Cosa avrebbe detto Alessandro Vaia dinnanzi alla querelle della falce e martello da rimuovere o meno dai simboli? Penso di saperlo, ma questo è il primo pensiero (banale fin che si vuole) che è affiorato nella mia testa nel ricordare, oggi, la scomparsa, ben 17 anni fa, di un grande dirigente del movimento operaio. Con ben altri pensieri e sentimenti lo ricordano la moglie Stellina, il figlio Franco, i parenti e i tanti compagni e compagne a partire da quelli che in quel di Precotto, quartiere di Milano, gli hanno dedicato il Circolo di Rifondazione Comunista. Alessandro Vaia era un dirigente di primissimo piano del Pci, partito al quale decise di iscriversi “in una bella e tiepida giornata di settembre del 1925”. Anni durissimi quelli. Mussolini, superata la crisi intervenuta dopo il delitto Matteotti, andava verso la fascistizzazione dello Stato, con gli aventiniani allo sbando ed il movimento operaio abbandonato a se stesso. Erano gli anni in cui Antonio Gramsci, con un piccolo nucleo di rivoluzionari – come Togliatti, Te rracini, Scoccimarro – gettava le basi del grande partito che sarebbe esploso dal ‘43 in poi. Ma è in quella “bella e tiepida giornata” di settembre che parte la storia politica assolutamente straordinaria di Alessandro Vaia. Lui stesso ce la racconta, senza alcun compiacimento, in quel bellissimo libro di storia che è “Da Galeotto a Generale” (Teti Editore, 1977) che Luigi Longo introduce. Libro di storia prima ancora che libro politico. Vi si descrive l’Italia del tempo. L’Italia dei braccianti a giornata e degli operai poveri di una Milano che raramente ho visto rappresentata con tanto amore. Solo Teresa Noce ci descrive la Torino dell’epoca, la città delle sartine e degli operai, con tanta efficacia. Ma è anche l’Italia in cui i comunisti sono incarcerati. E Vaia è recluso a Gaeta per 5 anni. Poi espatria clandestinamente, prima in Francia, poi a Mosca e infine in Spagna, dove incontra un giovanissimo Giovanni Pesce, e diventa comandante di una delle Brigate Garibaldi. Poi ancora il carcere, l’evasione, il rientro in Italia, il comando della Divisione Garibaldi e poi, a Milano, Commissario di guerra del Comando Piazza, quello che guida l’insurrezione del 25 Aprile. Poi infine con molte responsabilità politiche nel Pci e, in seguito, fondatore della casa Editrice Aurora, di Interstampa, del centro Culturale Concetto Marchesi, sino all’annunciata nascita del Movimento per la Rifondazione Comunista. Questa però è storia, del resto assai nota almeno per quella generazione di militanti comunisti di cui Vaia fu fratello: da Giuseppe Sacchi a Jone Bagnoli, da Saverio Nigretti a Sergio Ricaldone sino ai compianti Osvaldo Muzzana e Alberto Cavallotti, un gruppo di compagne e compagni, di altissimo valore, che hanno saputo reggere anche a mortificazioni ed emarginazioni e solo in ragione di un fortissimo senso della dignità e dei principi profondi. Una storia, quella di questi comunisti milanesi, che andrebbe proprio scritta, non va persa. E fu maestro anche della gene- razione immediatamente successiva, quella degli Antonio Costa, Alfredo Novarini, Michele Tedesco, Roberto Cocevari, Elisa Milanato, Walter Esposti, Aurelio Crippa, Fausto Sorini. Le donne e gli uomini di Via Spallanzani numero 6 dove Alessandro Vaia preparava il Partito che poi non avrebbe visto nascere. Concludo su un ricordo personale. Negli anni dello “strappo” del Pci, quando decollò la parabola che si sarebbe conclusa alla Bolognina, Armando Cossutta, messo ai margini da Enrico Berlinguer, entrò in contatto, a Milano, proprio con quel gruppo che, da tempo, si incontrava al Circolo Marchesi di Via Spallanzani. Anni dopo questi compagni vennero indicati come “cossuttiani”, etichetta un po’ forzata per i milanesi che furono proprio quelli che subirono quelle mortificazioni con l’innovazione che Togliatti (e Cossutta) introdusse a Milano con mano, diciamo così, pesante. Del tutto motivato perciò il disagio derivante da questa ripresa di contatto vent’anni dopo l’emarginazione. Qui Alessandro Vaia li convocò (c’ero anch’io) e pose così la questione: “noi non dobbiamo avere recriminazioni sul passato: a un compagno dobbiamo chiedere dove va e, se viene con noi, ben venga”. Da allora con Armando Cossutta conducemmo delle belle battaglie. Poi le strade si divisero ancora ma Alessandro Vaia non c’era più ad offrire il suo esempio. Ancora un abbraccio a Stellina e Franco.
Liberazione, 12/02/2008
Mi associo alle parole di Bruno, nel ricordo commosso di Alessandro Vaia, che fu per me indimenticabile maestro di mi – litanza e di vita. E rivolgo il mio pensiero a Stellina, Franco e Vladimiro, con l’affetto di sempre.
Fausto Sorini
Il Partito Comunista e i giovani
PERCHÉ SEMPRE IN RITARDO?
di Alessandro Vaia
“Il partito comunista è nato attingendo fondamentalmente le sue forze dalla gioventù, e giovani erano la maggioranza dei suoi dirigenti. La gioventù d’avanguardia più combattiva aveva aderito al partito comunista e alla federazione giovanile al momento della loro fondazione. Si trattava di una minoranza, ma essa rappresentava quanto di più sano e cosciente aveva saputo esprimere il movimento socialista nel primo dopo guerra. L’adesione della gioventù rivoluzionaria al partito comunista, avvenuta sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalla rivoluzione d’Ottobre, si era andata consolidando con gli anni, si era temprata nell’attività clandestina e nelle carceri. Erano giovani la maggioranza dei militanti che alimentarono le nostre forze nella illegalità e che costituirono l’ossatura attorno alla quale si formò un grande partito di massa. Furono giovani la maggioranza dei partigiani che affluirono al partito comunista, che divennero quadri e dirigenti del movimento operaio. E fu nel 1949, nella ricostituita federazione giovanile comunista, che si formò una nuova leva di cinquecentomila giovanissimi che si affiancò ai più anziani nel duro scontro degli anni della guerra fredda. Un partito che guarda all’avvenire, che vuole creare una nuova società, una società comunista, porta in sé gli ideali di giustizia e di uguaglianza, l’aspirazione della parte migliore della gioventù. “Il comunismo è la giovinezza del mondo”, e sono i giovani la sua forza. Ma chi non avverte, anche se parla molto di rinnovamento, i mutamenti profondi che avvengono tra le nuove generazioni in epoche di grandi crisi sociali, non può pretendere di esercitare su di loro un’influenza e una funzione di guida. “I giovani non sono figli dei loro padri, ma dei loro tempi” e i tempi corrono, le coscienze maturano più in fretta di quanto lo avvertono i protagonisti barbogi di altri tempi. Sono quasi vent’anni che continuiamo a parlare di ritardi nei confronti dei giovani e mai arriviamo in orario all’appuntamento. Perché? Nel 1960 quando scesero nelle strade i giovani dalle magliette a strisce contro il governo Tambroni, ci fu la prima sorpresa ma non ne venne alcun rinnovato impegno. Appena si palesò qualche tentativo di capire che cosa stesse accadendo, venne la scomunica contro il cosidetto “civettare” con i giovani. Poi giunse la “sorpresa” del 1968 e si preferì tacere, ignorare, fingere che le forze nuove emergenti non esistessero. Si giunse all’autoliquidazione del nostro movimento giovanile e quando esso risorse vegetò intristito come una pianta senza ossigeno. Ed eccoci alla nuova sorpresa del 1977 che si dice sia veramente diversa dalle altre, ma sempre è una “sorpresa”. Ma perché da venti anni siamo sempre sorpresi e in ritardo con i giovani? Non è lecito chiedersi se non ci sia qualcosa di essenziale che ci è venuto a mancare e senza del quale il partito e la gioventù comunista non avrebbero mai potuto esercitare la loro influenza sulla parte più combattiva dei giovani?”
tratto da: Da galeotto a generale, Teti 1977