In primavera gli italiani decideranno con il voto se l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori debba valere anche nelle aziende sotto i 15 dipendenti. La Corte Costituzionale ha infatti dichiarato ammissibile il referendum promosso dal Comitato ed appoggiato da Prc, Fiom, sinistra della Cgil, Verdi, Socialismo 2000 per estendere il diritto a non essere licenziati senza giusta causa anche nelle piccole realtà lavorative.
Tre anni fa il referendum dei radicali che chiedeva la cancellazione dell’art.18 non raggiunse il quorum e tra chi decise di esprimere il proprio voto prevalse il no.
Nello scorso anno, a Governo e padronato che tentavano la stessa operazione a suon di delega si è opposto un grande e composito movimento sociale di cui la Cgil è stata motore e perno.
Non essere licenziati senza giusta causa è un diritto fondamentale e irrinunciabile: soprattutto per affermare questo principio tre milioni di uomini e di donne hanno manifestato a Roma il 23 marzo del 2002.
Su quel criterio di civiltà, sull’irrinunciabilità di quel diritto hanno convenuto, più o meno sinceramente e convintamene, la Cgil tutta, la sinistra politica e buona parte del centro sinistra.
E’ stata sacrosanta la battaglia perché l’art.18 non venisse cancellato ed i lavoratori non fossero ridotti a merce.
Per questo fatico a comprendere le reticenze, i dubbi, quando non l’opposizione ad un referendum che altro non chiede se non che un diritto fondamentale sia di tutti.
Perché, infatti, un operaio dell’Iveco di Brescia, dell’Italsider di Taranto o della Zanussi, deve ave-re il diritto di non essere licenziato senza un valido motivo mentre il lavoratore di una piccola impresa può subire questo sopruso?
Cosa c’è di sbagliato nel chiedere che un diritto fondamentale non si fermi sulla soglia di un fabbrica con 14 dipendenti?
Sulla base di quale seria ragione ci si accusa di impedire lo sviluppo economico e occupazionale di una piccola impresa se viene impedito di licenziare una persona che svolge il suo lavoro onestamente?
Con grande convinzione abbiamo raccolto le firme nei luoghi di lavoro convinti che il modo migliore per contrastare chi vorrebbe imporci come unico criterio la legge del più forte, del mercato e della flessibilità sia dare ai lavoratori maggiori tutele e diritti. Ci impegneremo perché l’esito del referendum di questa primavera sancisca che la dignità delle donne e degli uomini che lavorano non abbia confini.
Non solo per affermare un valore, ma anche perché, quotidianamente, abbiamo a che fare con i guasti e le ingiustizie che la trasformazione dell’impresa ha prodotto e produce.
La divisione delle grandi e medie aziende in realtà di piccole e piccolissime dimensioni è un fenomeno ormai noto, così come il fatto che all’interno di una stessa impresa vengano applicati i contratti più disparati e le flessibilità più esasperate.
Ebbene, l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori porta con sé un’altra serie di diritti, a partire dalla libertà di manifestare liberamente le proprie opinioni politiche, sindacali, di fede e di religione, non ultimi i diritti sindacali fondamentali, come il diritto di sciopero.
Di fatto, nelle piccole imprese o nelle imprese grandi e medie che si smembrano i lavoratori non hanno la possibilità di essere rappresentati, di avanzare rivendicazioni sulla propria condizione di lavoro, di essere difesi. E’ proprio in queste realtà che lo sfruttamento non ha vincoli, che le condizioni di lavoro sono più dure, che gli incidenti si susseguono con maggior frequenza che i turni, gli orari, i carichi di lavoro vengono decisi dalla sola azienda con l’unico criterio della massima competitività.
E, allora, cosa c’è di sbagliato nel voler dar voce a quelle donne e a quegli uomini fino ad ora lasciati soli a fronteggiare lo strapotere dei padroni? E’ o non è compito del sindacato, delle forze politiche che si definiscono di sinistra tutelare chi lavora, ovunque lavori?
Impedire il licenziamento senza giusta causa e senza giustificato motivo significa salvaguardare un diritto universale e come è noto, un diritto universale è tale se vale per tutti, altrimenti alla fine verrà tolto a tutti.
E quella parte del mondo politico che si è schierata contro la cancellazione dell’art. 18 proposta dal Governo Berlusconi può oggi dividersi tra chi chiede che i diritti valgano per tutti e chi vuole mantenerli in un recinto sempre più ristretto?
Come si fa a pensare seriamente che un diritto cosi importante come quello stabilito dall’articolo 18 per un lavoratore cessi sotto la soglia dei 15 dipendenti?
Ritengo che non solo sia fuor tempo massimo, oggi, discutere se lo strumento migliore per estendere le tutele di chi lavora sia il referendum o una legge, ma sia in primo luogo decisivo che ciò avvenga, spogliandoci da tutti gli opportunismi. È il merito la cosa più importante: non è né giusto, né opportuno che una partita che riguarda un diritto concreto di una parte rilevante della società venga trattata, anche a sinistra e magari anche nella CGIL, privilegiando le ragioni di schieramento o di opportunità politica, rispetto al bisogno di maggiore giustizia nei confronti di milioni di persone.
Inoltre, rispetto all’invocazione di una legge che eviti il referendum, non c’è dubbio che essa dovrebbe raccogliere positivamente la domanda proposta dal Comitato promotore del referendum e quindi questa nuova legge non potrebbe introdurre nuovi limiti all’estensione delle tutele che oggi valgono nelle aziende sopra i 15 dipendenti.
E’ evidente, in questo quadro, che se nel centro sinistra si dovesse sostenere una legge che si limiti ad abbassare ad un numero diverso l’attuale limite dei 15 dipendenti, oppure si limiti ad aumentare la misura del risarcimento economico a fronte dei licenziamenti ingiustificati, non potremmo che confermare il nostro dissenso non tanto sugli strumenti, ma tutto ancorato al merito concreto della proposta.
Impegnarci in questa battaglia è una straordinaria occasione, non solo per sanare una discriminazione insopportabile, ma anche perché dopo 20 anni si mette al centro del dibattito politico una proposta che vuole estendere i diritti delle persone che lavorano e non il loro ridimensionamento, come è avvenuto troppe volte negli ultimi anni.
Questa battaglia propone una visione chiaramente alternativa alla linea economica e politica di chi pensa che il risanamento e lo sviluppo si realizzano solo annullando i diritti di chi lavora.
Purtroppo questa è una linea che da venti anni è stata abbondantemente sperimentata e si è dimostrata del tutto fallimentare, non solo sul versante economico e sociale, ma anche su quello politico.
La Fiom ha deciso di proseguire nel percorso intrapreso con la raccolta di firme e di impegnarsi perché i Sìprevalgano.
Adesso tocca alla Cgil e alle forze politiche che si richiamano ai valori del lavoro decidere, al di là delle differenze, se contribuire ad una sconfitta che avrà pesanti ripercussioni nelle fabbriche e negli uffici o se impegnarsi in una battaglia di civiltà e giustizia.
Non esiste civiltà nel lavoro in un paese in cui i diritti civili sono negati ad una parte rilevante di uomini e donne che lavorano.