Alla scuola leninista di Mosca

Come molti altri compagni reduci dalle carceri italiane, anch’io fui proposto per un corso di studio presso la scuola leninista di Mosca dove giunsi nel mese di ottobre del 1935. Debbo confessare che quando ciò mi fu comunicato non stavo più nella pelle per l’ansia e per la gioia di conoscere il paese dove la classe operaia aveva conquistato il potere, dove non c’erano più padroni e dove la potenza del denaro non soggiogava l’uomo.
Per i nostri avversari, già da allora preoccupati dei successi economici, politici e diplomatici dell’Unione Sovietica, noi eravamo nient’altro che servi prezzolati di Mosca, sottoposti al lavaggio del cervello ed incapaci di un pensiero autonomo. In realtà coloro che frequentavano la scuola erano uomini e donne, in maggioranza operai, con alle spalle un passato di dure e lunghe lotte, di sacrifici e persecuzioni d’ogni sorta sopportati con dignità e coraggio, senza mai chiedere nulla per sé. Gli insulti che ci venivano rivolti erano, ancor più che infami, molto stupidi e comunque non ci toccavano. Ci saremmo dovuti preoccupare se avessero detto bene di noi.
Arrivai a Mosca viaggiando in treno attraverso il Belgio, la Germania e la Polonia, con un passaporto falso ma senza patemi d’animo. Quando arrivai alla frontiera di Vitebsk e per la prima volta vidi i soldati dell’esercito rosso con la falce ed il martello sul berretto, ebbi un tuffo al cuore.
Ecco la guardia armata della rivoluzione, ecco il segno del proletariato al potere, e, in quel momento mi tornò alla mente l’Italia lontana, immersa nella cupa atmosfera del fascismo.
Qui provavo un senso nuovo di liberazione, di pienezza della vita. Fino ad allora ero stato solo un ribelle, perseguitato, sotto la minaccia permanente della polizia, incerto di avere ogni giorno di che vivere e un letto per dormire. A Parigi, è vero, mi ero liberato dalla cappa di piombo del fascismo, ma vivevo pur sempre nel mondo capitalista, ero pur sempre un clandestino. Un poliziotto qualsiasi poteva prendermi, farmi un passage a tabac, un pestaggio come dicono i francesi, e farmi decretare l’espulsione.
Ora qui, sul suolo sovietico, le ansie e le preoccupazioni sparivano ed il mondo mi sembrava bello come nei sogni belli. Quando scesi dal treno e mostrai al soldato di frontiera assieme al passaporto un foglio particolare, egli mi guardò atteggiando ad un sorriso il suo viso severo e mi diede una strizzatina d’occhi come a dire: “ci siamo intesi, ho capito chi sei”. Eravamo compagni, era chiaro; ma essere compagno di un soldato rosso mi fece l’effetto di sentirmi più forte, di contare di più. Ma che cosa era veramente questo mondo di cui avevo sentito dire tanto bene e tanto male? Era vero che c’era tanta miseria, tanta arretratezza e tanta mancanza di libertà? O era vero il contrario, che si erano compiuti enormi progressi in tutti i campi e che nessun paese era più libero e democratico di quello? Avrei potuto verificare con i miei occhi quello che si diceva e si scriveva di questo immenso paese?
Prima di iniziare gli studi fui inviato, assieme ad altri compagni, a curare la salute in una casa di riposo invernale. Qui ebbi modo di conoscere da vicino gli ospiti sovietici, tutti lavoratori premiati per la loro attività, bisognosi di cure e di riposo; uomini e donne, giovani ed anziani, ch’erano stati di esempio nel lavoro, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nell’esercito.
Notai subito la loro semplicità, anche di quelli che ricoprivano cariche importanti, notai il rigore e l’impegno dei giovani, che lavoravano e studiavano contemporaneamente, e soprattutto il tratto delle donne che avevano conquistato l’uguaglianza effettiva con gli uomini. Ma questa esperienza non poteva fare testo perché si trattava di cittadini, in un certo senso, selezionati rappresentativi della parte più cosciente e più impegnata della popolazione.
In questa casa di cura conobbi una giovane che lavorava e studiava ingegneria e che continuò a scrivermi fino a quando scoppiò la guerra. Si chiamava Anna Petrocenko e viveva a Venev, una città dell’Ucraina. La ricordo perché essa fu per me il simbolo della gioventù sovietica di quel tempo, animata da uno slancio, da una fede e da uno spirito di sacrificio eccezionali. Ne dette prova prima nello studio e nella costruzione materiale e ideale del socialismo, poi nella difesa della patria durante la guerra. Una gioventù intransigente con se stessa e con gli altri, di un rigore morale ispirato ad un modello trascendente di virtù umana, possibile solo in un clima di tensione rivoluzionaria e di netto rifiuto delle forme deteriori di individualismo e di egoismo.
Io ero affascinato da quella gioventù al punto di non avvedermi dei difetti che anche un tale tipo di educazione comportava. Si creava uno squilibrio con il livello generale di crescita della società, si cristallizzavano forme rigide di comportamento e di giudizio e si rendeva difficile la comprensione delle naturali debolezze umane. Nonostante ciò molto valido fu l’apporto della gioventù al superamento delle enormi difficoltà nella costruzione di una società socialista e per elevare la coscienza rivoluzionaria di tutto il popolo.
A Mosca fummo alloggiati nella nuova scuola costruita sulle colline di Lenin, quando quella zona era ancora deserta; l’edificio era moderno, razionale e arredato in modo confortevole. L’organizzazione della scuola agevolava in ogni modo lo studio; belle camerette per due persone, aule luminose, saloni di svago e di giochi, piste di pattinaggio, cinema, spettacoli teatrali, visite a musei, a fabbriche, a giornali. Una vita intensa, organizzata e varia nella quale non mancavano le scappatelle individuali.
A me, ancora più dello studio sui libri e sulle dispense, interessava la conoscenza diretta della vita sovietica di quel tempo. Si usciva appena allora dal primo piano quinquennale che aveva richiesto enormi sacrifici, e la collettivizzazione della campagna non era ancora consolidata. Mosca e gran parte dell’Unione Sovietica erano un immenso cantiere. Masse enormi di lavoratori si spostavano dalle campagne nei grandi centri di produzione, in condizioni di disagio inaudite e con un infimo tenore di vita. Le vetrine dei negozi erano vuote, i vetri rotti, le insegne cadenti, le strade periferiche prive di manutenzione. La febbre dell’industrializzazione si accompagnava ad un grande spreco di materiale, di macchine di uomini. Non era facile capire dove si trattava di incapacità e dove agiva il sabotaggio. Era una società che voleva e doveva percorrere in pochi anni il cammino che ad altri paesi più progrediti d’Europa e d’America aveva richiesto decenni.
C’è chi, ancor oggi, si chiede perché si dovessero imporre ritmi di industrializzazione così elevati e perché si pretese di collettivizzare le campagne in tempi così brevi senza aver realizzato le necessarie premesse di meccanizzazione dell’agricoltura e di preparazione dei quadri. Si portano esempi di soluzioni diverse adottate con risultati positivi in Cina, a Cuba, nella Repubblica Democratica Tedesca, in Bulgaria. Si attribuisce al potere sovietico ed in particolare a Stalin la colpa di avere forzato le tappe e di avere provocato in tal modo un inasprimento molto grave nella situazione interna.
Queste critiche, anche quando vengono da sinistra, in generale non tengono conto della situazione politica internazionale di quel momento ed in particolare del fatto che la minaccia di guerra contro l’Unione Sovietica era reale e vicina. La mancanza di una base industriale e le difficoltà del rifornimento alimentare, affidato a milioni di piccole economie contadine, esponevano l’Unione Sovietica ad un pericolo mortale.
Una critica alla politica economica dell’Unione Sovietica in quel tempo, ai piani quinquennali ed alla collettivizzazione delle campagne che non tenga conto di questo dato politico essenziale, non ha fondamento. Nessuno può e vuole negare le difficoltà, i sacrifici, le distruzioni di ricchezza, la durezza delle misure repressive che un tale tipo di trasformazione economica comportava. Ma il quesito cui bisogna rispondere, non è se esistano in generale soluzioni migliori, ma se esistessero altre soluzioni allora, nelle condizioni di accerchiamento dell’unico paese socialista da parte del capitalismo mondiale. Io penso di no.
Senza quei piani quinquennali, senza la creazione di una grande industria di base e senza la cooperazione agricola, in un eventuale conflitto l’eroismo degli uomini sarebbe stato travolto dalla potenza dei mezzi moderni di guerra, che soltanto una grande industria può produrre. I tre anni della guerra 1914-1917 ed i quattro anni di guerra civile avevano dissanguato il paese, distrutto l’industria ed i trasporti e provocato una carestia di dimensioni bibliche. Le epidemie avevano fatto il resto. Il potere socialista, uscito da una così tremenda prova, doveva prima di tutto garantirsi dal ritorno della classe spodestata. Si poneva allora il dilemma: si doveva rompere l’accerchiamento portando la rivoluzione negli altri paesi capitalisti anche con le armi, o si doveva consolidare il potere politico e l’economia all’interno per costruire la società socialista anche se in un solo Paese?
Così schematizzato il problema può sembrare posto in modo semplice. In realtà il dibattito, pur svolgendosi attorno a quel dilemma, abbracciava tutti i grandi problemi della rivoluzione; le forze motrici, le alleanze, i compiti internazionali, la costruzione del nuovo Stato. Chi aveva ragione? Chi riuscì a realizzare una politica che in ultima istanza risultò vittoriosa all’interno ed internazionalmente o chi aveva denunciato i pericoli, le degenerazioni, le violazioni della legalità socialista ma aveva proposto un’alternativa che avrebbe portato la rivoluzione al fallimento? In sede storica si può discutere fin che si vuole, ma in quel momento, per chi si proponeva al di sopra di tutto di salvare la rivoluzione, non ci potevano essere dubbi.
Gli errori, le degenerazioni, le violazioni della legalità socialista, le repressioni che hanno coinvolto assieme ai nemici irriducibili del socialismo (basti pensare ai kulak), anche sinceri rivoluzionari di diverso orientamento, per quanto gravi ed esecrabili, non possono modificare il giudizio sostanzialmente positivo sulla linea generale seguita in quella situazione. Il che non significa per niente che i metodi e la via seguita nell’Unione Sovietica per la conquista del potere e la costruzione del socialismo dovessero essere un modello anche per noi e per altri paesi in situazioni completamente diverse. Ciò che rimane sempre valido in ogni parte del mondo e senza del quale non si può parlare di socialismo, l’aveva detto Marx molto prima di Lenin: l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e quindi del profitto capitalistico, e la presa del potere da parte della classe operaia con un sistema di alleanze che rappresenti la grande maggioranza del popolo.
Non è dall’VIII congresso del P.C.I., ma da molto prima, che i comunisti italiani hanno elaborato una lotta politica che non si ispira al modello sovietico, e basta rileggere i documenti del nostro partito, almeno del congresso di Lione in poi, per averne la prova. […]
Nel 1935 i momenti più drammatici dell’epoca del primo piano quinquennale erano stati superati; “la vita,” aveva detto Stalin, “è diventata migliore, più felice”. Questa frase campeggiava ovunque in grandi scritte e corrispondeva a verità, ma si trattava di un miglioramento solo al confronto con i periodi tremendi attraversati negli anni precedenti. Era ancora una vita dura per tutti, sia nelle città sia nelle campagne, si imponevano privazioni da tempo di guerra che richiedevano, per essere sopportate, una tensione politica eccezionale. Nella popolazione c’era malcontento ed insofferenza, ma anche speranza e fiducia, perché ben visibili erano i successi del paese che si trasformava. Le grandi centrali elettriche, i grandi centri industriali, città intere che sorgevano dal nulla per opera dei giovani, le istituzioni scolastiche, la provvidenza sociale. Ogni contatto con il popolo sovietico accresceva il mio affetto nei suoi confronti; uomini e donne che avevano affrontato battaglie da giganti, raccontavano tranquillamente le loro imprese leggendarie (non solo quelle della guerra ma anche quella della costruzione del socialismo) e svolgevano modestamente i loro compiti. Vecchi che a settanta e più anni imparavano a leggere e scrivere, semplici operai diventati direttori di fabbriche e donne, come quella che incontrai a Baku, che da semplice lavandaia era diventata direttrice di una raffineria di petrolio, non erano casi eccezionali.
Ma ancor più commuoveva la cura e l’amore per i bimbi, il culto per l’infanzia. Nidi, asili, scuole, parchi d’infanzia erano le cose più belle, più curate; in quelle realizzazioni, e non tanto nelle attrezzature quanto nell’amore che le circondava, si esprimeva una delle caratteristiche più originali della nuova società.
I bimbi e la donna erano le figure umane che più si distaccavano, già allora, dal mondo capitalista dove il denaro è la misura di tutti i valori. Non più infanzia abbandonata, analfabeta e affamata, infanzia sfruttata a sangue nella fabbrica o con il lavoro nero a domicilio; non più infanzia educata alla sottomissione per farne strumento docile dei potenti o carne da macello.
E la donna. Non c’è società, anche la più spietata del passato, che sappia essere così raffinata come quella capitalista nell’abbassare la donna alla condizione di mammifero di lusso o a quella di bestia da soma, per spremerne tutta la fatica umanamente possibile. La società capitalista è implacabile verso la donna anche quando le sue leggi ne sanciscono il diritto all’uguaglianza o i suoi ipocriti costumi ne impongono il rispetto formale. Solo in un mondo socialista si avverte la vergogna della condizione della donna nella società capitalista, solo il confronto dà la misura dell’abisso che separa i due mondi.
Ho conosciuto da vicino questi aspetti della società sovietica, mi sono avvicinato ad essi con l’animo sgombro da esaltazioni mitiche, ho raccolto le mie impressioni nel contatto diretto con la vita. Ogni fatto, ogni episodio, ogni testimonianza, è stato una conferma di questa realtà nuova creata dalla rivoluzione proletaria.
Il pane era nero, la carne poca, il vestiario insufficiente, gli alloggi promiscui, i trasporti sgangherati, ma milioni di uomini e di donne si appassionavano ai dibattito letterari oltre che politici, leggevano Puskin sui tram e sui treni più di quanto si leggano da noi parole incrociate e fumetti. I teatri erano sempre affollati e non si contavano i gruppi corali, musicali e filodrammatici nelle fabbriche, nell’esercito, nei quartieri.
Un paese ancora sporco, da cui emanava l’odore di stalla del mugik, che appena stava educandosi alla pulizia del corpo, ma che già era pulito nel comportamento, nei rapporti sociali, negli slanci di abnegazione soprattutto della sua gioventù. Dietro questa realtà che investiva grandi masse di lavoratori, si svolgeva un duro scontro politico che si inasprì in modo ingiustificato negli anni successivi. Stavano anche maturando le degenerazioni provocate dall’accentramento del potere, dalle limitazioni della democrazia interna del partito e nelle istituzioni statali.
È di quest’epoca, 1935-1939, l’affermazione indiscussa della personalità di Stalin, la consacrazione del successo della sua politica attraverso un vasto e sentito consenso popolare. È però anche in quest’epoca che incominciava veramente quello che impropriamente è stato chiamato il “culto della personalità”. Ancora prima che da Stalin, almeno all’inizio, esso fu voluto e sollecitato da suoi collaboratori a tutti i livelli. Alcuni lo facevano per convinzione, altri per adulazione, perché anche nei paesi socialisti la triste genia dei lacchè politici non è scomparsa e non scomparirà fino a quando esisteranno gerarchie di uomini, gli uni subordinati agli altri.
Io ammiravo Stalin non meno degli altri compagni, ma mi infastidivano le lodi enfatiche, i ripetuti applausi e gli evviva interminabili che gli venivano rivolti in occasione delle assemblee della scuola. Non esitai a esprimere il mio fastidio e lo feci, come al solito, in modo aperto e con poca diplomazia. Mi rispose la direttrice, compagna Vladimirskaia, che tutta la vita aveva dedicato al partito, con queste parole: “Credevo che foste sincero quando voi stesso inneggiavate a Stalin, ma vedo che non è così”.
Era un’accusa pesante quella che mi rivolgeva la direttrice, e, presa alla lettera, poteva significare che avrei potuto essere uno dalla doppia faccia, un infiltrato e che diavolo so io! In realtà una volta, preso dall’entusiasmo, avevo inneggiato anch’io come gli altri, ma il senso d’insofferenza da me espresso aveva un altro significato. Cercai di spiegarmi ma non potei cancellare l’impressione di non essere sincero. E proprio per un bisogno di sincerità venivo accusato di essere falso!
L’episodio sembra, anzi è insignificante, ma quante volte è accaduto che su episodi simili siano state intessute assurde accuse ai fini di basse vendette personali o per dare dimostrazioni di zelo? E quante tragedie dovute all’intrigo hanno avuto la copertura della “teoria” secondo la quale l’avanzata del socialismo portava all’inasprimento della lotta di classe!
Io, in quel momento, non sospettavo neppure lontanamente che il mio intervento potesse procurarmi noie e continuai a esprimermi apertamente anche quando ciò non piaceva ai dirigenti del corso. Fui criticato molte volte e quasi sempre giustamente e con profitto per la mia futura attività.
A parte però alcuni episodi negativi come questi che ho raccontato, la mia permanenza nell’Unione Sovietica fu straordinariamente ricca di esperienze positive. Le più vive furono quelle dei contatti con le cooperative agricole (kolkoz) e con le fabbriche. Lo studio delle strutture produttive e politiche era sempre molto serio ed approfondito. I rapporti con i dirigenti e con i lavoratori delle fabbriche e dei kolkoz non erano formali. Si entrava nel vivo dei problemi della costruzione del socialismo e si verificava nella pratica ciò che si studiava in teoria. Le nostre domande erano aperte, anche spregiudicate, e franche in generale erano le risposte. Non ci venivano nascoste le condizioni reali di vita, gli errori, le scorrettezze. Per completare le discussioni di fabbrica, visitavano le famiglie e ci intrattenevamo a lungo nella case dei lavoratori.
La cattiva utilizzazione del macchinario, la lentezza esasperante del lavoro, impressionavano ed irritavano in particolare i nostri operai, abituati in Italia e all’estero, nelle fabbriche e nell’edilizia, a ritmi produttivi frenetici. La descrizione dei lavoratori sovietici come una massa brutalizzata dalla fatica è quanto di più puerile abbiano saputo inventare i servi sciocchi dei padroni del vapore. […]
Oltre ai grandi risultati conseguiti dalla società socialista, pur con tutti i suoi errori ed i suoi difetti, per noi contava anche, direi soprattutto, l’esistenza dello Stato socialista, lo Stato degli operai e dei contadini, baluardo contro l’avanzato del fascismo nel mondo, speranza degli oppressi, dei paria della terra, cui guardavano con fiducia sterminate masse di uomini di ogni continente. Questo ci dava sicurezza per l’avvenire.
A Mosca ho conosciuto per la prima volta Palmiro Togliatti che venne alla scuola a tenerci alcuni lezioni sulla concezione leninista della rivoluzione proletaria e sul comportamento cospirativo dei comunisti in Italia.
[…] A mosca ho conosciuto Antonio Roasio che lavorava al Comintern, uno degli operai che divennero dirigenti di primo piano del partito; ho conosciuto il vecchio Anselmo Marabini il quale, durante il primo periodo dell’aggressione fascista all’Abissinia, era convinto che le sanzioni avrebbero fatto crollare il fascismo (e teneva pronte le valigie per rientrare in Italia). Ho rivisto Longo in una luce simpaticamente diversa durante una delle nostre feste, quando si esibì in una danza molto simile a quella di un orso ammaestrato, il che mi incoraggiò a fare altrettanto.
Nel nostro piccolo gruppo c’era Raffaele Pieragostini di Genova, fucilato dai tedeschi alla vigilia della liberazione, c’erano Saccenti di Prato e Giuseppe Cerasa, milanese ex anarchico, compagno di cella di Gramsci, di carattere originale, pungente, ipercritico, ma puro di sentimenti e amante della verità fino al limite del possibile. C’era Berto Alberti di Forlì, con il quale fui poi in Spagna, molto apprezzato per un’esperienza da lui realizzata con successo tra i militari di una caserma in Italia, di cui avevano parlato perfino la rivista dell’Internazionale comunista e “Stato Operaio”. C’era un calabrese, Gennaro Saccone, al quale piacevano più le donne dei libri, ma che era sveglio e simpatico, e Rita Montagnana, moglie di Togliatti; Orazio Marchi (Rotier) ferito poi gravemente in Spagna, Aldo Lampredi, esemplare figura di combattente al quale sarebbe toccato in sorte di diventare assieme a Walter Audisio giustiziere di Mussolini; Dina Ermini, già attiva nella clandestinità in Italia ed altri ancora.
Tra gli insegnanti ricordo Anastasia Bogomolova, partigiana negli anni della guerra civile, e Giuseppe Amoretti, che fu diretto collaboratore di Gramsci. Inviato da Mosca negli Stati Uniti per costituire un centro del partito con Berti e Donini morì durante il viaggio, a Kobel in Giappone, nel gennaio del 1941.
Nel complesso eravamo un gruppo molto vario con personalità diverse, quasi tutti un po’ indisciplinati, vivaci ed anche un po’ impertinenti. Perfino io ero diventato gaio, sorridente e felice. Avevamo critiche per tutto e per tutti; da veri italiani non si risparmiava niente a nessuno, ma non ci venne mai meno l’affetto verso quel paese dal cuore immenso che batteva per tutta l’umanità.
Il 18 luglio 1036 ci giunse la notizia della ribellione dei generali fascisti contro il governo democratico spagnolo.
La vittoria del Fronte popolare nelle elezioni del febbraio 1936 aveva suscitato grande entusiasmo e grandi speranze in tutto lo schieramento antifascista, specialmente in Europa. Ma Hitler e Mussolini non potevano tollerare l’insediamento in Spagna di un governo decisamente antifascista e sostenitore di una politica di pace, anche se costituito solo di forze moderate con l’esclusione dei socialisti e dei comunisti. E poiché le organizzazioni fasciste erano state battute nella competizione democratica e non erano in grado di imporsi con la violenza, fu l’esercito a prendere in mano le redini della rivolta.
La Spagna divenne così il punto più caldo dello scontro mondiale tra le forze di pace e quelle della guerra, tra il fascismo e l’antifascismo. Questa la posta in gioco in quel momento in Spagna ed il movimento operaio e progressista, nella sua parte più avanzata, lo comprese immediatamente.
A Mosca, la discussione assai vivace sull’avvenimento si accompagnò a grandi manifestazioni popolari e al lancio di una sottoscrizione per la Spagna che in pochi giorni raggiunse cifre imponenti […]
Appena scoppiata la guerra, il mio primo impulso, come quello di molti altri compagni, fu di chiedere di partire per la Spagna senza attendere la fine del corso. Ma la risposta fu negativa. Era già estate e noi dovevamo compiere un viaggio di studio pratico nel Caucaso e poi andare in vacanza. Ci recammo a Maikop, nel Caucaso del Nord, non lontano dal mar Caspio. Era questa una città di provincia che conservava quasi intatte le caratteristiche dei borghi della vecchia Russia, con casette di legno sparse in grandi spazi, strade di terra battuta che in realtà non erano strade, una grande confusione di gente, un intenso movimento di carri e camion e ovunque cantieri di costruzione.
Ci riunimmo con i dirigenti del soviet, del partito, del sindacato, dei giovani, delle donne; ci informarono dettagliatamente di tutto e noi come al solito ponemmo domande su domande. Alla sera, dopo gli incontri, riunivamo il nostro gruppo insieme ai nostri accompagnatori, si riassumeva ciò che si era ascoltato e visto e si discuteva esprimendo ognuno le sue osservazioni.
Questo metodo era molto efficace perché metteva a confronto le impressioni, le valutazioni e le critiche che scaturivano da punti di vista diversi, completavano e correggevano informazioni parziali, fissavano bene nella mente le questioni più importanti. A nostra volta dovevamo informare i compagni ed i lavoratori sovietici sulla situazione in Italia. Ognuno di noi si preparava su argomenti specifici e talvolta si tenevano anche comizi di massa.
Da Maikop ci recammo in un kolkoz che operava su un vasto territorio di quella regione. La popolazione era mussulmana, non seguiva le pratiche religiose ma ne conservava ancora i costumi, compreso quello di imporre ai giovani sette anni di fidanzamento controllato dai genitori, prima di sposarsi.
Ed erano già trascorsi quasi vent’anni dalla rivoluzione!
In nostro onore allestirono un pranzo formidabile e come voleva la loro tradizione uccisero un bue e lo presentarono tutto in tavola, tagliato in grandi pezzi, ognuno dei quali poteva bastare per dieci persone. Si mangiò molto, si cantò, si dette il via alle danze locali con le ragazze abbigliate nei loro costumi sgargianti. Bevemmo anche molti liquori dolci ma di alta gradazione.
Io mi ubriacai e non mi resi conto di quello che facevo e dicevo. Il giorno dopo la compagna Rita Montagnana mi disse che in quelle condizioni ero molto simpatico.
In tutto il kolkoz, non c’era un solo iscritto al partito tra la popolazione locale. I pochi iscritti provenivano da altre città ed erano operai addetti alla stazione di macchine e trattori che appartenevano allo Stato. Ciò era molto indicativo sia della situazione politica in quelle zone contadine, sia delle caratteristiche richieste per poter militare nell’organizzazione del partito comunista. Ovunque ci trovammo durante quel viaggio ci inseguivano le notizie della Spagna che appassionavano tutta la popolazione al punto che anche nei piccoli villaggi, in mezzo alla piazza, erano esposte carte topografiche con appuntate le bandierine rosse che segnavano la linea dei fronti dove si combatteva. Le notizie però non erano buone; i fascisti avanzavano puntando su Madrid e l’intervento delle truppe e delle armi italiane e tedesche si faceva sempre più massiccio. Cominciavano i bombardamenti terroristici sulle città spagnole da parte dell’aviazione italiana e tedesca ed il massacro dei civili si accompagnava a battaglie sanguinosissime sui fronti.
Stalin aveva inviato in Spagna il famoso telegramma che chiamava a raccolta tutte le forze antifasciste: “La causa del popolo spagnolo è la causa di tutta l’umanità avanzata e progressiva”.
Madrid resisteva all’attacco decisivo del mese di novembre 1936: l’anniversario della rivoluzione d’Ottobre non sarà celebrato, come aveva annunciato Franco, con i fascisti a Madrid. La capitale della Spagna è in quel momento il cuore del mondo ed in sua difesa gli spagnoli hanno eretto una muraglia umana che non si infrangerà. […]
Ai primi di gennaio 1937 improvvisamente, anche per alcuni di noi giunse l’ordine di partenza.
Basta con i libri. Ora anziché con il corso sul leninismo, che abbiamo appena iniziato, andremo a misurarci con le armi, affronteremo i fascisti sul campo di battaglia. Vendicheremo gli italiani uccisi e perseguitati, i nostri compagni che languono nella carceri, Gramsci, Terracini, Scoccimarro e mille, mille altri. Ma soprattutto riabiliteremo il nome dell’Italia infangato dal banditismo fascista.
Prima di partire dall’Unione Sovietica seguimmo un rapido corso per ufficiali di artiglieria in un’accademia militare nei pressi di Karkov. Eravamo un piccolo gruppo di italiani e di francesi (una decina in tutto), alcuni sprovvisti di una preparazione scolastica sufficiente per affrontare un corso che richiedeva almeno le cognizioni elementari di matematica. Ma gli insegnanti sovietici non si fermarono di fronte a queste difficoltà. L’esperienza della loro rivoluzione nella prima fase dell’intervento straniero e della guerra civile, servì anche per noi. In quegli anni burrascosi e tremendi, quando la rivoluzione proletaria era attaccata da ogni parte, dall’interno e dall’esterno, i comandanti dell’Armata rossa erano in maggioranza operai e contadini che non avevano certo frequentato le scuole militari ed avevano dovuto imparare rapidamente il mestiere delle armi. Per dirigere il fuoco delle batterie di cannoni, invece dei calcoli trigonometrici, si erano escogitate allora delle formule semplici che bastava apprendere a memoria per poter sparare con buona approssimazione.
Il corso di quattro anni veniva concentrato in tre mesi. Si doveva apprendere l’essenziale per essere comandanti sul fronte di guerra. Bisognava lavorare sodo dalla mattina alla sera, superando difficoltà non lievi, anche per via della lingua e della stagione. Eravamo in gennaio e faceva un freddo cane quando si usciva all’aperto per le esercitazioni, in mezzo alle neve che copriva a perdita d’occhio tutta la campagna.
Il mattino, secondo l’abitudine dei militari sovietici, si infilavano solo i pantaloni e così come si era a letto con venti gradi calore, si usciva di corsa a oltre venti gradi sotto zero. L’addestramento era ottimo, ma se fosse durato qualche giorno di più, con quel sistema saremmo finiti tutti all’ospedale. In mancanza di interpreti dovetti sobbarcarmi, con quel poco di russo che avevo studiato, anche il peso della traduzione in francese. Dovetti lavorare molto sulla grammatica e sui dizionari per imparare una gran quantità di vocaboli tecnici militari, ma non feci meno fatica, anche se la cosa era più divertente, a imparare come si cavalca e come si saltano gli ostacoli nel maneggio e nella libera campagna.
Ci era giunta intanto la notizia della vittoriosa battaglia di Guadalajara, nella quale si era distinto il nostro battaglione Garibaldi. Questo successo dell’esercito repubblicano aveva sollevato entusiasmo e speranza in tutti noi, convinti come eravamo che in Spagna il fascismo sarebbe stato sconfitto con conseguenze positive anche per il nostro paese. Eravamo ancor più impazienti di partire e ci sentivamo forti e preparati, politicamente e fisicamente, per compiere fino in fondo il nostro dovere.
Verso la fine di aprile, quando nelle immense steppe della Russia comincia il disgelo, venne il giorno della partenza. Allora ripensai a quei quindici mesi così densi di avvenimenti, di sensazioni, di fatiche. E non solo agli studi, alle discussioni politiche, alle esperienze; pensavo anche alla gente che avevo conosciuto, ospitale, affettuosa, con tanto calore umano e tanta generosità. Pensavo a quelle masse di giovani che crescevano forti, robusti, pieni di slancio e di fiducia nella vita, alla tragedia che sarebbe piombata su di loro e su tutta l’umanità se non fossimo riuscisti a fermare il mostro della guerra.
Sul punto di lasciare quel paese mi ritornavano alla mente i momenti più belli che vi avevo vissuto: il 7 novembre ed il 1° maggio sulla piazza Rossa in mezzo ad una folla immensa ed esultante, il parco centrale di Mosca d’inverno, con i suoi viali ghiacciati che sembra si snodino all’infinito nell’alternarsi delle ombre e delle luci, azzurre gialle e rosate. E i giovani che corrono per quei viali, scivolano leggeri sul ghiaccio, ondeggiando, abbracciandosi, accompagnati dalla musica e circondati da uno scenario che evoca le fiabe. E poi ancora una galoppata su una slitta di notte, con quaranta gradi sotto zero, con i cavalli che sembrano volare nell’immensa steppa bianca; e Batum, incrocio di razze orientali dove le ricchezze della natura esplodono sotto il sole bruciante ed il nuovo si apre la strada nel profondo medioevo che ancora sopravvive; e Baku superba come le sue donne, impregnata di petrolio, nell’acqua, nell’aria, nella terra.
Faccio punto. La folla dei ricordi mi porterebbe troppo lontano e non vorrei cadere nella retorica. […]