la sorprendente resistenza popolare che in Iraq si sta opponendo a questa occupazione. La realtà ci ha dimostrato che la guerra permanente continua ad essere lo snodo drammatico delle relazioni internazionali e delle loro ripercussioni interne ad ogni paese, incluso il nostro. È decisivo che il movimento di massa contro la guerra, che abbiamo visto riempire le strade di Roma un anno dopo la straordinaria manifestazione del 15 febbraio 2003, non si disperda nuovamente e non dichiari esaurita la sua azione dopo la giornata del 20 marzo.

PROPOSTE IN AGENDA
Il movimento per la pace deve al contrario aprire una riflessione di programma, capace di dare continuità alla sua iniziativa e che lo renda autonomo dalle ipoteche della governabilità e delle compatibilità internazionali che vincolano tuttora il nostro paese.
a) In primo luogo la partita del ritiro del contingente militare italiano in Iraq va giocata fino in fondo. Se è vero che il Parlamento ha approvato il mantenimento della missione militare, sarebbe inaccettabile ritenere questa partita come conclusa. Milioni di persone in Italia sono a favore del rientro dei militari italiani, sono contrarie al coinvolgimento del nostro paese nella guerra, e che, dopo gli attentati di Madrid, cominciano a vederne e temerne le conseguenze anche sul nostro territorio. Spetta al movimento dare espressione politica a questa domanda. I fatti di Madrid, la capacità di reazione popolare agli attentati e alle manipolazioni del governo Aznar e l’esito elettorale in Spagna ne dimostrano sia le possibilità che la funzione positiva che può essere svolta da una soggettività attiva del movimento. Dobbiamo chiederci e risponderci sul come mai questa capacità “soggettiva” in Italia non ci sia stata in occasione dei fatti di Nassirya. Aver accettato la lettura dominante del fenomeno e della categoria del terrorismo, ha impedito al movimento per la pace – che pure ha tra i suoi obiettivi il ritiro del contingente militare italiano dall’Iraq – di rovesciare le responsabilità dell’accaduto sul governo.
In tal senso, appare decisiva la costituzione unitaria del Comitato Nazionale per il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, con una conseguente campagna di massa che rovesci contro la maggioranza parlamentare che ha voluto mantenere le truppe in Iraq la maggioranza sociale che chiede il ritiro del contingente militare italiano, ed una diversa politica internazionale verso il Medio Oriente (incluso lo scenario palestinese). E questo passaggio va fatto entro quella data del 30 giugno che segna ormai una scadenza su cui il movimento non può far finta di niente, se non vuole annullare i risultati della manifestazione del 20 marzo.
b) In secondo luogo, è doveroso segnalare come i governi italiani negli ultimi dieci anni abbiano sistematicamente trincerato la propria subalternità e le loro ambizioni geopolitiche nei Balcani e in Iraq dietro gli automatismi dei trattati internazionali (vedi la NATO o l’alleanza “storica” con gli Stati Uniti). È successo così che le basi militari, i corridoi di sorvolo, i porti e gli aeroporti siano stati resi funzionali alla guerra senza alcun mandato. Lo stesso Parlamento ne ha potuto discutere a cose fatte. È accaduto nel 1995 per i bombardamenti NATO sulla Bosnia che partivano da Aviano, è accaduto nel 1999 per l’aggressione NATO contro la Jugoslavia con la piena corresponsabilità del governo D’Alema, si è ripetuto negli ultimi tre anni con il governo Berlusconi.
Si ripone dunque con forza la questione dello smantellamento delle basi militari straniere in Italia. GliStati Uniti e la NATO stanno allargando le basi militari della Maddalena, di Camp Darby, stanno costruendo nuove basi militari a Taranto, Malpensa e Brindisi, stanno stoccando segretamente le scorie nucleari in diversi siti. È decisivo coordinare le realtà locali che si battono contro le basi militari al movimento per la pace a livello nazionale, e coordinarlo con la rete internazionale contro le basi statunitensi che si è costituita al Forum Sociale Mondiale di Mumbay.
c) In terzo luogo, il contesto internazionale vede avviarsi una corsa al riarmo a livello globale. Le spese militari stanno ormai aumentando non solo negli Stati Uniti o in Asia, ma anche in Europa. Le richieste di scorporo delle spese per la difesa dai vincoli del Patto di Stabilità europeo avanzate da Francia e Germania ma anche dal Ministro della Difesa italiano Martino, sono indicativi di questa tendenza.
Le risorse sottratte alle spese sociali servono a finanziare l’economia di guerra e l’apparato militare statunitense, ma non possiamo nasconderci che servono anche a finanziare il progetto di esercito europeo, la cui attuale dottrina militare si ispira alla medesima logica della guerra e della proiezione offensiva sui teatri di crisi. Così come non possiamo nasconderci che insieme alle spese militari stanno aumentando le spese per la “sicurezza”, una categoria intesa ormai come fronte interno della guerra preventiva, che tende a rafforzare la repressione dei movimenti sociali e la militarizzazione della società. Coinvolgere su questo il movimento sindacale ed i movimenti sociali, significa aprire una vertenza di paradigma contro il sistema di guerra che va ormai permeando ogni ambito istituzionale, politico ed economico. C’è da lavorare molto nel sindacato, perché se il “No alla guerra” era tra i punti della piattaforma dello sciopero generale dei sindacati di base, questo era del tutto assente in quella dello sciopero generale dei sindacati confederali.

Per porre con forza la discussione e l’azione su questi contenuti siamo stati in piazza unitariamente il 20 marzo, ma abbiamo anche rilanciato la discussione ed alcune proposte nella assemblea nazionale, unitaria e di movimento, di domenica 21 marzo che aveva l’obiettivo di dare continuità alla mobilitazione contro la guerra. La guerra non è finita. Questa volta la mobilitazione non deve finire il 20 marzo.

LA RIMOZIONE DELLO “SPIRITO DI MUMBAY”

La scarsa pubblicità e la ridotta enfasi intorno al Forum Sociale Mondiale di Mumbay rispetto a quelli tenutisi a Porto Alegre, suscita e deve suscitare una profonda riflessione dentro il movimento che si è espresso in questi anni sul paradigma minimo del “no alla guerra e al liberismo”.
Colpisce che i numeri di febbraio e marzo di Le Monde Diplomatique, che pure è tra gli animatori principali di Porto Alegre, non abbiano trovato il tempo e lo spazio per un minimo di resoconto e riflessione sul Forum Sociale Mondiale di Mumbay. L’India era forse troppo distante dai centri dell’elaborazione politica e teorica del movimento no global? Eppure, in termini di distanze e di ore di volo, Mumbay è più vicino all’Europa di Porto Alegre. Le ragioni dunque devono essere altre. I resoconti e le testimonianze di chi ha partecipato al Forum di Mumbay concordano su un aspetto: l’eurocentrismo, male antico e incurato della sinistra europea, è uscito demolito dalla edizione indiana del Forum Sociale Mondiale. I più furbi, i più disattenti, i più superficiali hanno visto questa contraddizione solo nell’entrata in campo prorompente di soggetti sociali distanti anni luce dalla composizione di classe che siamo abituati a conoscere: i dalit, le donne, gli effetti dell’organizzazione della società in caste, i conflitti etnici e religiosi, i quali hanno imposto una loro obiettiva priorità all’agenda delle discussioni a Mumbay. L’impatto con le contraddizioni di un altro universo sociale, ha indubbiamente messo a dura prova le categorie maneggiate dalla sinistra europea che, nel migliore dei casi, era riuscita ad appassionarsi in questi ultimi dieci anni alla questione indigena in America Latina.
Ma l’eurocentrismo è stato messo alla gogna non solo sul piano della oggettività ma anche su quello della soggettività.
Le categorie della lotta politica usate ed abusate in Europa, negli Stati Uniti e in alcuni ambiti dell’ America Latina più integrati nella sinistra europea, sono state messe alla gogna dalla realtà sociale e politica in cui operano e vivono i due terzi dell’umanità. L’antiliberismo “leggero” della sinistra europea ha potuto misurare con mano il peso politico di chi – come recitava una scritta sui muri di Mumbay, – “ogni mattina si sveglia dal lato sbagliato del capitalismo”- o che si oppone al liberismo non nel cuore ma alla periferia dell’imperialismo.
In situazioni come quelle di un paese/continente come l’India o come l’Asia nel suo insieme, le giaculatorie sulla non violenza, il terrorismo o sulla religione, sulla governance come sintesi ideale tra crisi e conflitti sociali che qui in Europa sembrano appassionare tanto, scivolano via senza lasciare traccia, incluso il maldestro tentativo di rielaborazione europea dell’esperienza gandhiana che proprio una realtà come quella dell’India ha ormai abbondantemente rimosso.

L’ASSEMBLEA DI BOLOGNA E IL 20 MARZO: IL DIBATTITO NEL MOVIMENTO

L’onda lunga del FSM e del documento di Mumbay, nonostante i ten-tativi di rimozione e occultamento, è arrivata anche in Italia. Lo si è visto nell’assemblea nazionale delle reti e dei forum sociali italiani a Bologna (7 e 8 febbraio) e nella discussione sul documento di convocazione della manifestazione nazionale del 20 marzo contro la guerra. Il tentativo di imporre la scelta della non violenza e del “no al terrorismo” come discriminanti principali del movimento si è infranta contro una posizione alternativa, niente affatto minoritaria, che ha rigettato ogni ambizione dogmatica.
Una amplissima parte di questo movimento ritiene che le forme di lottavengono determinate dalla condizione concreta in cui la lotta avviene. Se in Italia la lotta politica informa pacifica è possibile ancora negli spazi consentiti dalla democrazia rappresentativa, ciò può non essere valido se questa condizione viene meno o in realtà dove la lotta pacifica è impossibile o è addirittura inefficace. Questa posizione, vista da Mumbay o dalle assemblee dei movimenti sociali di Porto Alegre, è ampiamente maggioritaria; al contrario sono altre le posizioni che appaiono minoritarie viste da ed in quel contesto.
L’aspro dibattito che c’è stato a Bologna non atteneva solo alla gestione del processo per i fatti di Genova 2001 (e quindi alla rivendicazione del diritto all’autodifesa e della decisione comune di forzare la “zona rossa”), ma anche a questioni come il riconoscimento del diritto alla resistenza dei popoli occupati e all’autonomia dei contenuti espressi in questi movimenti sul terreno della lotta alla guerra e al liberismo come elementi di “autonomia dal politico”.
La resistenza irachena all’occupazione coloniale anglo-americana (ma anche italiana) o quella palestinese all’occupazione coloniale israeliana, hanno posto con forza tale questione. Una parte del movimento ritiene legittima questa resistenza, una parte la vive come una difficoltà, un’altra come l’interfaccia del terrorismo internazionale inteso come il secondo anello della spirale – speculare alla guerra – che il movimento dovrebbe combattere.
Questa discussione è rimbalzata nella discussione che ha preparato il documento per la manifestazione italiana della mobilitazione mondiale contro la guerra del 20 marzo. La piattaforma della mobilitazione mondiale contro la guerra del 20 marzo ha ruotato intorno a due obiettivi fondamentali: la richiesta di ritiro di tutte le truppe di occupazione dall’Iraq e il riconoscimento del diritto di autodeterminazione del popolo iracheno.
A Mumbay, l’unica delegazione che ha insistito affinché nel documento finale ci fosse la condanna del terrorismo…è stata quella italiana. Ed è curioso, perché il problema non lo hanno posto gli statunitensi (che pure qualche problema in tal senso potrebbero averlo), né gli indiani (che pure fanno i conti con lo stillicidio di attentati causati dai conflitti religiosi ed etnici), né gli spagnoli o altri europei. Dovendo essere conseguenti e coerenti con l’appello lanciato dai pacifisti statunitensi e con il documento approvato a Mumbay, il documento per la manifestazione del 20 marzo conteneva un paragrafo in cui si ripudia il terrorismo, sia da parte di organizzazioni ed individui sia da parte degli Stati, e si denuncia l’uso antipopolare ed antidemocratico che viene fatto della campagna antiterroristica da parte dei governi.
Più avanti nel documento che ha convocato la manifestazione del 20 marzo, c’era un altro paragrafo che riconosce agli iracheni il diritto di resistere all’occupazione. Far accettare questo secondo punto – diverso per storia, sostanza e progetto dal primo – non è stato facile; anzi, su questo c’è stato un dibattito prolungato e il tentativo di depotenziare il punto in questione. Il tentativo non è riuscito perché lo sviluppo della situazione reale ha reso evidente la incongruenza delle forze e delle posizioni che riducono la fase storica e la realtà che viviamo ad una spirale tra guerra e terrorismo. Questa lettura è ormai fuorviante, diseducativa e del tutto inadeguata ad affrontare le conseguenze della competizione globale in corso tra i poli imperialisti e tra questi e i movimenti popolari nella periferia, incluso il terrorismo globale utilizzato apertamente e pesantemente da una delle frazioni impegnate in questa competizione (la nuova borghesia islamica che sottende ad Al Qaeda).
Aver rimosso nell’ultimo ventennio l’analisi dei processi reali, ha portato la sinistra europea a confondere continuamente l’albero con la foresta e, in finale, ad adagiarsi su una sistema di pensiero subalterno a quello dominante.
La rottura della concertazione mondiale avvenuta a Seattle, a Durban e a Genova, hanno trovato nel Forum Sociale Mondiale di Mumbay una sintesi quasi naturale, destinata ad ingombrare lo scenario politico dei prossimi anni. E una sintesi resa forte dai fatti (la guerra, la crisi economica, la competizione interimperialista), ed i fatti come noto hanno la testa dura. Ciò spiega la rimozione del FSM di Mumbay negli ambiti “tradizionali” del movimento e della sinistra europea, ma rende visibile anche la crescente sintonia tra le forze sociali reali in campo a livello globale e la sinistra di classe in Europa.
Ritengo inutile soffermarsi sulla questione relativa alla contestazione avvenuta nella manifestazione del 20 marzo a Fassino. Il dubbio sulla strumentalità dell’accadimento resta tuttora forte. In realtà c’è una questione più complessa che viene avanzando.
Il 24 marzo è stato il quinto anniversario della pagina più vergognosa della storia recente del centro- sinistra in Italia: l’inizio dei bombardamenti della NATO su Belgrado e la Jugoslavia nel 1999. Al governo allora c’era Massimo D’Alema, e le bugie di guerra date in pasto all’opinione pubblica cinque anni fa, non erano le armi di distruzione di massa mai trovate inIraq ma le fosse comuni… mai trovate in Kosovo.
Forse alla base del differenziale di fondo tra il movimento pacifista e la leadership dei DS c’è proprio la rimozione del e dal dibattito su quella scelta, su quel ruolo voluto e giocato dai DS al governo del paese con cui vennero presentate le credenziali ai poteri forti della guerra (la NATO, gli USA).
Questi poteri forti della guerra oggi sono divisi tra l’opzione statunitense della guerra preventiva e quella europeista dell’intervento militare multilaterale. Ciò spiega, in parte, la riluttanza dell’Ulivo a schierarsi apertamente per il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e la rivendicazione del ruolo positivo delle altre missioni militari all’estero, Afganistan, Kosovo e Bosnia incluse. Una posizione questa assai discutibile e altrettanto distante e diversa da quella invocata dal popolo della pace sceso in piazza massicciamente il 20 marzo, un popolo della pace che – dobbiamo ammettere – era stato assai più ristretto, incerto e per molti versi ambiguo cinque anni fa, quando le bombe “umanitarie” cadevano sulle città jugoslave, falciavano le colonne dei profughi o contaminavano di uranio ed altre sostanze tossiche i territori e i fiumi balcanici. Alcuni dei partiti di governo di allora (PdCI, Verdi, minoranza DS) hanno preso le distanze da quelle scelte schierandosi oggi apertamente contro la guerra, ma anche in questi ambiti una riflessione pubblica portata più a fondo sul “maledetto 24 marzo 1999” non guasterebbe.
Piero Sansonetti sull’Unità si chiedeva come mai un movimento capace di portare in piazza tanta gente avesse una rappresentanza parlamentare così esigua (solo 152 senatori e deputati su 955 hanno votato a favore del ritiro delle truppe dall’Iraq). La posta in gioco dei prossimi mesi appare proprio questa: la divaricazione tra le aspettative del popolo della sinistra e la rappresentanza politica oggi a disposizione.