Americanizzazione dell’economia e ruolo degli Stati nazionali

Mai il dominio ideologico del capitalismo è stato totalizzante come da quando si è diffusa la balorda teoria della “fine delle ideologie”. Con un vistoso salto di qualità dopo il crollo del “socialismo reale”, il “pensiero unico” ha egemonizzato le interpretazioni del mondo anche di tanti sfruttati, conquistando in Europa gran parte della sinistra storica. Persino forze nominalmente anticapitalistiche hanno interiorizzato le autodescrizioni che il capitalismo produce nel suo momento di massimo dominio, esprimendo una “sinistra del pensiero unico”, una propaggine “alternativa” del pensiero dominante, soprattutto su tre tematiche: 1) la condivisione della vulgata “neoliberista”, secondo la quale la globalizzazione spazzerebbe via gli Stati nazionali e le loro funzioni, annichilendo i governi e la politica nazionale; 2) le variazioni sul tema della presunta marginalità del lavoro salariato, dalla demenziale teoria della “fine del lavoro” alla tesi sulla sostituzione del lavoro dipendente con un supposto lavoro autonomo, dalla valutazione del Terzo settore come estraneo alla produzione di merci all’elogio del cooperativismo assistenziale, destinato a soppiantare gran parte delle funzioni dell'”odiato” Stato sociale; 3) l’enfatizzazione di forme “minimali” e il disprezzo verso ogni centralizzazione nell’attività politico-sindacale, la contrapposizione tra società “pulita” e indistinta politica “sporca” e pressochè superflua. Riservandomi, qualora l’ernesto me ne dia occasione, di ritornare sugli altri due temi, tratterò qui il primo, valutando anche i danni politici del pensiero sulla globalizzazione.

Globalizzazione o americanizzazione?

Laddove sarebbe corretto parlare di “americanizzazione” del mondo, domina l’idea nefasta che una congiuntura tecnica/oggettiva – l’integrazione globale delle economie – obbligherebbe le forze dominanti a fare cose “sgradevoli”: guerre, distruzione di economie nazionali e della natura, cancellazione di servizi sociali, drastico abbassamento dei salari e delle garanzie per i lavoratori e i settori più deboli. Nessuna di queste cose “sgradevoli” – dicono i cantori del sistema – può essere impedita dalla lotta sociale, dagli Stati e dai governi: sono i “mercati globali” (termine più suggestivo di “capitale finanziario”, perchè neutrale e disincarnato) che le impongono irrimediabilmente. La globalizzazione è stata presentata come un assioma. Nessuno ha dimostrato che l’attuale fase di integrazione del mercato mondiale è davvero inedita. C’è invece chi, qui da noi tra gli altri Riccardo Bellofiore (Il discorso sulla globalizzazione è un’arma potente a favore dell’idea che lo stesso capitale è alla mercè del ‘libero’ mercato: un’arma che nasconde il braccio che la muove e disorienta chi viene colpito. Il capitalismo tende, per la sua essenza più profonda, ad una estensione mondiale della produzione e degli scambi. Se un salto qualitativo si è verificato, esso ha avuto luogo attorno al 1870. La fase di internazionalizzazione che inizia da allora e il cui termine coincide con lo scoppio del primo conflitto mondiale fu di estensione e profondità sconosciute e regge benissimo il confronto con la globalizzazione di un secolo dopo) e Marcello De Cecco (che ha spiegato come i primi dieci anni del secolo furono più “globalizzati” degli attuali), e fuori in particolare Hirst e Thompson, hanno dimostrato che fasi altrettanto o più significative di integrazione economica si sono già verificate negli ultimi 150 anni. Gli stessi Marx e Engels, proprio 150 anni fa nel Manifesto, parlarono del superamento delle economie nazionali pressochè negli stessi termini degli attuali cantori della globalizzazione: Il bisogno di sbocchi sempre più estesi spinge il capitale a ficcarsi dappertutto, a rendere cosmopolita la produzione ed il consumo di tutti i paesi, a togliere all’industria la base nazionale. Le industrie nazionali vengono annichilite e soppiantate da industrie che lavorano materie prime provenienti dalle regioni più remote e i prodotti si consumano in tutto il mondo. All’antico isolamento in cui ogni paese bastava a se stesso, subentra una universale dipendenza delle nazioni. La ristrettezza nazionale diventa sempre più impossibile. Già 150 anni fa la creazione di un unico mercato mondiale e lo svuotamento degli Stati nazionali sembravano cosa fatta. Ed invece, oggi come ieri, il mercato unico globale è di là da venire. L’integrazione coinvolge assai marginalmente interi continenti come la Cina, la Russia asiatica (e parte di quella europea), la maggioranza dell’Africa e dell’Asia centrale. Il commercio mondiale ha avuto negli ultimi venti anni un incremento del 3,6%, meno di quello registrato tra il 1900 e il 1910 (3,9%) e nettissimamente meno di quello tra il 1950 e il 1973 quando si giunse al 9%; e Bellofiore ha fatto notare come circa l’88% dei prodotti di Stati Uniti, Giappone ed Europa comunitaria si vendano nell’ambito nazionale: e parliamo dei “santuari” della globalizzazione, non nella maggioranza dei paesi poveri, emarginati dal mercato mondiale. Il mercato non è senza barriere nemmeno riferendosi a Usa, Europa e Giappone, che richiedono per le proprie merci via libera nel mondo ma creano poi ostacoli alle merci dei concorrenti ogni volta che occorre. Gli Usa eccellono nell’uso strumentale del “libero scambio”, pretendendone l’applicazione finchè ciò li favorisce e infrangendone senza pudori le regole quando sono dannose ai propri interessi. Insomma – come scrive Bellofiore – le tre aree sono ancora relativamente chiuse dal punto di vista dei commerci, e gli interscambi tra l’una e l’altra continuano ad essere contrattati politicamente.

Utopie ed imbrogli del neoliberismo

È invece innegabile che il denaro circoli con libertà senza precedenti, che i mercati finanziari (ma escludendo zone ove vive più della metà della popolazione mondiale) siano altamente integrati (Halevi sostiene che l’unica vera globalizzazione è il dominio del sistema finanziario Usa, insomma il “dollaro globale”); che lo spostamento delle produzioni in paesi dove il salario e le garanzie sociali sono a livelli infimi è diffusissimo; che le imprese multinazionali non sono mai state così tante; che le reti informatiche/telematiche offrono un’integrazione comunicativa senza pari. Ma questi elementi piuttosto che una globalizzazione realizzata indicano una “americanizzazione” dell’economia mondiale, una integrazione parziale e dimensionata ad uso e consumo dell’impero Usa e dei suoi alleati, che non mira a costituire un mercato con dentro tutta l’umanità in qualità di produttrice/consumatrice (altrimenti, non si distruggerebbero le economie di tanti paesi per timore di dover ripartire i profitti o di vederli calare a causa degli aumenti di salario indispensabili per far divenire “consumatori” i poveri del mondo) ma a controllarne uno dove le merci statunitensi e degli altri paesi “forti” arrivino senza ostacoli a chi è già in grado di comprare, con un uso truffaldino dell’ altro mito dominante, il “libero scambio”, il “neoliberismo”. Questi ultimi termini vanno virgolettati, perchè i singoli capitalisti non sono mai stati liberisti e hanno sempre odiato la concorrenza. Come diceva Michael Moore, regista americano: In realtà i capitalisti americani non credono al libero mercato e alla concorrenza. Sono tutti socialisti finchè la cosa li riguarda direttamente, cioè finchè il governo si occupa di loro, impone alle amministrazioni locali di costruire infrastrutture o qualsiasi altra cosa di cui abbiano bisogno, finchè il governo diminuisce le loro tasse ed aumenta quelle degli altri. In questo credono: ma non amano la concorrenza e preferiscono che le macchine giapponesi qui non vengano vendute. Poi si riempiono la bocca con l’impresa, il libero mercato e la competizione. Di questi bei campioni di “liberismo” anche l’Italia è piena: Agnelli che prima ottiene dallo Stato 3500 miliardi per costruire lo stabilimento Fiat di Melfi e poi altre migliaia di miliardi per la rottamazione delle auto; o Berlusconi che deve le sue fortune al monopolio delle TV private regalatogli da Craxi e che ultimamente ha ricevuto dallo Stato guidato dai Prodi-D’Alema una bella quota del business TV-telefonia-telematica; e poi i padroncini del “mitico” Nord-Est che, minacciando la secessione, hanno estorto allo Stato il “diritto” a non pagare le tasse; e i commercianti che combattono le “libere” licenze agli ipermercati e gli autotrasportatori disposti all’insurrezione pur di non cedere una quota del trasporto alla concorrenza ferroviaria; e infine (seppure non spenda troppe energie per il “liberismo”), il Vaticano che fa barricate per ottenere dallo Stato i soldi per la sua scuola. Insomma, il “liberismo” è al contempo utopia, mito e ipocrisia, falsa coscienza, ideologia delle più sfrontate: e ciò vale sommamente per il “liberismo” Usa, che vuole abbattere le barriere statali dei paesi più deboli per penetrarvi indisturbato ma che ha uno Stato imperiale che interviene in tutto il globo e con ogni mezzo e che costruisce muraglie a difesa delle proprie merci ogniqualvolta la concorrenza appare più forte.

Lo Stato come “capitalista collettivo”

Stretto corollario del mito della globalizzazione è la teoria del superamento degli Stati nazionali: teoria con forti finalità politico-ideologiche ma nessuna concretezza applicativa. Basterebbe osservare il raddoppio in dieci anni del numero di Stati europei e l’incremento vistoso di essi a livello mondiale, o l’enorme estensione dei poteri statuali a livello locale (regioni, province, comuni) ove l’amministrazione politica ha campi sempre più ampi di intervento; ma l’argomento cruciale concerne quella che è da almeno un secolo la insostituibile funzione di uno Stato capitalistico. Gli Stati moderni più potenti svolgono in primo luogo una funzione da “capitalista collettivo” (come apparve già chiaro, quando pure tale funzione non era pienamente dispiegata, ad Engels che scriveva intorno al 1877 nell’Anti-Duhring: Se il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega tra la popolazione superflua… Ma nè la trasformazione in società anonime, nè in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Lo Stato moderno è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice), che controlla e disciplina l'”anarchia” dei singoli capitalisti e imprese. Lo Stato “capitalista collettivo” (ogni capitalismo forte è anche capitalismo di Stato) ha il compito, non a nome di singoli capitalisti per quanto potenti ma del capitale globale nazionale, di attenuare le oscillazioni dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti nei settori di sviluppo (l’altroieri nelle ferrovie o nell’elettricità, ieri nella chimica o nella meccanica, oggi nell’elettronica e nell’informatica: insomma, dai treni per il Far West a Internet) nonchè gli interventi riparatori dopo le crisi (vedi il salvataggio dell’economia messicana operata dallo Stato Usa, o quella del sistema bancario realizzato dallo Stato giapponese): naturalmente affinando il controllo e l’integrazione dei salariati /subordinati, cooptando parte delle loro avanguardie (o reprimendole quando non assorbibili) all’interno di una sempre più ramificata “borghesia di Stato” che interviene in tutti i pori della società . Tutte queste funzioni sono ineliminabili, per il capitalismo. Guai, dunque, a confondere le difficoltà di gran parte degli Stati di fronte ai rapidi movimenti finanziari con un supposto esaurimento della funzione statale. La grande mobilità dei capitali (ma Stati potenti, in prima fila il Giappone, chiedono la reintroduzione di controlli), le possenti reti informative che avviluppano il mondo, l’ampliamento dei poteri di intervento nei paesi deboli delle multinazionali, non implicano affatto il superamento dello Stato-cervello collettivo. In realtà, la campagna ideologica che mira a svilire i poteri e a ridurre i campi di intervento degli Stati fa parte di quella politica imperiale Usa, e dei paesi più forti, sintetizzabile con lo slogan “porte aperte o ve le sfondiamo”. È cioè una campagna di assalto nei confronti degli Stati deboli, al fine di renderli imbelli verso la penetrazione delle economie più forti. Gli Stati Uniti, in particolare, sono intenzionati a ridurre/annullare i poteri degli Stati altrui con strumenti economici o militari, per evitare “porte chiuse” alle proprie merci o capitali: ma nel contempo hanno potenziato, sopratutto con Clinton, il ruolo del proprio “capitalista collettivo”, sia sul piano economico-politico che militare. Non sono le multinazionali ma è lo Stato Usa che ha deciso/ finanziato/ gestito la criminale aggressione alla Jugoslavia; la quale nell’immediato è stata utile per alcune delle imprese, inutile o addirittura dannosa per altre, ma in prospettiva, rafforzando il dominio statunitense nel mondo, va a vantaggio di tutto il capitalismo Usa. In generale, è un vero abbaglio ideologico sostenere che le principali multinazionali sarebbero più potenti degli Stati e che se ad esempio lo Stato americano volesse sfidare la Microsoft o la Monsanto non potrebbe farlo (Paul Ginsborg). Certo, se ci si riferisce ai paesi poveri, la potenza delle multinazionali con casa-madre negli Usa può apparire considerevole: ma è una potenza riflessa, il riverbero di quella degli Stati Uniti, che non è solo di carattere economico (non essendo il dominio mondiale solo una faccenda di PIL, fatturati, bilance commerciali o moneta forte) ma politica, tecnica, culturale e sopratutto militare, come ha dimostrato il drastico ridimensionamento del Giappone e dell’Europa operato dagli Usa dalla guerra del Golfo fino a quella contro la Jugoslavia, che ha ricordato a tutti su cosa sono basate le gerarchie capitalistiche. Lo Stato Usa, garante non già dell’arricchimento di singoli capitalisti ma della valorizzazione del capitale nazionale, ha una potenza incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi impresa, può non solo sfidare la Microsoft o la Monsanto ma demolirle se ciò fosse necessario (e curiosamente, pochi giorni dopo che il giornalista inglese Friedland aveva scritto la frase riportata da Ginsborg, Bill Gates subiva dal governo e dalla magistratura Usa un severo ridimensionamento, mentre la Monsanto vacillava, vista l’enorme esposizione finanziaria causata da quella produzione transgenica sulla quale , dopo Seattle, il governo Usa potrebbe tracciare, almeno per un po’, una croce). Ed è un abbaglio altrettanto grave ritenere che le multinazionali siano davvero “senza patria”, cioè disincarnate da nazioni e Stati: la loro funzione è possibile solo grazie alle “retrovie” garantite a livello nazionale dal potere statale, il loro “cuore” e il loro “cervello”, per quanto mondialmente diffuse ne siano le “membra”, restano nazionali, in termini di capitale-base, di gruppo dirigente, sede della ricerca e delle acquisizioni tecnologiche, punti di forza finanziari e politici, difesa militare. Chi può seriamente pensare che la Microsoft potrebbe spostare il proprio cuore/cervello, che so, in Bulgaria o Senegal e conservare la propria potenza?

Meno Stato sociale più Stato per il Capitale

In realtà l’enfasi sulla globalizzazione e sul superamento degli Stati vuole inviare questo duplice messaggio: poichè il capitale finanziario può spostarsi con incontrollabile mobilità, per trattenerlo in un paese bisogna colà abbassare i salari e le garanzie dei lavoratori, al fine di offrirgli un alto profitto e convincerlo a restare; poichè, inoltre, la globalizzazione rende inutili gli Stati “pesanti”, è bene che lo Stato dei paesi non dominanti si sgravi di buona parte della gestione dei servizi e li offra ai privati come nuova fonte di profitto. Però, mentre il “neoliberismo” pretende drastici tagli allo Stato sociale, esige “sempre più Stato per il Capitale”: ossia uno Stato che si occupi sempre di più delle imprese, lasciandole libertà di azione ma fornendo ad esse gratis tutto ciò che occorre, procurando commesse e infrastrutture, finanziandole e detassandole, accollandosi i lavoratori “in esubero”, proteggendole dalla concorrenza internazionale o smantellando, con le buone o le cattive, le barriere frapposte da altri Stati al “libero scambio”. Altro che “meno Stato”! Per la verità nessuno Stato capitalista ha mai garantito sua sponte i bisogni sociali popolari in modo completo e stabile. La quantità di salario sociale o differito, distribuito dallo Stato nella forma di servizi pubblici gratuiti o di pensioni ai lavoratori o ai disoccupati in quanto esercito lavorativo di riserva, è sempre stata la posta di uno scontro tra le classi e nel contempo una forma di regolazione di esso, una fotografia di questo conflitto, la registrazione dei rapporti di forza tra classi e ceti. I confini della “fotografia” si spostano con le mutevoli sorti dello scontro e la parte vittoriosa li adegua a proprio vantaggio: tenendo conto che, insieme al conflitto tra Capitale e Lavoro all’interno di un paese, si svolge quello tra le classi dominanti dei vari paesi, che impone ad ognuno margini variabili per il “compromesso” con i propri salariati. Quando i margini di profitto per i capitalisti di una nazione si restringono a vantaggio di quelli di un’altra, in genere i primi sfidano i propri lavoratori per abbassarne i salari e recuperare profitto per sè e forza nella competizione mondiale. Proprio questa sfida ha avviato il padronato italiano dalla fine degli anni ’70, in risposta alle lotte dei salariati partite dal ’68. La ben scarsa resistenza del lavoro dipendente durante gli anni ’80 e ’90, dopo la distruzione dei sedimenti organizzativi degli anni ’70, ha reso piuttosto facile il restringimento del welfare, il dilagare della privatizzazione delle strutture economiche e dei servizi sociali pubblici e l’offerta di buona parte di questi ultimi al capitale privato. Il tutto nel quadro di una gigantesca aggressione nei confronti dei livelli economici e dei diritti del lavoro dipendente, a dimostrazione del fatto che l’unico liberismo che i capitalisti amano davvero è quello del mercato del lavoro: solo lì essi vogliono imporre una concorrenza senza regole, occupati contro disoccupati, precari contro “stabili”, migranti contro stanziali, in una lotta feroce che abbassi il più possibile il costo del lavoro e presenti tutti i lavoratori atomizzati e senza difesa di fronte al padrone. Tale processo si è accelerato ancor più dopo la fine dello spauracchio-Urss (al punto che si potrebbe dire: in Urss il comunismo non c’è mai stato, ma la paura di esso costringeva i padroni “occidentali” a venire sovente a patti con i salariati) e sopratutto grazie al passaggio organico di gran parte delle organizzazioni storiche della sinistra, in Italia dal PDS/DS alla CGIL, nello schieramento “neoliberista”. Le tesi sulla globalizzazione sono state usate dalla “sinistra neoliberista” per giustificare il taglio dei salari e lo smantellamento delle certezze normative e dei servizi sociali, e per disarmare i salariati. E purtroppo la “sinistra del pensiero unico” ha fatto danni anche in aree “critiche/antagonistiche” (soprattutto di alcuni Centri sociali, dell’associazionismo e del volontariato), descrivendo con fatalismo lo smantellamento dello Stato sociale, “residuo del patto fordista”, invitando, quasi con un senso di liberazione dal “fardello pubblico”, a far ricorso alla “ricchezza pragmatica delle società di mutuo soccorso” di ottocentesca memoria, “alle microaggregazioni associative”, alle “forme di autogestione mutualistica”, finendo con l’esaltare quella sussidiarietà da Terzo settore ove il “cooperativismo coatto” sostituisce, a retribuzioni miserabili, i salariati del pubblico impiego. Così tali aree hanno stabilito su questo una non belligeranza con i governi Prodi e D’Alema, con la “sinistra di governo” e con le sue propaggini municipali, contro i cui concreti provvedimenti ultra-liberisti (dal pacchetto Treu sulla legalizzazione di ogni forma di precariato, alla privatizzazione della scuola, dell’energia e delle telecomunicazioni) non hanno speso un grammo di forza, riservando gli strali bellicosi al neoliberismo di indistinti “mercati” e di imprecisate “multinazionali”. In realtà, come fa giustamente notare Alberto Burgio, la riduzione dello Stato sociale non è stata decisa dai “mercati”, ma per via politica da politici: e come la politica ha distrutto garanzie e difese, così le può ricostruire in forma nuova. Il compito degli anticapitalisti non è certo quello di assistere disincantati alla “inevitabile” disgregazione dello Stato sociale operata dalla “sinistra liberista”, ma di battersi per il recupero, riqualificazione e allargamento anche a chi non ne ha mai goduto, dei servizi sociali pubblici e gratuiti, mediante una socializzazione di tali strutture, una democratizzazione integrale, una elevata trasparenza e reali decisioni collettive in esse, impedendone il saccheggio e la gestione clientelar-mafiosa.

Gli organismi internazionali e gli Stati transnazionali

Se, dunque, la tesi dell'”eutanasia” degli Stati nazionali è il prodotto di una massiccia campagna ideologica, purtuttavia non va trascurato il contraddittorio processo di rimodellamento dello statalismo. È in corso un tentativo, incerto ed altalenante, di passaggio verso forme statuali transnazionali che sussumano i compiti degli Stati nazionali e ne svolgano di nuovi a carattere universale. Non ci stiamo tanto riferendo alle strutture create sopratutto ad opera degli Stati Uniti, come la Banca Mondiale, il FMI, il WTO, l’OCSE ed altre minori. In realtà queste strutture, presentate come sovranazionali e dotate di autonomi poteri (c’é qui l’unico punto di dissenso rispetto alle tesi delle mobilitazioni di Seattle, ove si accreditava il WTO come potere indipendente e superiore a quello degli Stati, in diretta connessione con le multinazionali più potenti) sono organismi “pubblici”, finanziati e manipolati dagli Stati più forti e dagli Usa in primo luogo, con sedi di proprietà statale e funzionari dipendenti dai principali governi, e da essi – e non dalle imprese o dai “mercati” – lautamente stipendiati con denaro pubblico (per inciso: mentre queste strutture imponevano agli Stati più deboli economie feroci, triplicavano in pochi anni le loro già faraoniche spese, a carico dei bilanci statali). La loro assoluta mancanza di autonomia è apparsa evidente in questi anni, durante i quali la Banca Mondiale, l’FMI e il WTO hanno agito come “testa d’ariete” del ministero del Tesoro Usa e del presidente della Banca Centrale Greenspan per destabilizzare le economie dei paesi più deboli e renderle totalmente dipendenti dagli Stati Uniti; ed è emersa solarmente durante la guerra contro la Jugoslavia, quando, venuta meno la necessità di trovare mediazioni con l’Urss, l’ONU è stato ridicolizzato nella sua simulazione di un governo universale ed ha fatto da silente reggicoda della Nato; e infine è stata ribadita sia nel caso dei tentati accordi del MAI, sia nel “round” di Seattle, ove alle prime serie proteste il governo Usa ha bloccato il lavoro del WTO. Non tanto a queste strutture pensiamo, dunque, segnalando il tentativo di rimodellare la statualità: quanto piuttosto ai progetti di costituzione di Unioni economico-politiche continentali o subcontinentali, tra le quali l’Unione europea appare quello più ambizioso ma anche il più complesso e fragile, come la guerra contro la Jugoslavia ha evidenziato. Per ora tali Unioni sono pressochè solo unioni economico-monetarie, dall’Europa con la Banca Centrale onnipotente ma senza una politica almeno convergente, al Nafta (il patto tra Usa, Canada e Messico), al Mercosur dei principali paesi sudamericani, all’Asean dell’Est asiatico. Finora il mercato economico unificato in queste aree non ha comportato un trasferimento di poteri ad una statualità transnazionale, quanto piuttosto la subordinazione di economie più deboli ad altre più forti. D’altra parte un reale dislocamento di poteri da Stati nazionali a mega-Stati transnazionali può avvenire solo in un contesto che offra sia garanzie gestionali convenienti per i potentati economici e politici delle varie nazioni coinvolte (altrimenti assisteremo a ripetuti azzeramenti delle Unioni come durante la guerra alla Jugoslavia, ove ognuno asseconda solo i propri interessi nazionali) sia la riarticolazione di ammortizzatori sociali e di controlli integrativi/repressivi sulle classi subordinate a livello transnazionale, che ricrei quella sottomissione/collaborazione dei salariati alle sorti delle imprese, nonchè quelle funzioni da “capitalista collettivo” che fin qui i singoli Stati hanno assicurato. Dobbiamo parlare, dunque, non di sparizione degli Stati nazionali, ma di possibile agglutinamento di gruppi di essi, con un processo tortuoso, in realtà statuali più ampie e più adeguate alle dimensioni del conflitto per il dominio dei mercati.

Governo mondiale e nuova Internazionale

A ben guardare, tale processo è una risposta deformata alla necessità universalmente diffusa di un controllo collettivo e sociale (una richiesta inconsapevole di “comunismo mondiale”) sull’organizzazione del globo, all’esigenza sempre più sentita, di fronte ai paurosi squilibri economici, sociali ed ambientali, che sia la comunità umana organizzata mondialmente a decidere come, cosa, per chi e dove produrre e come distribuire equamente i prodotti, in base a criteri che superino la mercificazione degli esseri umani, della natura, delle idee e la centralità del profitto. Tale esigenza richiama ai suoi doveri il disgregato ma pur sempre cruciale fronte del lavoro dipendente e salariato, ivi compreso ogni forma di precariato e di “esercito” disoccupato di riserva. Mai siamo stati, a causa del passaggio nel campo capitalistico di tanta parte della sinistra, tanto distanti da (ma mai è stata tanto indispensabile) una Internazionale di tale fronte: tutt’altro che utopistica se, di fronte alla frammentazione nazionale del lavoro subordinato, c’è sempre più una omogeneizzazione e integrazione tra le condizioni lavorative nei vari angoli del globo. Ci vorrà tempo, enormi sforzi, capacità e pazienza, la coscienza di non avere più un passe-partout (la classe operaia di fabbrica stabilmente occupata) per ricostruire tale fronte, e di dover invece proporre un “contratto sociale” alla pari tra potenziali alleati, con forme organizzative originali che non eliminino ma recuperino pienamente la ricchezza di quelle “classiche”, integrandole in modo efficace: ma questo è il compito primario che, con il viatico beneaugurante di Seattle, il vecchio secolo ha consegnato al nuovo e a tutti noi.