Aleksandra Kollontaj, una femminista nel cuore del Soviet

Dedico queste prime note a Elisabetta Borioni, Betta, a cui le avrei sottoposte prima di pubblicarle e che non ha fatto in tempo a leggerle. “Irriducibilmente atea e comunista”, come ha voluto essere ricordata dal suo compagno, Fausto, quando l’abbiamo salutata per l’ultima volta, ascoltando De Andrè e Dylan nella Sala del Pantheon della Certosa di Bologna, Betta era anche irriducibilmente femminista, libera e laica quel tanto che basta a dissacrare anche i santuari della sua, amatissima, parte politica. L’ernesto era, per lei, quella parte. Nel suo cuore ha agito, politicamente, da femminista. Io, che di persona l’ho conosciuta troppo tardi e così poco, e che di lei ricordo il bel corpo fasciato in un completino di lino bianco non meno del gesto con cui mi si è avvicinata per stabilire un “contatto” tra donne in una assemblea d’area assolutamente maschile, credo che in Aleksandra avrebbe potuto in qualche modo rispecchiarsi. Ovunque si trovi ora, spero che la “mia” Aleksandra, almeno un poco, le piacerà. Fausto mi perdonerà se, per questa volta, non seguo che in piccola parte, i consigli che generosamente mi ha, su mia richiesta, dato. Anche questo fa parte del mio omaggio a Betta.

“Pensavo di aver visto due persone, ma era solo un uomo e sua moglie”
Proverbio russo (1)

“Ricordo quanto allegramente e a lungo egli rise quando lesse le parole di Martov: ci sono solo due comunisti in Russia: Lenin e la signora Kollontaj.”
M. Gorkij (2)

Valutato all’oggi, colpisce, nello sfogliare i carteggi di Lenin nell’anno della rivoluzione, il fatto che, non appena ricevute le prime notizie dell’insurrezione di Pietrogrado del febbraio 1917 , il futuro Presidente del Consiglio dei Commissari del popolo, nella sua immediata ricerca di contatti ed informazioni, si rivolge fondamentalmente a tre persone: V.A. Karpinski (3), di cui intende assumere l’ identità per rientrare clandestinamente in Russia (“la fotografia [sui documenti] sarà la mia , già in parrucca, e a Berna, al consolato, mi presenterò io con i vostri documenti, in parrucca”); Inessa Armand (4), l’esule russa a cui lo legava un forte sentimento, che si sarebbe dedicata con particolare passione alla diffusione del femminismo tra le operaie sovietiche, e Aleksandra Kollontaj ( 5), a lungo nota per lo più per essere stata la prima ambasciatrice donna in Europa e nel mondo e, soprattutto negli anni del femminismo, per essere stata tra le prime a tentare di coniugare rivoluzione operaia e rivoluzione sessuale. Se ad Inessa, in questa lettera specifica, Lenin fondamentalmente comunica il proprio stato d’animo (“Oggi a Zurigo siamo in preda all’agitazione: nella Zurcher Post e nella Neue Zurcher Zeitung c’è un telegramma del 15 marzo annunciante che in Russia, a Pietrogrado, il 14 marzo ha vinto la rivoluzione, dopo una lotta di tre giorni, che al potere ci sono dodici membri della Duma e i ministri sono stati tutti arrestati. Se i tedeschi non mentono, questa è la verità. Che la Russia fosse, in questi ultimi giorni, alla vigilia di una rivoluzione, è indubitabile. Sono fuori di me per l’impossibilità di andare in Scandinavia. Non riesco a perdonarmi di non essermi arrischiato ad andarci nel 1915!”), ad Aleksandra, già in procinto di attraversare il confine, egli espone considerazioni, manda indicazioni (che la Kollontaj bolla – secondo Lenin con voluta ironia – come “direttive”)(5) e chiede lumi: “Abbiamo ricevuto or ora altri telegrammi governativi sulla rivoluzione […] a Pietrogrado. Una settimana di scontri cruenti degli operai, e Miliukov + Guckov + Kerenski al potere!! Secondo il “vecchio” modello europeo… E va bene. Questa “prima tappa della prima (tra quelle generate dalla guerra) rivoluzione” non sarà né l’ultima, né soltanto russa. Certo, noi resteremo contrari alla difesa della patria, contrari al massacro imperialistico […].

Tutte le nostre parole d’ordine restano le stesse […]. L’essenziale adesso è la stampa e l’organizzazione degli operai in un partito socialdemocratico rivoluzionario […]. Sono assolutamente indispensabili un programma ed una tattica più rivoluzionari (se ne ritrovano gli elementi in K. Liebknecht, nel Socialist Labor Party americano, nei marxisti olandesi e così via) ed è assolutamente necessario unire il lavoro legale con quello illegale […] con l’obiettivo della conquista del potere da parte dei “Soviet dei deputati operai” […]. Abbiate la bontà […] di scrivermi un paio di righe per sapere fino a che punto siamo d’accordo e fino a qual punto no, come pure per informarmi dei piani di A.M. [la stessa Kollontaj] e via dicendo. Se ci restituiscono i nostri deputati bisogna assolutamente portarne uno per un paio di settimane in Scandinavia”.

Basterebbero queste poche, ultime righe, per dare immediatamente ragione a chi ha sostenuto che il legame politico fra Lenin e la Kollontaj fu un legame privilegiato, forte, talmente evidente agli occhi di tutti da indurre qualcuno (il menscevico Martov nella lezione di Gorkij(7)) a dichiarare “ci sono solo due comunisti in Russia: Lenin e la signora Kollontaj”. Ma fu davvero così? L’operaista Aleksandra Michajlovna Demontovich , in prime nozze sposata Kollontaj, nota ai contemporanei e ai posteri forse più per le sue ardite teorie sulla liberazione sessuale delle donne (ma meglio sarebbe dire di donne e uomini), che per aver scritto la Piattaforma dell’Opposizione operaia condannata dai bolscevichi nel congresso del 1922 , fu prima di tutto la comunista più importante a fianco del Lenin della rivoluzione?

COMUNISTA E FEMMINISTA A FIANCO DI LENIN

È noto che fin dai “primi anni del secolo Lenin aveva molto desiderato attirare la Kollontaj nei ranghi bolscevichi”(8), facendone, appena essa maturò l’adesione al partito, la portavoce dello stesso sulla “questione finlandese”. Anche questo particolare mi induce a pensare che la risata lunga e allegra (sempre stando alla lezione di Gorkij) con cui l’affermazione di Martov fu accolta da un Vladimir Ilijc decisamente diverso dal cupo ed introverso personaggio che certa tradizione ancora trasmette, può segnalare un nodo più complesso, che vale ancora la pena re-indagare e reinterpretare. È mia opinione che entrare, di nuovo e con gli strumenti dell’oggi, in questo nodo, consenta di rileggere con occhi diversi sia il primo Lenin che la prima Kollontaj. Proprio perché la storia dell’uno è inseparabile, nei primi anni della Rivoluzione, da quella dell’altra, vale forse la pena tentare di andare oltre la vulgata che, oggi, vorrebbe entrambi datati testimoni di un’epoca di cui tentarono sì di essere, e furono, protagonisti, restando però incapaci di vedere (anzi,nel caso di Aleksandra, spingendosi fino alla “complicità”( 9 ) con Stalin) che i semi del loro pensiero contenevano in sé i germi che avrebbero condotto alla involuzione totalitaria(10) della società russa, nella fattispecie a quello che sarà poi considerato il padre di tutti i totalitarismi novecenteschi, lo stalinismo. Sulla memoria pubblica della Kollontaj, in particolare, l’ombra lunga dello stalinismo comparve quasi subito. Nel suo lavoro su Stalin, Trotskij così ricostruisce un episodio che alla sensibilità attuale può apparire marginale, ma che in realtà la dice lunga sulla piegatura ex post che le interpretazioni delle vicende sovietiche avrebbero preso: “La prima riunione del governo bolscevico fu tenuta allo Smolnyi nell’ufficio di Lenin […] Stalin e io giungemmo per primi.

Di là dal tramezzo si sentiva la voce di basso profondo di Dybenko [Pavel, il capo dei marinai bolscevichi della flotta del Baltico, che Aleksandra avrebbe poi sposato in seconde nozze, nel 1918, secondo la nuova legge matrimoniale da lei stessa proposta ed approvata il mese precedente]: telefonava in Finlandia e la conversazione aveva degli accenti piuttosto teneri. Quel marinaio barbuto di ventinove anni, una specie di gigante allegro, si era da poco legato piuttosto intimamente con Aleksandra Kollontaj (una donna di origini aristocratiche, che conosceva una mezza dozzina di lingue straniere e si avvicinava ai quarantasei anni) e nell’ambiente del partito la cosa era oggetto di qualche commento. Stalin, con cui fino allora non avevo mai avuto conversazioni di carattere personale, mi si avvicinò con aria divertita e indicando il tramezzo con un gomito mi disse: “È lui con la Kollontaj!”. […]Non ricordo se […] gli dissi: “È affar loro”. Ma Stalin si rese conto di aver commesso una gaffe. Cambiò espressione in un attimo. Nei suoi occhi vidi passare un lampo di ostilità”(11).

Una fine analista delle donne dell’ottobre, Franca Pieroni Bortolotti, rilevò in questo passaggio, in realtà un poco greve, quel “rapporto […] tra pubblico e privato” che dovette far sì che “dal villaggio georgiano dove ognuno spettegola sul prossimo, l’antico seminarista [Stalin]” ricavasse “l’odio per l’uomo civile, nel quale vagamente percepiva il senso “cosmopolita” della libertà personale”(12), dove evidentemente “uomo” sta anche per Aleksandra. Non può però sfuggire, oggi, in questa lettura bortolottiana delle cose, che l’addebitare ad uno stalinismo peraltro ancora di là da venire, la censura che la Kollontaj dovette affrontare quasi subito, può di fatto aver costituito una sorta di scorciatoia per evitare di scavare le ragioni per cui dovette subirla in vita e poi successivamente alla morte, che la colse a Mosca il 9 marzo 1952, sola, paralizzata e – lei che pure era stata insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa del lavoro, una delle più alte onorificenze dello Stato sovietico – ormai al di fuori di ogni frequentazione politica. Una modalità di lettura, quella di Pieroni Bortolotti, che si incanala in coordinate certo rese facilmente praticabili dall’enorme operazione di rimozione, cancellazione, trasformazione di istituti e norme nel loro proprio opposto, condotta dal regime staliniano. Che falcidiò letteralmente le innovazioni introdotte nella società russa dei primi anni della rivoluzione, per non dire dei primi mesi in cui Aleksandra potè liberamente operare nella veste di Commissaria del popolo, forte del suo originale pensiero e del sostegno che Lenin le assicurò fino alla fine, arrivando a non pronunciare una parola contro di lei nemmeno nel congresso del partito che, nel 1922, ne determinò l’allontanamento definitivo dalla sfera del governo ed il dorato confino nella carriera diplomatica, seguìto alla parentesi della direzione dell’Internazionale comunista, secondo alcuni determinata proprio dalla “diminuzione di rango”(13) subìta nel partito. Seguendo questo filo di ragionamento, arriverei persino a sostenere che una delle più citate affermazioni di Lenin (“Nessuno Stato, nessuna legislazione democratica hanno fatto per la donna la metà di ciò che ha fatto il potere sovietico durante i suoi primi mesi di esistenza”)(14)) fu pronunciata certo per declamare i meriti della rivoluzione davanti ad una platea di donne operaie e contadine, ma con l’intento, non secondario, di valorizzare in particolare l’apporto della Kollontaj, ormai autoesclusasi dal Ministero: a che pro, diversamente, sottolineare proprio quel “nei suoi primi mesi”?(15)

IL PESO DELL’ARRETRATEZZA

Non aiutò poi a superare le coordinate di cui dicevo, l’affermarsi, alla morte di Stalin, di una esegesi deterministicamente ortodossa, che anche nel nostro Paese non solo si affermò negli anni in cui più acuta si fece la cosiddetta “guerra fredda” tra blocchi contrapposti, ma pure si accompagnò (e forse si consolidò di fronte) al tentativo della “nuova sinistra” di disconoscere, in nome del primato del neofemminismo degli anni ’70 che pure l’aveva riscoperta, la primazìa che storicamente spetta ad Alexandra Kollontaj e ad alcune tra le donne che furono con Lenin nel cuore del Soviet di Pietroburgo( 16). Ciò che intendo dire, in definitiva, è che non fu tanto ( e solo) la politica di Stalin (che pure, com’è noto, Lenin aveva tentato, negli ultimi mesi di vita, di allontanare dalle leve del potere) a determinare il progressivo isolamento delle posizioni della Kollontaj, a cui fece, anche se non proprio rapidamente, seguito l’involuzione delle più importanti conquiste della rivoluzione nel campo dei diritti civili, del matrimonio, della libertà sessuale di donne e uomini, e della libertà personale delle donne. Questo processo certo ci fu e infine vinse, anche in forza delle immani contraddizioni, non solo materiali, che la società russa si trovò a vivere come portato della guerra civile, del comunismo di guerra, dell’assedio internazionale e, perché no, anche della giustapposizione delle idee libertarie e cosmopolite di un piccolo pugno di intellettuali catapultati a governare lo Stato, alle millenarie convinzioni della stragrande maggioranza della popolazione, nella cui cultura profondamente contadina , un uomo e sua moglie costituivano, come un proverbio recitava, un’unica persona. Nondimeno, il suddetto processo impegnò la società (e la politica) russe per diversi anni, se si pensa che ancora nel 1926, morto Lenin e ferocemente sotto tiro l’elaborazione della “esiliata” Kollontaj, l’Unione Sovietica era riuscita a dotarsi di un avanzatissimo diritto di famiglia, che potè essere definitivamente seppellito soltanto nel 1944, quando la assoluta proibizione dell’aborto chiuse il cerchio di una restaurazione che aveva visto progressivamente riposizionare la famiglia alle fondamenta dello Stato, cancellare la possibilità delle libere unioni, esaltare le funzioni materne e condannare gli omosessuali alla damnatio in vita. Niente più del ripiegarsi su se stessa della società russa che i primi legislatori sovietici avevano cercato illuministicamente di modificare dall’alto, dimostra come le leggi, seppur necessarie, non bastano ad introdurre mutamenti duraturi e a ben poco servono se, Kollontianamente, non si radicano nella rivoluzione dei costumi. Se quello qui abbozzato a grandi linee è il processo che caratterizzò l’Unione Sovietica negli anni che seguirono il primo processo rivoluzionario, ciò che resta da capire, e che varrebbe la pena oggi re-indagare, è il peso che ebbe, non solo nel progressivo isolamento delle posizioni della Kollontaj, ma proprio nell’induzione del processo stesso, il venir meno , in seguito alla morte di Lenin, della relazione politica tra i due, che aveva consentito di trasformare in leve del potere, e conseguentemente in straordinarie innovazioni sociali, le intuizioni e le elaborazioni di una donna capace di tradurre in parole e fatti l’idea di comunismo che entrambi condividevano: un moto rivoluzionario contenente in un unicum teorico da trasformare in prassi la contestuale rivoluzione nei rapporti sociali tra le classi e nei rapporti sociali tra i sessi. Sottolineo entrambi, perché nelle interpretazioni più tradizionali, all’apertura leniniana nei confronti dell’emancipazione della donna sul terreno dei diritti sociali e civili si contrappone una sua presunta freddezza nei confronti della liberazione sessuale.

LENIN E IL LIBERO AMORE

Non smette a questo proposito di stupire, anche in interpreti contemporanee di grande acutezza(17), la riduzione della posizione di Lenin sulle questioni del cosiddetto “libero amore” ad una lettura, che a me pare del tutto forzata, delle due lettere a Inessa Armand del 1915(1 8), oppure alla cosiddetta condanna della “teoria del bicchier d’acqua”, tratta peraltro da una conversazione del 1920 riportata dalla tedesca Clara Zetkin(19). Il fatto che la Armand non pubblicasse l’opuscolo oggetto delle lettere (il cui progetto aveva sottoposto a Lenin) a seguito delle sue critiche, viene piegato ad un disegno di restaurazione moralistica che a mio avviso non appartiene né alle parole che egli usa nelle lettere, nè ad una lettura corretta dei dieci punti sui quali chiede alla Armand una riflessione più accurata, in mancanza della quale consiglia la soppressione del passaggio sulla “rivendicazione (femminile) della libertà dell’amore”, troppo esposto ad essere identificato nell’arretrata società russa con l’incitazione al libertinaggio. Rifiuto di credere che una femminista ardita come Inessa, troppo precocemente scomparsa( 20), si lasciasse indurre all’autocensura (l’opuscolo non fu mai pubblicato) senza aver condiviso la sostanza dell’obiezione: che consisteva fondamentalmente nel ritenere che la libertà femminile in amore andasse rivendicata togliendola dall’ambiguità in cui i costumi indotti dal matrimonio borghese, fondato sull’interesse patrimoniale e sull’ esigenza di salvaguardarne la trasmissione, avevano finito per relegarla.

È questo Lenin che incontra il pensiero ancor più ardito di Aleksandra Kollontaj e mette in cantiere il potere necessario ad autorizzarne l’opera rivoluzionaria, che essa condurrà da Commissaria del Popolo nel governo dei Soviet, e poi da magistrale organizzatrice di luoghi di formazione e decisione femminile, di cui il primo Congresso delle operaie e contadine del novembre 1918 non rappresentò che un episodio . Al momento non siamo in grado di dire se il “dissenso di principio” che nel marzo 1918 la indusse a lasciare la carica di Ministro all’Assistenza sociale assegnatale da Lenin nell’ottobre 1917, riguardò soltanto la questione della sua opposizione al trattato di pace di Brest-Litovsk(21) (o quella, più privata, dell’arresto, sotto l’accusa di incompetenza, del secondo marito) o se si tradusse, anche, in un contrasto diretto con lui, oltreché con quegli ambienti del partito le cui “divergenze d’opinione” finirono per essere cassate, come il volontario abbandono dell’incarico, dalla prima versione della sua Autobiografia(22). Sappiamo però che l’allontanamento di Aleksandra dalla politica attiva durò pochi mesi, durante i quali essa affinò la sua battaglia per quella “donna nuova” e per quella “nuova morale” che sentiva inscindibili dalla rivoluzione in atto, in modo, peraltro, tutt’affatto opposto al tentativo (fortunatamente mai andato in porto) condotto in anni successivi dai suoi epigoni (e, incredibile a dirsi, su richiesta del Komsomol, l’organizzazione della gioventu’!) di istituire un vero e proprio “Codice generale dell’etica comunista”( 23), aberrante declinazione dell’originaria idea di rivoluzione nei rapporti sociali tra i sessi.

Alla donna che chiedeva non certo un imperativo codice morale, ma una battaglia culturale e politica per una nuova, rivoluzionaria etica nei rapporti tra i sessi, il primo Presidente del Soviet Sverdlov, con tutta evidenza uomo di Lenin, offrì “un solidissimo sostegno” nell’organizzazione del Primo Congresso delle Operaie e delle Contadine di Russia, a cui parteciparono, nel novembre 1918, 1147 delegate (molte di più, quindi, delle trecento attese) e a cui intervenì, con un discorso rimasto famoso, lo stesso Lenin( 24). Di lì a poco, nel fuoco della guerra civile e fino alla caduta del governo dei Soviet nella regione, ad Aleksandra sarà affidato il Commissariato del popolo per l’attività di sensibilizzazione e propaganda nel governo dell’Ucraina, che aveva raggiunto con l’incarico iniziale di occuparsi della propaganda nell’esercito( 25).

Conoscendo l’importanza che Lenin annetteva all’azione nell’esercito ai fini dell’affermazione della rivoluzione, è difficile pensare che un incarico di tale delicatezza le fosse assegnato a sua insaputa. Sbaglieremmo però se pensassimo che la storia di Aleksandra Kollontaj, così come la sua “gloria”(26), finisse per esaurirsi negli incarichi ottenuti dai governi dei Soviet, si trattasse di quello centrale o di quelli di regioni più periferiche dell’ex impero zarista. Faremmo lo stesso errore di chi, per decenni, ha ridotto quella storia al suo essere stata la prima donna ambasciatrice di Russia e nel mondo. È certo in dubbio che il suo esserlo stata va considerato un marcatore storico indiscutibile, così come l’essere stata rifiutata in tale veste dai governi di Canada, Cuba e Stati Uniti, che la ritenevano troppo pericolosa per la sua fama mondiale di rivoluzionaria. Ma la sua grandezza, allora come ora, sta in altro.

Per percepirne la portata bisognerà giocoforza ricostruire, seppure a grandi linee, il modo in cui le donne, le comuniste, le femministe (e, per dirla con Lidia Cirillo, “una femminista rossa è comunque una femminista”)(27) interagirono con il primo tentativo di conquista dello Stato condotto in porto dal movimento comunista rivoluzionario; percorrerne l’involuzione; cercarne le ragioni non solo nella situazione drammatica che la Russia sovietica si trovò ad affrontare con la rivoluzione assediata e costretta dentro i confini di un unico, seppur grande, Paese, ma anche nel vuoto creato dalla scomparsa dalla scena della politica per così dire “nazionale”, e quindi dal palcoscenico del potere per così dire “locale”, dei due principali protagonisti dei primi anni della rivoluzione: Lenin per morte sopraggiunta, Aleksandra Kollontaj per sopraggiunta “promozione”. Non che la Kollontaj tacesse, parlò e scrisse molto, anzi, per combattere gli effetti di quel promoveatur ut amoveatur in cui si trovò costretta. E se siamo ancora qui a scrivere di lei, femminista nel cuore del Soviet, non è forse perché quella battaglia l’ha, infine, vinta?

NOTE

(1) Tratto da: Sheila ROWBOTHAM, Donne, Resistenza e Rivoluzione. Una analisi storica per una discussione attuale, Torino, Einaudi, PBR, 1976, p.164

(2) Tratto da: Aleksandra Kollontaj, Autobiografia, a cura di Iring FETSCHER, Milano, Feltrinelli, 1975, p.68

(3) Lenin a Karpinski, Zurigo, 19 marzo 1917, in: V.I. LENIN, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1952, vol.35, p.215

(4) Lenin a Ines Armand, Zurigo, 15 marzo 1917, op.cit., pp.210-11

(5) Lenin ad Aleksandra Kollontaj, Zurigo, 16 marzo 1917, op. cit., pp.211-212

(6) Lenin ad Aleksandra Kollontaj, 17 marzo 1917, op.cit. p.213: “Abbiamo ricevuto or ora il vostro telegramma, che è formulato in modo tale da suonar quasi ironico (pensate un po’, di grazia, a come si possa parlare di “direttive”, da qui, quando le informazioni sono men che scarse e a Pietrograado senza dubbio ci sono non solo dei compagni che dirigono di fatto il nostro partito, ma anche rappresentanti formalmente autorizzati dal Comitato centrale!”.

(7) Iring Fetscher, trae la citazione da: M.GORKIJ, Ricordi , Berlino, 1928, p.274

(8) Alix HOLT (a cura), Aleksandra Kollontaj . Vivere la rivoluzione, Milano, Garzanti, 1979, p.77

(9) Di “complicità” della Kollontaj con lo stalinismo, per essere rimasta nella carriera diplomatica fino a diventare ambasciatrice, parla Mariella GRAMAGLIA nell’introduzione al volume Aleksandra Kollontaj.Comunismo, famiglia, morale sessuale, Roma, Savelli, 1976, da lei stessa curato.

(10) Assumiamo qui, pur da cultrici di Hanna Arendt, la lucida definizione dell’uso del termine che troviamo in Stefano G. AZZARA’, Verso una democrazia autoritaria? , “l’ernesto”, nn.4/5, luglio 2008: “una categoria, quella di totalitarismo, che è il frutto ideologico più potente della guerra fredda sin dalla dottrina Truman e che, contrapponendo a un’idea astratta di democrazia liberale tutte le forme che l’hanno storicamente contrastata, tanto il fascismo, quanto il comunismo, identifica tra loro queste forme politiche opposte e rimuove proprio le responsabilità dei regimi liberali nell’ascesa del fascismo” (p.14).

(11) Tratto da: Franca PIERONI BORTOLOTTI, Femminismo e partiti politici in Italia 1919-1926, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp.24-25

(12) Ivi,p.25

(13) Si veda: Aldo AGOSTI, Il mondo della III I n t e rnazionale. Gli “Stati maggiori”, in: A A . V V., Storia del marxismo, vol. III/1, Torino, Einaudi, 1980, p.404

(14) Traggo questa versione della frase da Françoise NAVAILH, Il modello sovietico, in: Georges DUBY, Michelle PERROT, Storia delle donne. Il Novecento, a cura di Françoise THEBAUD, Bari, Laterza, 1992, p.270.

(15) Non è un caso, a mio parere, che qualche versione italiana della frase trasformi “primi mesi” in “primo anno”.

(16) Esempio significativo dello svuotamento che negli anni ’70 si tentò del pensiero (e dell’azione) di Aleksandra Kollontaj è ancora una volta la citata e pur densa Introduzione di Mariella GRAMAGLIA, che fin dalla quarta di copertina dichiara: “Dare alla Kollontaj quello che è della Kollontaj, ma toglierle quello che è dell’attuale movimento femminista”.

(17) Sul “moralismo” anche “bacchettone” di Lenin hanno scritto in molti/e. Rimando qui alla lezione di Kate MILLET, La politica del sesso, Milano, Tascabili Bompiani, 1979 e alla veloce ed ironica sintesi di Claude ALZON, Tra potere maschile e potere borghese, Maspero, Paris, 1976.

(18) Si tratta delle lettere da Berna del 17 e del 24 gennaio 1915, in: Opere, cit. vol.35, pp.119-120 e 120-123

(19) Clara Zetkin, Lenin e il movimento femminile, in: LENIN, L’emancipazione delle donna, cit., pp.79-112

(20) Inessa Armand morì di colera sul finire del 1920, portando di lì a poco con sé, secondo Aleksandra Kollontaj e Angelica Balabanoff, lo stesso Lenin. Alla sua morte si disse che con lei “moriva la rivoluzione”.

(21) La tesi è sostenuta da Alix HOLT, op.cit., p.79

(22) La prima versione, epurata, dell’ autobiografia, fu data alle stampe in Germania nel 1926. La nuova versione, che qui utilizziamo e che abbiamo già citato precedentemente, integrata di tutte le parti inizialmente cassate , è stata pubblicata da Iring Fetscher per la prima volta a Monaco nel 1970 e tradotta in Italia da Feltrinelli nel 1975. Il “dissenso di principio” con le relative conseguenze è qui citato alle pagine 57-58.

(23) Claudio FRACASSI, op.cit.,p.37

(24) Discorso al I Congresso delle operaie di tutta la Russia, in: LENIN, L’emancipazione della donna, Roma, Editori Riuniti, 1974 (II edizione), pp. 43-45

(25) Aleksandra KOLLONTAJ, Autobiografia, cit., pp.58-59

(26) “Il tempo della gloria era finito”, scrive Alix HOLT, (op.cit. p.79) commentando le sue dimissioni da Ministro.

(27) Lidia CIRILLO, Lettera alle romane. Sussidiario per una scuola dell’obbligo di femminismo, “I Quaderni Viola”, 5, Milano, Il dito e la luna, 2001, p.42