Appunti per un conflitto europeo

CAPITALE E LAVORO AL TEMPO DELL’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA

Ho già argomentato in altra sede i motivi per cui considero sbagliato e pericoloso dare (o meglio, ridare) in questa fase un contenuto meramente salariale al conflitto capitale/lavoro e non intendo ripetermi (1).
In quella stessa sede, ho anche precisato che ciò, ovviamente, non significa che non ci sia nulla da fare o che tutto vada per il meglio, nel migliore dei mondi possibili. Il salario, infatti, è variabile dipendente rispetto al profitto, ma variabile indipendente se inteso quale «reddito reale», al netto cioè delle imposte e al lordo dei servizi sociali (scuola, sanità, pensioni, etc.). Secondo un’ opinione non sospetta di simpatie antagoniste, anzi, le principali fonti d’arricchimento dei lavoratori nel secolo scorso – ciò che ha consentito l’aumento del loro potere d’acquisto del 250 per cento a partire dal 1950 – sono state le spese sociali per beni e servizi, principalmente scuola e sanità: «è l’entità di questa redistribuzione in natura che permette di misurare la differenza fra Paesi scarsamente redistributivi e Paesi fortemente redistributivi» (2) , ed è probabilmente il suo venir meno in conseguenza delle politiche di rientro dal debito pubblico che acuisce nel tempo presente la percezione del proprio impoverimento reale da parte dei lavoratori. Non posso quindi che concordare con Sergio Cesaratto allorché – riprendendo (pur criticamente) una sollecitazione di Emiliano Brancaccio (3) – reputa che una politica economica alternativa dovrebbe assumere l’obiettivo di tornare a «finanziare i consumi collettivi necessari a:
a) dare un segno tangibile a grandi masse di ceti popolari e medi che il governo sta mutando la distribuzione a loro favore (sanità, servizi sociali, trasporti pubblici e qualità della vita nei grandi centri, etc.);
b) incrementare la spesa nella scuola, università, intervento pubblico nel settore industriale e tecnologico » (4).
Aumentare i salari (rectius, i redditi) via spesa pubblica incontra, tuttavia, diffuse obiezioni nel centro-sinistra. Secondo Vincenzo Visco, ad esempio, data la relazione diretta fra livello dei tassi d’interesse di mercato ed entità dei disavanzi pubblici, se la convergenza fiscale dei Paesi aderenti all’Unione si arresta e ognuno si dà alla finanza allegra, la politica monetaria della Banca centrale europea (Bce) diventerà più restrittiva; per di più, non è detto che allo stimolo fiscale faccia seguito la crescita, visto che, a parità (o quasi) di deficit, l’economia americana decolla e quella europea ristagna. Meglio sarebbe, perciò, lasciar perdere riforme come la golden rule ( la regola aurea della finanza pubblica: ci si indebiti pure per investire, ma si tengano a freno le spese correnti): non solo non è certo che maggiori spese per investimenti inducano una crescita strutturale del Pil, ma potrebbe perfino diffondersi la perniciosa idea che non si debbano introdurre tetti espliciti o impliciti all’espansione del bilancio e giungersi così ad azzerare i surplus primari prima e ad aumentare le spese correnti poi (5).
Queste obiezioni non sono nuove, essendo da trent’anni in qua diffuse dal peggiore monetarismo. Sono sbagliate da un punto di vista teorico e per nulla suffragate a livello empirico, perciò inutili, salvo forse per mascherare la propria incapacità progettuale con deresponsabilizzanti non possumus.
Innanzi tutto, la relazione fra livello dei tassi d’interesse e disavanzi pubblici postulata da Visco esiste (e dunque esiste la possibilità che l’aumento dello stock di debito dell’Unione si traduca in un aumento dei tassi d’interesse) se si pratica una politica fiscale espansiva in presenza di vincoli alla crescita dell’offerta di moneta. Rimossi quei vincoli, la relazione ovviamente cade.
Allo stesso modo, l’arresto della convergenza fiscale fra i membri dell’Unione (più esattamente: della convergenza al ribasso del deficit e dello stock di debito) può implicare una politica monetaria più restrittiva solo in presenza di una Banca centrale (com’è disgraziatamente la Bce) che reca inscritto nel proprio statuto l’obbligo di perseguire la stabilità dei prezzi anche a costo di creare recessione e disoccupazione. Dotando la Banca di altri obiettivi, il pericolo sarebbe scongiurato. Lo conferma proprio il caso statunitense, dove la ripresa è frutto di una politica fiscale drasticamente espansiva e di una politica monetaria più che accomodante, che testimonia di quanto la Federal Reserve abbia abbandonato le rigidità suggerite dai monetaristi ai banchieri centrali di tutto il mondo (6).
Quanto poi all’obiezione secondo cui le spese per investimenti non hanno lo stesso impatto espansivo di quelle correnti per educazione, ricerca e welfare, non si potrebbe essere più d’accordo. Ma ciò – contrariamente a quanto Visco lascia intendere – non significa che l’adozione di una golden rule sia inutile: significa soltanto che dovrebbe decidersi a livello europeo che cosa è «investimento pubblico», ricordandosi che lo Stato non produce merci e dunque la redditività di una sua iniziativa va misurata in termini reali e non monetari. Il problema non può essere qui affrontato ex professo; mi limito a rilevare, per fare solo un esempio, che l’aumento della vita media della popolazione può essere considerato come il «rendimento reale» dei massicci «investimenti in salute» che l’Europa fece nei trenta gloriosi anni keynesiani (1945-75); e non ci vuol molto a intendere che il miglior investimento che una società che invecchia può fare è quello di assicurare ai propri anziani un’esistenza diversa e migliore di quella che – taglia qua, taglia là – gli stiamo apprestando.
Considerazioni del genere, ovviamente, sono possibili a condizione di aver chiaro un fatto tanto incontestato nella letteratura economica quanto ignorato a livello politico, cioè che non esiste alcun livello di debito pubblico che non sia sostenibile, purché si dia un’adeguata crescita ( l a quale, ricordo, di solito è inversamente correlata al livello dei tassi d’interesse). Una volta definita la frontiera di sostenibilità della finanza pubblica come dipendente dalle grandezze assunte dai rapporti deficit/Pil e debito/Pil e dal tasso di crescita del sistema economico, si può mostrare – ed è stato, difatti, mostrato – che i parametri fissati nel famoso «Annesso» al Trattato di Maastricht (nessun deficit oltre il 3% del Pil e nessun debito oltre il 60% di esso) rappresentano solo un punto particolare sulla frontiera ed esiste un infinito numero di altri punti aventi le stesse caratteristiche di sostenibilità (7).
Messa così la questione, ha certo ragione Visco a sostenere che il problema non è (solo) il Patto di stabilità ma, più in generale, l’architettura del Trattato di Maastricht. Ma di nuovo sbaglia a non considerare che la credibilità di una sua qualunque modifica non è esclusa in partenza, dipendendo in larga misura (se non completamente) dalla possibilità di inventare meccanismi istituzionali che tengano a bada l’inflazione senza per ciò stesso condannare la politica economica all’impotenza delle (e ai guasti provocati dalle) supply-side policies.

Qui torna la questione della possibilità e auspicabilità di una politica dei redditi su scala europea. Il problema principale con cui ha a che fare qualsiasi proposta di aumentare la spesa pubblica è costituito dal fatto che il controllo sulla stabilità dei prezzi è rimesso alla Banca centrale europea, che – come tutte le Banche centrali – ha un solo modo per esercitarlo: una politica monetaria restrittiva.
Non è detto, però, che la politica monetaria debba essere appannaggio dell’autorità monetaria, tanto più che, grazie a Sraffa, sappiamo che affidare il controllo della quantità di moneta ad una Banca centrale indipendente equivale a trasferirle anche il potere di determinare la distribuzione del reddito fra salari e profitti (8). Esiste una via alternativa, indicata chiaramente da Keynes nella Teoria generale:
“ Certo, se in una condizione di non piena occupazione il lavoro fosse sempre in condizione di agire (e agisse) in modo da ridurre con un’azione concertata la propria domanda monetaria fino al punto richiesto per rendere la moneta così relativamente abbondante rispetto all’unità-salario da far discendere il tasso d’interesse al livello compatibile con la piena occupazione, avremmo, in effetti, una manovra monetaria volta alla piena occupazione gestita dalle organizzazioni sindacali, invece che dal sistema bancario” (9).
Insomma, posto che a livello di area euro c’è bisogno «di avere un segnale per le parti, un qualcosa che dica a tutti qual è la dinamica dei prezzi verso cui si vorrebbe tendere »(10), la domanda è: l’individuazione di questa dinamica dev’essere rimessa all’autorità monetaria o può essere il frutto di una contrattazione collettiva fra le parti sociali? E di riflesso: è pensabile oggi una contrattazione collettiva europea che tolga alla Bce il compito di custodire la stabilità monetaria e le attribuisca il più modesto compito di fissare il saggio d’interesse a quel (basso) livello tale che la spesa privata e una spesa pubblica non più impastoiata nelle secche del Patto di stabilità possano garantire il pieno impiego? È ipotizzabile che una politica dei redditi, accompagnata da forme di pubblicità dei costi, da divieti di speculare sulla struttura delle passività e da programmi generosi di sicurezza sociale, induca i lavoratori a preferire l’arricchimento reale dei servizi pubblici all’illusione monetaria della rincorsa salariale? E non potrebbe essere questa la premessa perché la necessaria flessibilità della prestazione lavorativa smetta di tradursi in precarietà e diventi realmente un’occasione, sul modello di quanto avviene in Svezia o Finlandia?
D’altra parte, riconoscere l’opportunità (se non proprio la necessità) di una politica dei redditi europea non significa sposare l’assetto che ha governato le relazioni industriali italiane nell’ultimo decennio: è evidente che quest’ultimo ha fallito nel suo obiettivo principale, cioè convincere le imprese – s’intende, quelle non esposte al vincolo della concorrenza internazionale, che sono le principali artefici del gigantesco cambiamento dei prezzi relativi registratosi in questi ultimi anni11 – che variare la distribuzione del reddito con l’arma del rialzo dei prezzi è controproducente.
Il motivo, in fondo, è semplice. Un qualsiasi obiettivo d’inflazione programmata è credibile per le imprese solo se esse sanno per certo che ogni scostamento al rialzo le esporrà sempre a pagare salari più alti e, probabilmente, anche ad un aumento dei tassi d’interesse. Invece, il famoso «lodo Ciampi» del 23 luglio 1993 prevede che, se l’inflazione effettiva è più alta di quella programmata, la misura del riallineamento deve essere oggetto di «contrattazione» fra le parti sociali. Il che non implica soltanto che i lavoratori, unici sul mercato, debbono negoziare per due volte la misura del proprio compenso, ma che le imprese sono incentivate a tenere comportamenti inflazionistici, dal momento che il divario fra inflazione programmata e reale consente loro di contrattare da una posizione di forza (quanto più si concede sul lato del recupero del potere d’acquisto tanto più si risparmia su produttività, tempi di lavoro, ferie, etc.).
Se a ciò si aggiunge che la misura del recupero dipende anche dalla quantità di inflazione «importata» dall’estero e che ciò ha sempre spinto le imprese ad aumentare i prezzi in presenza di rincari delle fonti energetiche, piuttosto che ad ammortizzare i maggiori costi con incrementi di produttività (e qui forse può cogliersi una delle ragioni del declino della nostra struttura industriale), si comprende come non «la» politica dei redditi ma quellapolitica dei redditi sia la principale responsabile della spaventosa perdita di potere d’acquisto dei salari negli ultimi dieci anni. Con altre regole, le cose sarebbero potute (e potrebbero ancora) andare diversamente (11).

Come si vede, «qualcosa da fare» dunque c’è. Il problema è che farlo richiede certamente una soggettività nuova, che capisca che oggi la forza del capitale è solo il frutto della debolezza dei suoi antagonisti (12) e che la lotta per l’egemonia si vince (come ben sapeva Gramsci) sul piano dei rapporti di produzione.

Note

1 Cfr. L. Cavallaro, Il problema dei bassi salari, la rivista del manifesto, n. 51, giugno 2004, pp. 75-78.

2 T. Piketty. Disuguaglianza. La visione economica, Università Bocconi Editore , Milano 2003, p. 144.

3 Cfr. E. Brancaccio, Oltre la “zona rossa” di Maastricht, il manifesto, 18 luglio 2004.

4 S. Cesaratto, La politica prima del programma, l’ernesto, n.4/2004, pp.28

5 Cfr. V. Visco, Otto domande per il dopo- Patto, pubblicato sul sito www.lavoce.info il 18 dicembre 2003.

6 Cfr. R. Realfonzo, Patto di stabilità, non basta un ritocco, Il Sole-24 Ore, 31 agosto 2004.

7 Cfr. L. Pasinetti, The mith (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht parameter, Cambridge Journal of Economics, n. 22 (1998), pp. 103-116.

8 Posto che il saggio del profitto (che è la variabile indipendente del sistema capitalistico, il saggio del salario rimanendo fissato in via residuale) è «suscettibile di essere determinato da influenze estranee al sistema della produzione, e particolarmente dal livello dei tassi dell’interesse monetario» (P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino 1960, p. 43), è evidente che attraverso la manovra sulla liquidità la Banca centrale viene di fatto a gestire il conflitto di classe.

9 J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, London 1936, p. 267.

10 T. Boeri, G. Bertola, A che serve il tasso d’inflazione programmata?, ora in T. Boeri (a cura di) www.lavoce.info. Un anno di interventi e analisi dell’economia italiana, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 57.

11 Il fenomeno è colto con la consueta lucidità da M. de Cecco, Sono i prezzi a cambiare la mappa della ricchezza, l’Italia non è tra i vincitori, la Repubblica-Affari&Finanza, 4 ottobre 2004.

12 «Se l’inflazione non cala, paghino le imprese », scrisse Ezio Tarantelli quando pose la questione in un celebre articolo su Repubblica dell’8 aprile 1981 (ora in E. Tarantelli, La forza delle idee, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 113-115).

13 Rinvio qui a L. Cavallaro, G. Mazzetti, Il capitale non è un moloch, la rivista del manifesto», n. 37, marzo 2003, pp. 57-62, dove peraltro si svolgono temi già accennati in Id., Conflitto capitale-lavoro e movimento operaio, l’ernesto, n. 1/2002, pp. 9-12.