America Latina: il movimento antimperialista si rimette in marcia

Campinas (Brasile).

Il senso storico di una battaglia non coincide esattamente con quello che gli avevano attribuito i suoi protagonisti. Sovente, e non solamente in America Latina, i rivoluzionari esagerano con l’immigrazione il compito che devono affrontare. Ma accade anche, pur se meno sovente, che le idee-forza e le parole d’ordine di un processo rivoluzionario restino al di qua della loro effettiva portata storica. È il caso, indubbiamente, delle riforme politiche in corso in Venezuela proposte in nome di una “democrazia effettiva” e della “dignità ritrovata”. Ma il contenuto va ben al di là della forma. Le lotte nazional-popolari promosse dal movimento patriottico raccolto attorno ad Hugo Chavez si iscrivono, in realtà, in una svolta storica che sembra annunciare la ripresa della battaglia antimperialista latino-americana. Osserviamo che la paralisi politica planetaria causata dal grande smarrimento del 1989-1991 (e qui bisognerebbe forse ritornare all’Europa del 1815, cioè a tutt’altra situazione storica, per ritrovare una analoga caduta della speranza nella capacità dell’umanità di sfidare un ordinamento iniquo) comincia a regredire a ritmi piuttosto rapidi, specie nel Nord dell’America del Sud, dalla Cordigliera delle Ande ai Paesi caraibici. L’offensiva neoliberale sembra aver raggiunto il culmine e sembra sia iniziato il riflusso.

Il Cono Sud

Ricordiamoci che per due decenni, dai primi anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, nel solco tracciato dalla rivoluzione cubana, numerosi reparti di rivoluzionari latino-americani, in gran parte giovanissimi, si sono lanciati nella lotta armata contro l’imperialismo, per il socialismo. Avevano visto nella loro battaglia, al di là del Paese nel quale erano cresciuti, l’apertura di un nuovo fronte di lotta anti-imperialista nel preciso momento in cui il bestiale furore del Pentagono si riversava sul Vietnam. (Tale era stato il senso del celebre Messaggio alla Tricontinentale, del 16 aprile 1967, quando Che Guevara era già impegnato nel suo ultimo combattimento nella regione boliviana di Mancahuazu). Ma sono rimasti bel al di qua dell’obiettivo:

a) nei Paesi industrializzati del Cono Sud (l’America Latina ndt) i movimenti di lotta armata, dopo una spinta iniziale, si sono scontrati con il terrore contro-rivoluzionario. Non essendo stati in grado né di sviluppare “l’operazione strategica” (guerra rivoluzionaria nelle campagne) né, meno ancora, di mobilitare i contadini, furono schiacciati l’uno dopo l’altro. Giudicando le dittature militari come espressione di una crisi irreversibile dell’egemonia borghese, avevano creduto di poter rispondere vittoriosamente con la violenza rivoluzionaria alla violenza istituzionalizzata dello Stato militarizzato. Hanno tutti pagato caro la loro incomprensione del fatto che le classi dominanti dispongono di proprie strutture di dominio politico, sufficienti non soltanto ad annientare i movimenti armati clandestini e minoritari ma anche, e senza aver bisogno di ricorrere all’intervento diretto del Pentagono, a prendere d’assalto il potere quando, come nel Brasile del 1964, nell’Argentina del 1966 e più ancora, nel Cile del 1973, lo Stato era passato sotto il controllo di una sinistra intenzionata a promuovere riforme sociali avanzate.

b) Per contro, in Nicaragua e nel Salvador, dagli anni Settanta agli inizi degli anni Ottanta, la guerriglia ha avuto successo quale forma di lotta per il potere. Se i sandinisti non hanno potuto mantenerlo dopo averlo conquistato, in gran parte è stato dovuto al fatto di essere stati il primo bersaglio della reazione guidata da Reagan. In Salvador la vittoria della guerriglia è stata parziale avendo, anch’essa, subìto il contraccolpo della reazione imperiale. In Perù lungo tutti gli anni Ottanta, Sentiero Luminoso è riuscito a scuotere fortemente l’ordinamento politico del Paese. Ma i suoi metodi truculenti, determinati dal profondo disprezzo per ogni tipo di alleanza politica, hanno limitato la portata della sua azione. Quando Alberto Fujimori, che aveva assunto la presidenza del 1990 (1), si investì dei poteri dittatoriali col colpo di Stato del 1992, Sentiero Luminoso ha subìto sconfitte sempre più serie. Molto benevolo e comprensivo nei confronti delle dittature contro-rivoluzionarie (che d’altra parte, nella maggior parte dei casi, aveva fortemente contribuito ad instaurarsi) soprattutto con quelle che si presentavano radicalmente privatizzatrici, la dirigenza statunitense non ha mai nascosto le simpatie per Fujimori (2). In Colombia, invece, la guerriglia condotta dalle Forze Armate Rivoluzionari Colombiane (Farc) ha resistito vittoriosamente ai tentativi di accerchiamento militare come anche alle trappole politiche ed oggi sembra più forte di quanto sia mai stata in quarant’anni di ininterrotti combattimenti.

Un mondo senza frontiere?

L’attuale crescita delle forze rivoluzionarie obbedisce, molto più di quanto accadeva negli anni Sessanta, alle particolari condizioni di ogni singolo Paese. Di qui la diversità delle forme di lotta e di organizzazione. Ma l’obiettivo storico rimane, per l’essenziale, lo stesso: oggi, come ieri, la lotta antimperialista, in America Latina, mira a spezzare il dominio dell’Impero del Nord. In questa fondamentale questione bisogna guardarsi da ogni contaminazione e contrabbando ideologico. La propaganda neoliberale è riuscita a far baluginare la prospettiva di un “mondo senza frontiere”. Soltanto lo shock che ha fatto seguito al crollo del blocco sovietico ed allo smantellamento dell’Urss può spiegare il fatto che una così colossale mistificazione abbia potuto diventare credibile, anche per una parte della sinistra mondiale. In ogni caso la mistificazione è servita come pretesto ai rinnegati dalle deboli convinzioni ma dai forti appetiti. I suoi effetti politici più pericolosi sono stati quelli di indebolire il senso dell’interesse nazionale che, in un mondo “globalizzato” o in un globo “mondializzato” (il pensiero unico neoliberale è così vuoto che si può, a piacere, aggettivarne i sostantivi o sostantivizzarne gli aggettivi) sarebbe diventato un nostalgico ricordo… Beninteso, coloro i quali nei Paesi oppressi dall’imperialismo sostengono l’idea che non esiste più l’interesse nazionale, rendono un ottimo servizio all’interesse nazionale degli Stati Uniti.

I dieci giorni dell’Equador

È del tutto evidente che l’anello più debole della catena del dominio liberal-imperialista in America Latina si trova attualmente nel Nord dell’America del Sud, in Colombia e nel Venezuela soprattutto. L’Equador, il solo dei Paesi della regione che sembra rimanere defilato rispetto agli eventi storici in atto, è entrato a sua volta in un periodo di turbolenze: il primo ciclo si è appena compiuto. È durato dal 9 al 22 gennaio 2000. Il giorno 9 il presidente Jamil Mahuad aveva proclamato la “dollarizzazione” del Paese con il conseguente abbandono della sovranità nazionale e la completa disgregazione del potere d’acquisto per le masse popolari. Il giorno 15 la Confederazione delle Nazioni Indigene ha proclamato la mobilitazione popolare in vista dell’occupazione della capitale, Quito. Il giorno 18 Quito è nella mani del popolo indigeno (che rappresenta la metà della popolazione equadoriana). La Corte suprema ed il Congresso sono accerchiati. Un governo di salute pubblica, composto specialmente dai capi indigeni e da un gruppo di colonnelli patrioti, proclama, il giorno 21, la destituzione di Mahuad. Il colonnello Lucio Gutiérrez, capo degli ufficiali patrioti, assume la presidenza del governo nazional-rivoluzionario. Il giorno 22, però, di fronte alla minaccia di blocco mordamenticano, l’esercito fa marcia indietro ed i generali che erano stati emarginati hanno ripreso le leve del comando: i colonnelli progressisti sono stati arrestati. Il vice-presidente, Gustavo Noboa, forte dell’appoggio dell’ambasciata degli Stati Uniti, ha assunto la presidenza dichiarando di voler confermare la “dollarizzazione”. I dirigenti indigeni hanno assicurato che la lotta continua, ed occorre prenderli sul serio. Niente sembra compromesso e dato che il popolo si è reso conto della propria forza, tutte le possibili speranze rimangono iscritte all’ordine del giorno.

Il “paramilitarismo”

La strategia del massacro (distruzione dell’infrastruttura economica e dei settori chiave dell’industria, demoralizzazione di massa delle popolazioni esposte al terrore aereo) impiegata contro l’Irak e la Serbia, presenta due principali limitazioni:

a) presuppone la decisione di colpire una nazione nel suo complesso;

b) non consente di raggiungere una vittoria definitiva, non permette cioè di piegare la volontà di lotta dell’avversatio.

Fidel Castro ha avuto più di una ragione nel qualificare l’aggressione della Nato contro la Serbia come “la più sporca guerra di tutti i tempi” e la “sporcizia” non è sufficiente per conquistare un territorio. In Colombia una strategia di questo tipo non si può applicare: sconfinerebbe nella vietnamizzazione, anche se su scala minore. Un governo fantoccio a Bogotà che prendesse ordini dal quartier generale americano potrebbe indubbiamente seppellire sotto un diluvio di fuoco una parte considerevole del territorio controllato dalle Farc. Ma il risultato non sarebbe, per i mercenari dell’Impero, megliore di quello che è stato in Vietnam o in Cambogia. È chiaro, quindi, che il metodo contro-rivoluzionario più efficace è il ricorso al “paramilitarismo”. Molti analisti indicano con questo neologismo il ruolo sempre più esteso dei mercenari e delle milizie private nelle operazioni in corso contro la guerriglia, dal Chiapas alla foresta amazzonica e all’altipiano andino. In Messico l’esercito si è assunto il compito di accerchiare le zone del Chiapas controllate dalla guerriglia zapatista, lasciando alle milizie paramilitari quello delle operazioni offensive all’interno delle zone. A questo proposito si è parlato di “colombizzazione” della guerra, ma la grande differenza sta nel fatto che in Messico il potere statale è centralizzato e che la sua macchina, bene o male, funziona. Di per sé la guerriglia del Chiapas non sembra in grado di far tremare il Messico: è, e resterà, una guerra di resistenza contadina. In Colombia le cose sono diverse. Con le sue avanguardie che giungono sino alla periferia di Bogotà, le Farc rappresentano il fattore determinante dell’intera situazione nazionale. Se prendessero l’offensiva potrebbero in breve entrare in contatto con gli imperialisti. Per il momento, però, non siamo a questo. Molti articoli apparsi sulla stampa nordamericana come anche in quella dell’America Latina, sottolineano il ruolo crescente del “paramilitarismo”. In Colombia la più bieca delle organizzazioni paramilitari è l’Auto difesa contadina di Còrdoba e Urabà (Accu). Nonostante il nome, si tratta di una vasta rete di squadroni della morte guidata da Carlos Castano, un temibile psicopatico ben armato e meglio equipaggiato. I mercenari dell’Accu conducono una sporca guerra di sterminio. Da anni operano laddove la presenza delle Farc non è solidissima: arrivano in un villaggio sospetto di simpatie per la guerriglia, torturano i contadini non tanto per strappare informazioni quanto per spargere il terrore, e poi li massacrano. Giustificano largamente il loro soprannome di “tagliatori di teste” con il quale sono conosciuti in Colombia. Come ha scritto il settimanale Newsweek (3) “gli uomini di Castano all’apparenza sembrano appartenere all’esercito regolare, ma sono un’impresa privata”. In realtà, non così privata. Il governo centrale non ha mai dato fastidio all’Acca.

Il ruolo della cocaina

Prima di diventare un “signore della guerra” come è stato qualificato dalla stampa nordamericana, Carlos Castano, i suoi fratelli ed altri componenti del suo clan neofeudale sono stati addestrati all’”autodifesa” dal battaglione Bombonà, unità antiguerriglia dell’esercito colombiano. Nei grandi mezzi privati di comunicazione di massa è diventato un luogo comune quello di associare le Farc colombiane al traffico della cocaina. Nell’agosto 1999 una delegazione guidata da un sottosegretario di Clinton, Thomas Pickering ha visitato la Colombia per discutere con il presidente Andrés Pastrana del deterioramento della situazione politica e militare. Nello stesso momento uno dei più trucidi generali del Pentagono, certo Barry McCaffrey, presentato dalla stampa come “il principale funzionario del presidente Clinton nella battaglia contro la droga (4)” è andato in Colombia a fiutare non tanto la cocaina quanto la possibilità di un possibile intervento militare (ovviamente per ragioni umanitarie). Questo Barry McCaffrey ha annunciato che la lotta contro i trafficanti di droga include quella contro le Farc perché queste (le Farc) sono collegate con quella (la droga). Eppure dovrebbe sapere perfettamente come stanno le cose in realtà, dato che in termini di traffico della cocaina è difficile conoscere di più e trafficare meglio della Cia. La sporca guerra terrorista dei “contras” contro il governo sandinista in Nicaragua non è che un esempio fra i molti altri. Un ex ministro della Difesa della Colombia, il generale Harold Bedoya, nell’ottobre scorso è andato in Brasile a predicare una “crociata di vita e di morte” contro quella che ha chiamato la “narcoguerriglia”. Secondo lui “è la mafia russa che fornisce le armi alla guerriglia e che gestisce la maggior parte della distribuzione mondiale di cocaina (5)”. È certo difficile prenderlo sul serio senza sorridere viste le idee politiche di Bedoya: i cani da guardia sono fatti per abbaiare e per mordere, non per pensare. Ma il dato inquietante in tutto questo è l’annuncio del sempre più stretto collegamento fra gli squadroni della morte e l’esercito regolare. Si sa che per i crociati il fine giustifica i mezzi, ma quelli della Cia non avranno bisogno di conquistare d’assalto Costantinopoli per garantirsi, se non la salvezza nell’al di là, certamente la prosperità nell’al di qua. I mercenari di Bedoya e i loro scherani non sono mal pagati. I piloti possono arrivare a prendere fra i 10.000 ed i 12.000 dollari per ogni missione di combattimento (fra i venti e ventiquattro milioni di lire). Si tratta di mercenari gallonati fra i quali molti veterani del Vietnam, delle campagne terroristiche contro il governo sandinista del Nicaragua, delle attività antiguerriglia nel Salvador, di veterani dell’Unita in Angola. La guerra in Colombia si intensifica e minaccia ulteriori atrocità.

Note

1) Per i cittadini peruviani la scelta si limitava fra due reazioni: Fujimori ha battuto il nostro scrittore ed estremista neoliberale Vargas Llosa.

2) Un certo Geoffrey Shepherd, economista della Banca mondiale, che ha controllato l’assestamento di bilancio in Brasile, Cile e Perù, ha presentato il “modello peruviano di riforma economica” come “così profondo e così rapido che merita di diventare un modello didattico”.

3) Del 2 giugno 1997.

4) Newsweek del 20 ottobre 1997 ha presentato McCaffrey quale “maggior uomo di fiducia di Bill Clinton nella guerra alla droga”, aggiungendo che si tratta di un veterano del Vietnam insignito di alte decorazioni e di un reduce della guerra del Golfo. In breve, di uno specialista del massacro coloniale. È sempre utile ricordare che secondo le dottrine economiche liberiste, la domanda crea l’offerta. E quindi, secondo le dottrine liberiste – sostenute a spada tratta dal governo statunitense – invece di incendiare i villaggi e le colture dei piccoli contadini, per la maggior parte discendenti di una cultura millenaria e per i quali l’uso della coca è indispensabile, i cani da guardia dell’Impero dovrebbero, se credessero a quello che dicono, andare a bombardare la Svizzera che ricicla la maggior parte dei soldi sporchi del pianeta, compresi quelli provenienti dal traffico degli stupefacenti. In ogni caso la Colombia non sarebbe una grande produttrice di cocaina se gli Stati Uniti non ne fossero i grandi consumatori.

5) Le dichiarazioni di Bedoya sono state pubblicate sul settimanale brasiliano Isto è n. 1568 del 20 ottobre 1999.

(Traduzione a cura di E. P.)