Alle origini dell’organizzazione operaia del Polo chimico di Ferrara

Alle origini dell’organizzazione operaia del Polo chimico di Ferrara: “Pevar” e la cellula comunista della “Gomma Sintetica”

Sul finire degli anni ’30 a Ferrara il regime fascista porta a compimento un obiettivo politico-economico di rilievo: la costruzione della Zona Industriale posta tra la città e il Po. Tra tutti gli impianti industriali portati a termine in pochi anni, quello che rappresenta il più avanzato livello tecnologico è lo stabilimento per la produzione della gomma sintetica, in cui si applicavano nuove tecnologie sperimentate su scala internazionale. Gli impianti avevano una capacità annua di 8000 tonnellate di gomma e utilizzavano le tecnologie Pirelli e le conoscenze sviluppate nell’impianto pilota di Milano Bicocca. Nell’ottobre del 1939 venne avviato a Ferrara un reparto pilota. Nell’aprile del 1942, all’inizio della produzione, lo stabilimento aveva un organico di 135 impiegati e tecnici, e raggiunse, nella primavera del 1944, millesettecentosessanta dipendenti, di cui 1611 operai e 149 tra impiegati e tecnici. Con l’inglobamento di Ferrara nel territorio della RSI, la Gomma Sintetica o SAIGS passò sotto il controllo tedesco, ma le incursioni aeree del luglio 1944 la costrinsero alla cessazione delle attività in loco nel mese successivo. Il PCD’I clandestino comincia in questa fabbrica un lavoro di organizzazione che, però, a differenza di altre realtà industriali del Paese non nasce dal di dentro, come portato dello sfruttamento di classe, ma viene veicolato da nuclei di comunisti che si erano costituiti sul territorio negli anni della clandestinità. A capire meglio come è cominciata la ramificazione dei comunisti ci aiuta un’intervista, registrata nell’aprile del 1980, ad un ex operaio della Gomma Sintetica, Cavazzini Marcello, classe 1913: “Io sono andato a lavorare alla Gomma Sintetica nel 1941, dopo essere tornato dalla guerra, nel 1940, mutilato. Noi eravamo organizzati da prima, fuori dalla fabbrica avevamo fatto dei raduni politici prima della guerra. Io ho cominciato a 17-18 anni. Io, Storari, Poletti, Bini, Ilio Bosi, Otello Putinati ci siamo trovati in Argine Ducale, dove poi è successo quel patatrac lì che Putinati è andato in galera, io sono andato in galera, mia sorella uguale. Alla Gomma Sintetica eravamo organizzati in modo che fra di noi non ci si conosceva. Io ero attaccato a Bini e a “Pevar”, che non ho mai saputo come in realtà si chiamasse, che poi fu mandato in Germania e poi riuscì a tornare egualmente. Non ho mai comunque saputo il suo vero nome e non l’ho mai più rivisto. Noi avevamo il dovere di non sapere l’uno dell’altro. (…) non ci conoscevamo fra di noi, eccettuati gruppi di due o tre. Fuori invece c’erano più contatti. Ci si trovava a casa di Angelini l’imbianchino, che abitava a San Luca, un altro attivo era Radames Ughi, poi, come ho detto, c’era Bini, Lambertini, Poletti ed altri.” Lo stesso ricordo è presente in Abdon Maluguti, classe 1914, che, intervistato nel luglio del 1980, racconta: “Sono entrato alla Gomma Sintetica nel marzo del 1942, dove sono rimasto fino al 20 settembre 1943. Lavoravo al Reparto F1 dove lavorando in contatto con Bortolazzi detto “Pevar” e Bregoli [Fernando] e Caselli Mario, che lavoravano in un reparto di aggiustatori per apparecchi di precisione, durante i nostri incontri notturni (per ragioni di lavoro) ci scambiavamo le nostre opinioni sul fascismo e sull’antifascismo e sul momento che stavamo vivendo. In questo modo io entrai a far parte del gruppo di Bortolazzi, di Bregoli e di Caselli Mario. (…) [La nostra coscienza antifascista però] è nata fuori dalla fabbrica [ed è stata] portata in fabbrica da questo gruppo di due o tre uomini, perché Bortolazzi tu lo sai benissimo chi era. Tante volte mi ha raccontato che ha fatto 64 mesi di galera. Quest’uomo aveva una personalità, una dignità politica … che è lui che ha cominciato a parlare ai giovani che secondo il suo giudizio gli ispiravano stima. Ha cominciato ad aprirsi e a farli aprire, piano piano, Bortolazzi ha costruito dentro alla fabbrica le cellula antifascista che poi si è allargata. (…) io, fuori, avevo contatto con Costa, come ti dissi, perché abitavamo vicini. Io fuori avevo conosciuto degli altri comunisti come Benini di Montalbano, perché da ragazzo abitavo a Montalbano, Pocaterra di San Martino, sapevo che erano degli antifascisti. Tutti uomini del vecchio partito socialista che erano entrati nel partito comunista nel ’21. Io li conoscevo che erano degli antifascisti. Dialogavano con me, perché io sono uno a cui piaceva molto di leggere. Fece un rischio un ragazzo di 16-17 anni a dargli un libro così, in pieno fascismo, nel ’37-‘38. Allora quando Bortolazzi mi parlò disse probabilmente fra sé: “Questo è uno della vecchia guardia, dei Benini, dei Pocaterra, dei Ger – manelli”, allora avemmo reciprocamente fiducia”. Segretezza e parcellizzazione dell’organizzazione erano i due elementi fondamentali per il lavoro politico clandestino in fabbrica, proprio perché lì il regime aveva puntato il suo massimo sforzo: attraverso spie, poliziotti infiltrati, gruppi di milizia fascista e provocatori. Parallelamente alla costruzione delle cellule di fabbrica c’era l’obiettivo di veicolare le notizie, le posizioni del partito, organizzando un lavoro di informazione da svolgere con pochi mezzi e con grandi difficoltà. “Noi non ci conoscevamo – è ancora Abdon Malaguti che parla – ci conoscevamo in due o tre al massimo. Le cellule erano fatte di tre, poi c’erano gli altri che conoscevano gli altri gruppi, […] e mi ricordo un particolare molto interessante: una notte, prima del crollo del fascismo, il reparto era fermo per manutenzione, allora vennero degli operai di un altro turno di lavoro ad aiutare a fare le pulizie di questo impianto e lì, dentro ad un’ autoclave, era grandissima, c’erano 3-4 operai per pulire questa apparecchiatura, lì conobbi Sivieri, scambiammo le nostre opinioni sul fascismo, c’era quello che diceva che sarebbe crollato, quell’altro che diceva che i tedeschi avrebbero vinto, scambiammo queste nostre opinioni. […] Noi portavamo dentro qualche volta della stampa, quei manifestini, quei volantini, ma roba di una entità molto ridotta perché il pericolo era grandissimo, non sto qui a dirti. Poi non c’era una diffusione a grande raggio, quando ti capitava di avere tre volantini che venivano da qualche tipografia milanese tramite la ferrovia, attraverso “Pevar”, perché era lui il pilastro, quando ti arrivavano tre volantini te ne davano uno e tu poi dopo lo facevi circolare, questa era l’attività che si svolgeva dentro la fabbrica”. La distribuzione, la circolazione del materiale di propaganda in fabbrica avveniva anche attraverso stratagemmi per evitare di essere visti e denunciati. Così lo racconta Mario Caselli: “Era “Pevar” che ci procurava la stampa. Mi ricordo che l’andavano anche a prendere nel bar che c’era in fondo a Corso Giovecca, il bar era gestito dalla sorella della moglie di Scalambra, la Jolanda. Non lo so [dov’era la tipografia], so che veniva fuori una “Unità” così piccola, come un manifestino un po’ grande, Noi ne andavamo a prendere poco, tre o quattro ne prendevamo, lo prendevamo più che altro per noi. Materiale ce n’era poco, qualche volta c’erano delle manciate di volantini, così quando c’erano gli allarmi, poi li buttavamo via. Dopo, dicevano gli altri operai: “Avete visto che sono arrivati, li hanno buttati dagli aerei”, invece li avevamo buttati noi”. Raccontata così, a quarant’anni di distanza per l’intervistato, a quasi settanta per noi oggi, l’operazione può non apparire pericolosa, ma fu proprio uno di questi volantinaggi a far scoprire una parte dell’organizzazione di fabbrica. Infatti, come si legge in un rapporto della Prefettura di Ferrara dell’8 settembre del 1944: “La locale Questura, a seguito di accertamenti esperiti e di attive indagini svolte per addivenire alla identificazione ed arresto degli autori della diffusione di manifestini sovversivi, avvenuta verso le ore 3 a cessazione di un allarme aereo nella notte dal 12 al 13 luglio u.s. [1944], nel locale stabilimento ausiliario della Gomma sintetica, veniva a conoscenza che in detto stabilimento alcuni operai svolgevano attiva propaganda comunista ed avevano costituito o stavano per costituire, un comitato interno del partito comunista, avente lo scopo di garantire il lavoro ed il benessere degli operai, ricorrendo anche a scioperi e a violenze pur di raggiungere lo scopo […] e decise di procedere all’arresto degli affiliati già conosciuti ed identificati, la maggior parte operai dello stabilimento della Gomma sintetica.” Questi arresti falcidiarono la cellula comunista di fabbrica e decapitarono la cellula del territorio ad essa collegata fin dal1942, anno che segna non soltanto l’inizio vero e proprio della produzione della gomma sintetica, ma anche il “risveglio della coscienza operaia”. Ce lo racconta Primo Canella, operaio della Gomma Sintetica e poi della IMI, altra azienda della zona industriale, in una intervista raccolta nel 1980: “quello che ha accelerato in modo particolare il fatto di un risveglio di coscienza avviene in modo particolare dopo il giugno del 1941 con l’aggressione della Germania all’Unione Sovietica. Penso che [proprio questo fu] uno dei punti che accelerò questa presa di coscienza e l’inizio del formarsi di gruppi clandestini che dettero poi vita, quando avvenne il 25 luglio [del 1943], al subentrare quasi immediato della formazione delle Com – missioni Interne, insomma di questi organismi che, pur funzionando come funzionavano, però qualche cosa hanno contato per mettere assieme qualcosa di nuovo nel movimento operaio dopo tanti anni di letargo”. Il Prefetto di Ferrara Dolfin – rimasto vergognosamente in carica anche nel periodo badogliano, dove il Prefetto Solimena lo sostituì soltanto alla fine di agosto, e divenuto poi segretario particolare di Mussolini durante la repubblica Sociale – nota, nella sua Relazione mensile al Ministero dell’Interno sugli avvenimenti dell’agosto 1943, che “è assai diffuso, in modo particolare nelle classi lavoratrici, il senso di stanchezza per la guerra [mentre sono] trascurabili gli episodi di carattere sovversivo prontamente repressi dall’Autorità militare e dagli organi di polizia; pure avendosi la sensazione che non manchi, specialmente tra le masse degli stabilimenti industriali, la propaganda attiva, per quanto prudente, degli elementi comunisti”. Le Commissioni Interne istituite nel periodo badogliano e mantenute dal fascismo anche dopo l’8 settembre, per riconquistare una credibilità tra i lavoratori, si trasformano insomma in un boomerang per i fascisti, tant’è che la Guardia Nazionale Repub bli cana (GNR), in un documento del 14 maggio del 1944, sarà costretta ad ammettere che “il progetto relativo al nuovo ordinamento sindacale ha suscitato scarso interesse. Gli elementi più spinti specie fra i lavoratori dell’industria hanno tendenze comuniste”. Poche settimane più tardi – il 7 giugno – ritorna sull’argomento e nota che “nell’ambito operaio, specie in quello dell’industria, la permanenza delle Commissioni Interne autonominatesi nel periodo badogliano, composte di elementi comunistoidi, è deleteria ed influisce in modo negativo sulla rieducazione politica delle masse che sempre più attendono ad accettare i postulati dello Stato Fascista. Viene suggerito di sciogliere le predette commissioni e di indire nuove “effettive” elezioni in modo che anche gli operai fascisti (maggiormente benemeriti in quanto esposti alla più o meno ostilità quotidiana degli altri lavoratori che si sentono protetti dalle attuali commissioni) possano esservi rappresentati a portare nelle discussioni, il contributo della loro fede.” E’ del tutto evidente che lunghi mesi di repressione, di arresti e di uccisioni non avevano fiaccato la lotta dei comunisti ed era, invece aumentato il consenso tra i lavoratori. Ma da quale storia veniva chi dirigeva la neonata organizzazione comunista alla Gomma Sintetica? Chi era, ad esempio, questo “Pevar” (in dialetto significa pepe e, come tutti i soprannomi, non poteva che indicare un tratto specifico del carattere, in tutta evidenza non suscettibile di ammorbidimento da parte del regime) al secolo Leandro Bortolazzi? Cosa l’aveva portato a diventare il punto di riferimento di questo “nuovo inizio” comunista in una struttura industriale anch’essa nuova di zecca, lontana dalla tradizione ferrarese che contava, al più, su stabilimenti legati alla lavorazione dei prodotti dell’agricoltura e dell’economia di valle? Leandro Bortolazzi nasce a Frassinelle Polesine in provincia di Rovigo il 22 agosto 1897 ed emigra con la famiglia a Ferrara città all’età di due anni, il 30 ottobre 1899. Operaio avventizio per circa un anno pres so la Società Elettrica Padana di Ferrara, poi accenditore presso la Società Veneta per l’esercizio della Ferrovia secondaria ed infine elettricista alla Gomma Sintetica, è un ex combattente, ferito di guer ra e decorato della croce al merito di guerra. E’ iscritto al partito comunista fin dal 1921 e non si è mai peritato di nascondere i suoi sentimenti politici nemmeno dopo l’avvento del fascismo. E’ soltanto il 25 marzo 1927, però, che il Questore di Modena, Cesaroni, informa con un telegramma la questura di Ferrara che nel precedente “giorno festivo” un sospetto “sovversivo” aderente alla federazione comunista locale, tratto in arresto, ha confessato di aver ricevuto “documenti movimento comunista” da un certo Bortolazzi, non meglio identificato ma “piuttosto alto, colorito roseo, capelli ricciuti e alti neri”. Ne chiede l’individuazione e la perquisizione sia personale che domiciliare. A matita, in margine, la segnatura della questura ferrarese, che lo identifica in Leandro Bortolazzi detto “Pévar”. Nel fascicolo ferrarese, il documento successivo è un interrogatorio che Leandro subisce il 28 giugno 1927. All’epoca lavora per le Ferrovie, con funzioni di accenditore “presso la Società Veneta” con competenza sulle “ferrovie secondarie”. Gli mostrano una lettera, che riconosce per quella , scritta di suo pugno, da lui consegnata “al corriere interno” del partito comunista ormai fuorilegge (le leggi speciali sono del 1926), “che venne qui a portarmi dei manifestini che si sarebbero dovuti distribuire fra i disoccupati”. Leandro è infatti il fiduciario del partito per la provincia di Ferrara e mantiene i collegamenti con il Segretariato interregionale n. 13, cioè con l’organismo comunista, con sede a Bologna, che organizzava i contatti tra gli aderenti ad un livello sovraregionale . Leandro ha sostituito, nella carica di responsabile federale, Luigi Bagnolati detto “Viandante”, costretto ad emigrare a Milano per sfuggire ai fascisti. La di- stribuzione di “manifestini” “incitanti all’odio di classe ed alla lotta contro il governo nazionale”, consegnatigli sia dal corriere che da un tal “Nini” di Porotto, era avvenuta sia nell’aprile che nel giugno, “profittando”, in questo ultimo caso, “di una manifestazione di disoccupati” che reclamavano lavoro davanti alla federazione fascista. All’epoca, secondo dati forniti dal Bagnolati, l’organizzazione ferrarese comunista contava 85 iscritti adulti e una quarantina di giovani. Gli inquirenti chiedono a “Pevar” i nominativi degli aderenti, ma il nostro risponde di non poter “indicare alcuno” non essendoci, a suo dire, in tutta la provincia, aderenti al P.C., a parte lui stesso e “Viandante”. Il 6 luglio il Prefetto di Ferrara inoltra una dettagliata relazione al Ministero dell’Interno sull’ “Attività del partito comunista ed arresto del fiduciario provinciale Bortolazzi Leandro”. Apprendiamo così che “Pévar” aveva partecipato alla prima guerra mondiale rimanendo ferito alla testa ed ottenendo per questo la croce di guerra e che era stato iscritto alla federazione giovanile comunista dal suo sorgere fino a tutto il 1922. Quando, in seguito alla segnalazione della questura modenese, riescono ad arrestarlo,“essendo riuscita infruttuosa la perquisizione personale, domiciliare e dello stipetto in cui conservava gli indumenti ed utensili del lavoro, il Bortolazzi fu sottoposto a lungo e stringente interrogatorio alla presenza del Com missario aggiunto Dottor Zecchini Ottavio della questura di Ancona e qui venuto es pressamente per raccogliere elementi e circostanze in merito all’attività del Bor tolazzi”. Anche un altro sovversivo di quella città, infatti, lo aveva indicato come fiduciario comunista per la provincia di Ferrara. “Questi – continua il Prefetto – alle incalzanti domande rivoltegli dal Vice Commissario De Sario finì col confessare di essere da circa tre mesi, il fiduciario del partito comunista per la provincia di Ferrara, percependo un assegno mensile di circa lire 500”. Le ricerche di “Nini” risultarono infruttuose, mentre Bagnolati fu tratto in arresto dalla questura di Milano e denunciato al Tribunale Speciale “perchè dirigeva colà un ufficio di corrispondenza comunista”. “Intanto – continua la relazione prefettizia – nella notte dal primo al due [luglio] in località Gualdo, Quartesana, San Martino e Castel d’Argile di questa provincia, furono rinvenuti alcuni esemplari di manifestini incitanti i disoccupati ad organizzarsi per protestare contro l’attuale regime. Dalle accurate investigazioni eseguite col concorso dei carabinieri si accertò che erano stati lanciati da un’automobile che aveva attraversato dette località, provenendo probabilmente da Bologna”. Nel frattempo, Bortolazzi fu tradotto ad Ancona per essere sottoposto ad ulteriori interrogatori. E’ superfluo specificare che cosa significasse l’espressione “lungo e stringente interrogatorio”, essendo note le bastonature e le torture a cui la squadra politica della Questura sottoponevga i prigionieri, mentre val la pena specificare che il Brigadiere di P.S., tal Fabbiani, ritiene il Bortolazzi “dotato di scarsa coltura e di poca intelligenza”, cosa che tuttavia non gli ha impedito di essersi “sempre adoperato con ogni mezzo per rendersi utile al movimento comunista”. Anche dopo l’avvento del fascismo, specifica una nota dei carabinieri stilata nel settembre 1927, “sebbene non lo abbia manifestato apertamente per tema di rappresaglie, egli si è sempre mantenuto di tali sentimenti e non ha mai lasciato sfuggire occasioni per esternarli, quando si è trovato con compagni di fede”. Le Ferrovie venete naturalmente tentano di licenziarlo, cosa che non gli riesce facile poiché la moglie, Elsa Rizzieri, giovane ma a sua volta non ingenua comunista, si rifiuta di accettare la posta indirizzata al marito. Nondimeno Bortolazzi viene “sospeso dal soldo e dal servizio” e la sua famiglia, all’epoca composta dalla moglie incinta e da quattro figli (il quinto nascerà mentre si trova in prigione, in attesa della sentenza del Tribunale Speciale), piomba nella miseria più nera. Elsa va a vivere con i suoceri, anch’essi poverissimi, e cerca di provvedere ai figli e al marito prigioniero con il suo povero mestiere di lavandaia. Deve, tuttavia, rassegnarsi a separarsi da tre delle sue creature, inviandone due in “collegio” dalle “Suore Stim matine Francescane” e una presso i suoi genitori. Quando condannano Lean dro a 8 anni di carcere, Elsa chiede personalmente e fa chiedere ai due fratelli di lui (che, incolpevoli, verranno anch’essi tratti in arresto e interrogati), alla madre Angela e persino con una lettera a firma dei piccolissimi figli, la grazia per Leandro. Lo stesso Bortolazzi si rassegnerà infine a richiederla, ma tutte le istanze saranno respinte, anche perchè la stessa Elsa – a cui non sarà concesso che un misero sussidio – è sottoposta a sorveglianza speciale, la si ritiene in grado di tenere i contatti tra i compagni di fede, se ne segnalano gli incontri con Maria Bertocchi, già fiduciaria del partito ferrarese per il lavoro militare nei primi anni ’20 e ideatrice di una delle prime cellule femminili della città, prestando infine la sua casa a riunioni che vengono segnalate da una spia del vicinato, il quale impunemente si firma “l’occhio di Roma”. Di conseguenza, argomentano le autorità, concedere la grazia al Bortolazzi sarebbe davvero avventato, poiché al suo ritorno a casa troverebbe il terreno sovversivo mantenuto ben coltivato proprio dalla moglie Elsa, che inizialmente si era finta disperata per la sorte occorsa a colui che essa indicava come sventato e ignorante, ma fondamentalmente incolpevole, suo coniuge. Il bel rapporto tra Leandro ed Elsa, e tra i due e la condivisa necessità di tenere in piedi l’organizzazione clandestina del partito, si dipana nei fascicoli che sia la questura di Ferrara che il Casellario politico centrale dedicano all’una e all’altro. Le lettere autografe conservate al loro interno ci dicono di una corrispondenza mai giunta a destinazione; le trascrizioni di altre lettere, di una censura postale assolutamente attiva ed occhiuta. L’inserimento di Leandro nell’elenco, stilato dagli organismi centrali del partito, delle “spie” e dei “traditori”, tra quanti si macchiarono della “colpa” – ovviamente tutta simbolica e morale – di chiedere la grazia a Mussolini, dice delle difficoltà di comunicazione tra le cellule clandestine disseminate sul territorio e gli organismi di direzione nazionali ed esteri, tutti ugualmente fuorilegge e quindi tenuti nella più assoluta clandestinità. E’ infatti assolutamente chiaro alle autorità che la richiesta di grazia di Leandro è puramente strumentale, mentre il Partito non può non bollare il suo comportamento mettendo in guardia gli altri affiliati all’organizzazione. Che “Pèvar” non fosse venuto meno ai suoi ideali (persino la sua segnalazione come spia dell’OVRA ha il sapore della beffa perchè il suo comportamento tra gli operai induce le autorità ferraresi a ritirare immediatamente l’offerta a divenire loro confidente stipendiato), ma fosse stato indotto a chiedere anche personalmente la grazia dalle disgraziatissime condizioni economiche della sua numerosa famiglia “abbandonata a se stessa tra la fame e i patimenti di ogni sorta” come anche i carabinieri ripetutamente scrivono, è testimoniato dai molti documenti che nei fascicoli parlano della sua attività sia in carcere che successivamente alla liberazione per intervenuta amnistia del decennale del regime (1932). Il suo apparente disinteresse per la politica finisce infatti con la segnalazione, nel 1938, del perdurare della sua abitudine ad accompagnarsi ad elementi sovversivi. Nel 1942 viene assunto come elettricista alla “Gomma Sinte tica”, la fabbrica sorta nella nuova zona industriale da poco creata dal fascismo tra Ferrara e il Po. Nel periodo badogliano (25 luglio – 8 settembre 1943), sotto la sua direzione, nella fabbrica si costituisce, come abbiamo visto, una commissione interna, che permane in attività anche al sorgere della Repubblica Sociale. Nel luglio 1944, la cellula comunista della “Gomma Sintetica” viene individuata per l’ingenuità di una giovane staffetta, Fedora Ganzaroli, e del suo comandante, Guido Droghetti, che accettano l’inserimento nel gruppo, collegato alla cellula territoriale di Cocomaro di Focomorto, di due infiltrati dell’ufficio politico della questura, Giulio Valli e Mario Balugani . La maggior parte dei suoi componenti verrà trucidata negli eccidi della Certosa di Ferrara (11 e 20 agosto 1944), per rappresaglia ad un’azione gappista che aveva portato all’uccisione, in pieno giorno e per le strade della città, del Com missario di P.S. Mario Villani, noto per le sue efferatezze sui prigionieri. Leandro Bortolazzi finirà in campo di concentramento a Dachau. Riesce a sopravvivere, ed uno dei suoi figli, Ivano, sarà con Bruno Rizzieri, fratello di Elsa, sul Ponte dell’Impero nella notte tra il 30 aprile ed il primo maggio 1944, riuscendo a scampare ad uno scontro a fuoco con i tedeschi in cui perderà la vita lo zio Bruno. Ed è a quest’ultimo che verrà intestata la 35° Brigata Garibaldi di Ferrara.

Fonti

ASFe, Questura, Gabinetto, Cat. A8, b. 29 fasc. 873
ASFe, Prefettura, Gabinetto, b. 139
ACS, CPC, b. 772, fasc. 7510
Archivio Museo Risorgimento e Resistenza di Ferrara, Operai Gomma Sintetica. Trascrizioni interviste.
Delfina TROMBONI, Donne di sentimenti tendenziosi. Sovversive e schedature politiche del Novecento, Nuove Carte, 2006