Ad oltre un decennio dalla dissoluzione dell’Urss e dei paesi del “blocco socialista” nell’Europa centro-orientale, ci si può chiedere che senso abbia provare a riaprire una discussione e fare un bilancio di quell’esperienza, che appare oramai archiviata dalla storia.
Questa questione di senso, ovviamente, non si pone sul terreno della ricerca storica, che su questo recente passato sta continuando in varie forme (più all’estero che in Italia), ma su quello dell’attualità politica.
E che sia ancora attuale ce lo ricorda – certo non involontariamente – il dott. Kostunica, neo acclamato presidente della Repubblica Federativa Jugoslava, nella sua intervista televisiva a Enzo Biagi del 12 ottobre: “Questi pochi giorni mi sembrano un sogno. Un sogno che ho inseguito per tutta la vita. È la prima svolta politica, dopo 56 anni di regime, comunista, compresi i 10 di Milosevic. […]. Finalmente ci sono segnali di democrazia. […]. Dopo la primavera di Praga dell’89, questo è il crollo di uno degli ultimi regimi del mondo comunista. Ai Serbi e alla Jugoslavia c’è voluto molto più tempo”. (1)
Ancora una volta, come nelle polemiche della “guerra fredda”, si contrappongono “democrazia” e “comunismo”, solo che ora la “democrazia” ha contorni molto più definiti, come si può leggere nel programma della “Opposizione Democratica Serba” che ha sostenuto l’elezione di Kostunica: è la ricetta pura e semplice del neoliberismo, con privatizzazioni, apertura al capitale transnazionale, “adeguamento strutturale” ai piani del Fmi. E sotto il termine di “comunismo” il dott. Kostunica, gli economisti jugoslavi della Banca mondiale e del G-17, gli esperti dell’ICG (International Crisis Group Balkans, Belgrade – Washington – Brussels) intendono esattamente l’opposto: un’economia centralizzata, “di comando”, con controllo statale della maggioranza della proprietà delle imprese, con controllo statale sui flussi monetari, sugli scambi e sui prezzi (2).
È fin troppo facile osservare – come fa una parte del partito della Rifondazione comunista e tanta “sinistra” per prenderne irrevocabilmente le distanze – che quello che Berlusconi, Kostunica e i centri studi occidentali per la destabilizzazione dei Balcani chiamano oggi con disprezzo “comunismo” o “socialismo” non è il sistema compiuto di nuovi rapporti sociali basati sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione che i nostri “classici”, da Marx a Lenin, disegnano nei loro scritti. Si possono richiamare in proposito gli studi e i dibattiti che hanno attraversato oltre 70 anni di storia dell’Unione Sovietica e delle “democrazie popolari” costituitesi nell’immediato secondo dopoguerra: sulla socializzazione effettiva dei mezzi di produzione (che non si riduce alla mera proprietà statale), sulla direzione del processo economico complessivo da parte dei lavoratori, sul carattere della pianificazione, sulla democrazia socialista (3).
Non questa evidentemente può essere la questione oggi, né ha molto senso ingaggiare un duello retroattivo con gli ideologi brezneviani, che alla fine degli anni ’70 coniarono – polemicamente! in risposta alle teorie dell’eurocomunismo – la formula del “socialismo reale” o, meglio, “realizzato”. La questione è invece se, e in che misura, le società “socialiste” del XX secolo fossero incamminate – nelle condizioni oggettive, nella “verità effettuale” del loro tempo, e non nelle condizioni ideali di un mondo come avremmo voluto che fosse – sulla strada di una radicale trasformazione del modo di produzione. La questione è se quelle società fossero in qualche modo “parenti” del comunismo (anche nel senso letterale del termine, cioè che avrebbero alla fine partorito la società comunista) o se sono state invece qualcosa di totalmente altro, un modello talmente negativo da indurre chiunque iscriva ancora sulle proprie bandiere la parola comunismo a condannarle senza appello, unendosi al coro dei Berlusconi e dei Kostunica.
Questione che ha notevolissime implicazioni: da un giudizio di “parentela” col comunismo deriva che l’esperienza di quelle società va assunta centralmente nel patrimonio di chi verso il comunismo intende muoversi; mentre giudicarle un corpo totalmente estraneo significa ricercare vie affatto nuove, a cominciare dall’esistenza stessa del partito politico.
I sistemi sociali che si sono costituiti dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 e dopo la vittoria antifascista del 1945, hanno seguito, pur tra notevoli differenze da paese a paese, il percorso indicato nel secondo capitolo del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels: la conquista del potere politico da parte del proletariato organizzato nel suo partito politico, nel partito comunista, è la precondizione per avviare un lungo e complesso processo di trasformazione dei rapporti sociali di proprietà; manovrando le leve del potere statale si dà corso alle prime misure che porteranno ad una trasformazione radicale. E questo perché il proletariato, la classe oppressa e sfruttata, non ha altri mezzi, al contrario della classe capitalistica, che, forte del potere economico può controllare e condizionare l’informazione e la formazione della mentalità collettiva, può dunque essere egemone, diffondendo tra le classi subalterne il suo “senso comune” (Gramsci), fabbricando il consenso (Chomsky) – in maniera oggi tanto più totalitaria e pervasiva di quanto non potessero fare le classi dominanti nel 1848.
Dai primi decreti dei bolscevichi del 1917 a quelli della Jugoslavia titoista, sono i principali centri del potere finanziario e industriale, il commercio estero, ad essere posti sotto il controllo dello Stato. Uno Stato che deve riorganizzare l’economia in funzione dei bisogni collettivi delle grandi masse, della produzione e distribuzione delle risorse, ma deve altresì difendersi dall’aggressione – economica e/o militare – del mondo capitalista. L’Unione Sovietica e i paesi che imboccano la strada del socialismo sono sin dal primo giorno della loro esistenza dei paesi assediati, con tutte le implicazioni – non tutte, certo, necessarie e inevitabili! – che l’assedio, la situazione d’emergenza, lo stato d’eccezione produce all’interno, dalla militarizzazione della società alla centralizzazione delle decisioni, all’emergere all’interno dei gruppi dirigenti di individui o gruppi che utilizzano la situazione per promuovere una propria scalata sociale e costituirsi come gruppo privilegiato.
È la storia e il dramma del comunismo novecentesco, a partire dalla sconfitta delle rivoluzioni in Occidente negli anni Venti. La debolezza, la sconfitta – in alcuni casi la disintegrazione politica e sindacale, come negli Usa – del proletariato nei principali paesi capitalistici, rafforza gli assedianti, le loro capacità di penetrazione economica, di egemonia culturale, di pressione militare, che costringe il socialismo assediato a destinare risorse crescenti al settore della difesa, sottraendole a quello della soddisfazione dei bisogni sociali. E tanta maggior pressione il capitalismo mondiale esercita contro i paesi che potremmo definire genericamente a controllo statale centralizzato dei principali mezzi di produzione, distribuzione e scambio, quanto più – per la logica stessa che informa il sistema capitalistico – esso ha bisogno di espandersi, di investire capitali, di conquistare mercati, travolgendo qualsiasi barriera di carattere statuale si frapponga alla sua marcia. Questione di vita o di morte per il capitalismo. Le politiche di privatizzazione, la disintegrazione degli Stati – dall’Urss alla Jugoslavia – ridotti al livello di protettorati microregionali vanno lette all’interno di questa nuova fase dell’imperialismo che, con un termine equivoco, segnato dall’egemonia nordamericana, passa sotto il nome di globalizzazione.
Il triennio 1989-91 – dalla “caduta del muro di Berlino alla disintegrazione dell’Urss – segna una tappa fondamentale della riconquista imperialistica di una vasta e strategica area del mondo che si colloca tra Europa ed Asia (e dopo un assedio lungo e cruento – dalla guerra all’embargo – sembra espugnata anche l’ultima roccaforte jugoslava nei Balcani): in tutti questi paesi l’economia è stata “liberalizzata”, non esiste controllo statale sui poteri industriali e finanziari, le compagnie transnazionali, in concorrenza tra loro si spartiscono il bottino, mentre la qualità della vita della grande maggioranza delle popolazioni che un tempo vivevano nel “socialismo reale” è scesa, in 10 anni di “libero mercato”, a un livello infimo che fa rimpiangere, come una sorta di paradiso perduto, il passato sistema a tanti che, egemonizzati dalle forze della destra neoliberista, scendevano in piazza plaudendo alla “rivoluzione democratica”.
Fare i conti, oggi, da comunisti, con l’esperienza novecentesca dei paesi socialisti, al di là di polemiche e divisioni teoriche e politiche che hanno fatto il loro tempo, implica una grande questione:
La sconfitta di quei sistemi sociali, la loro crisi e la successiva rapida disgregazione alla fine degli anni ’80, erano inevitabilmente iscritte nel modello adottato (che, come si è detto, era stato delineato con sufficiente chiarezza già nel Manifesto e ripreso e sviluppato nell’Antidühring ): conquista del potere politico statale da parte del proletariato organizzato in partito (classe per sé), per procedere alla trasformazione sociale dei rapporti di proprietà? Oppure tale sconfitta – nonostante significativi successi che non vanno gettati nella pattumiera della storia – è stata determinata dall’immaturità delle condizioni date, dalla sproporzione delle forze nello scontro contro un nemico molto meglio equipaggiato e armato, nonché da errori serissimi delle dirigenze comuniste nella direzione del processo di trasformazione rivoluzionaria della società?
Come è noto, fu il pensiero liberista del primo ‘900 a sostenere l’impossibilità teorica, prima ancora che storico-pratica, dello sviluppo di una società basata sui principi della proprietà collettiva e della pianificazione economica: “presunzione fatale”, secondo Hayek e von Mises (4). Ma tale impostazione, in particolare dopo il 1989, si è fatta strada anche all’interno di alcuni settori del movimento comunista, che ha finito per scambiare per “rivoluzioni democratiche” le controrivoluzioni sociali dell’ultimo decennio, da Mosca a Belgrado. Questa impostazione concentra i suoi attacchi in primo luogo contro il cosiddetto “statalismo” (intendendo con ciò il ruolo preminente della proprietà di Stato e la direzione statale dei processi economico-sociali), quale madre di tutte le degenerazioni e sconfitte. Questione centrale di una possibile trasformazione sociale non è più – in questa impostazione – quella dei rapporti di proprietà.
Tutt’altro discorso se consideriamo invece valutiamo la crisi e la sconfitta di quelle esperienze come derivanti da condizionamenti storici ed errori soggettivi di direzione: in questo caso, è dall’analisi impietosa di quegli errori che dobbiamo partire, ma senza disfarsi troppo frettolosamente del modello strategico delineato già nel Manifesto di Marx ed Engels di una rivoluzione pensabile a partire dalla centralità della conquista del potere politico. Altre esperienze significative di trasformazioni sociali durature e profonde la storia del XX secolo non conosce.
Vi potrà essere ripresa e sviluppo del movimento comunista solo se si assume criticamente nel proprio bagaglio l’esperienza del “socialismo reale”, con tutte le rilevantissime questioni che essa implica di organizzazione di un’economia basata sulla proprietà sociale; di direzione politica e di rapporto dirigenti-diretti; di rivoluzione culturale.
Su tutte queste questioni cruciali non si parte da zero; è stato già fatto – anche attraverso le polemiche più dure che hanno impegnato le diverse anime del comunismo internazionale – un grande lavoro di scavo, di analisi, sia sul piano della “struttura” che della “sovrastruttura”. Si tratta di riprendere e approfondire quelle tematiche, mentre è in corso invece – egemonia dell’avversario! – un’operazione di rimozione totale, con la prospettiva di un arretramento senza precedenti della cultura politica comunista.
Un lusso che si può permettere solo chi abbia rinunciato in anticipo alla prospettiva comunista.
Note
1) Cfr. Liberazione del 13.10.2000, corsivi miei, A.C.]
2) Cfr. ICG Balkans Report N° 99, 17 agosto 2000).
3) Per una discussione approfondita di queste problematiche, mi permetto di rinviare al mio La transizione bloccata, Laboratorio Politico, Napoli, 1998.
4) Cfr. A. von Hayek, La presunzione fatale – gli errori del socialismo, Rusconi, Milano, 1997