Ci pare francamente che negli ultimi mesi in questo partito ci siamo lasciati andare ad un po’ di euforia, anche ingiustificata.
La crescita del movimento “no-global”, la manifestazione di Genova del 21 Luglio e gli scioperi della FIOM a luglio e a novembre sono segnali sicuramente positivi, che ci portano a sperare in una stagione di ripresa delle lotte e della politica di massa, che veda i giovani protagonisti.
Detto ciò, dobbiamo però riflettere sulla situazione reale in cui ci troviamo quotidianamente a sviluppare la nostra azione politica: una situazione che, poco ma sicuro, non è radicalmente mutata rispetto ad alcuni anni fa.
Il dato da cui dobbiamo partire è che ci troviamo in una fase nella quale non solo la destra è al governo, ma è anche egemone nella società e tra la maggioranza dei giovani.
Una schiacciante vittoria elettorale (più del 70% dei votanti con meno di 25 anni ha votato a destra), un astensionismo altissimo tra i giovani, un livello di coscienza politica e di mobilitazione ancora basso, confermano la penetrazione a livello giovanile di un pensiero qualunquista e individualista, fortemente di destra.
Anche chi è, o si dice, di sinistra, soprattutto tra gli studenti, spesso lo è ad un livello istintivo, di conseguenza non arriva ad impegnarsi al di là del corteo o della singola mobilitazione e molte volte senza aver approfondito le ragioni di tale scelta.
Il movimento degli studenti e l’intervento dei GC nelle scuole
Significativa quanto preoccupante, in proposito, ci pare la risposta del movimento degli studenti contro la guerra e contro i tentativi di controriforma della scuola della ministra Moratti (riteniamo non sia sufficiente una manifestazione nazionale di 50.000 giovani e men che meno lo sciopero della fame di 10 studenti di un liceo di Roma a creare un movimento che contrasti questo progetto). Pensiamo che la realtà di Milano, purtroppo, sia rappresentativa e non sia un caso isolato.
Qui, negli ultimi anni, il movimento degli studenti si è andato deteriorando fino a sgretolarsi, dal punto di vista della partecipazione, della durata, dei contenuti, delle rivendicazioni e, soprattutto, del radicamento dei collettivi nelle scuole; al punto che oggi, di fatto, non esiste un movimento studentesco di opposizione al governo Berlusconi e non c’è in piedi iniziativa politica contro la guerra nelle scuole, la mobilitazione tra gli studenti contro la guerra è ancora minore che nel ’99 per il conflitto nei Balcani e di gran lunga meno radicata, radicale e partecipata che dieci anni fa contro la guerra in Iraq.
Non si tratta di negare le potenzialità per un ritorno alla politica dei giovani, per il fatto che, per quanto fragili e di breve durata, nelle università e nelle scuole nascano tutti gli anni dei collettivi lo conferma. Si percepiscono il desiderio e la necessità di protagonismo. C’è tra una parte dei giovani una certa consapevolezza che si debba e sia giusto lottare per una società diversa: Genova lo dimostra, così come ci dice che questa consapevolezza si manifesta solo occasionalmente, in concomitanza di iniziative, per così dire, centrali (come pure la grande manifestazione contro gli stati generali della scuola).
In un quadro di questo tipo è necessario analizzare il ruolo che i Giovani Comunisti in questi ultimi anni hanno cercato di costruire.
È mancato un intervento finalizzato al coinvolgimento di tutti gli studenti e spesso sono stati coinvolti solo settori ristretti già politicizzati, questo ha portato alla mancata creazione di strutture solide nelle scuole (collettivi radicati che diano continuità al movimento) e, di fatto, ha contribuito a mantenere sostanzialmente inalterata l’egemonia culturale delle destre.
Spesso sono stati privilegiati gli slogan ad effetto e le azioni dimostrative rispetto al lavoro costante di analisi e di radicamento: forse è più facile lanciare uno slogan da un furgone tra un pezzo musicale e l’altro, ma non può bastare se si vuole costruire un movimento che faccia crescere la coscienza politica degli studenti e rilanci l’opposizione di sinistra nelle scuole.
L’intervento tra i giovani lavoratori
Uno degli “eventi” politici che hanno segnato positivamente gli ultimi mesi è stata certamente la lotta dei metalmeccanici della FIOM, che ha avuto la sua origine nella rivendicazione di un contratto nazionale diverso da quello firmato da Fim e Uilm, ma che ha coinvolto da subito altri temi come la difesa della democrazia nei luoghi di lavoro e soprattutto la difesa della dignità del lavoro e la volontà dei lavoratori di organizzarsi per difendersi dagli attacchi sempre più violenti a cui sono sottoposti.
In questo contesto era inevitabile che la protesta dei metalmeccanici si ponesse il problema della difesa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori contro il “libro bianco” di Maroni e si trasformasse in una protesta aperta (e coscientemente politica) contro il governo di destra che quotidianamente calpesta i lavoratori (rendendosi insopportabile perfino ai sindacati più moderati).
È importante sottolineare che tra i protagonisti di queste lotte ci sono stati i giovani metalmeccanici; anzi, guardando sfilare i cortei che hanno invaso le varie città italiane il 6 luglio e poi Roma nell’ultima, grandissima, manifestazione nazionale, erano certamente i giovani quelli che più si notavano, e in particolare emergeva chiaramente l’entusiasmo di chi lotta per il proprio futuro (e non solo per un modesto aumento), con la consapevolezza della portata dell’attacco a cui si deve reagire in questo momento ma senza nessuna intenzione di farsi intimidire.
Quest’immagine può essere il punto di partenza per fare qualche riflessione sui giovani che lavorano, che sono tanti, e che spesso invece sono trascurati (prevale l’idea del giovane studente o del giovane che è in cerca di divertimento o di spazi di aggregazione e, spesso, si dimentica di ricordare che molti, per pagarsi l’università, lavorano e che anche quelli che passano il sabato notte in discoteca lavorano tutto il resto della settimana).
Si è realizzato, in particolare negli ultimi dieci anni un arretramento dei diritti dei lavoratori tale per cui chi entra oggi nel mondo del lavoro vive una condizione che, pur mantenendo, come è ovvio, il suo carattere di sfruttamento, è cambiata soprattutto perché ai giovani tendenzialmente viene rifiutato il lavoro a tempo indeterminato, prevalgono i contratti più precari (formazione-lavoro, apprendistato, collaborazione, lavoro in affitto) e, più in generale, le garanzie poste a tutela dei diritti dei lavoratori (i diritti sindacali per primi, ma anche, per esempio, la sicurezza sul luogo di lavoro) sono fortemente limitate.
Emerge quindi una duplice faccia della medaglia: da una parte giovani operai che lottano e dall’altra un mondo del lavoro ristrutturato appositamente per far assopire e, se necessario, per soffocare qualunque lotta.
Non è così scontato però che le due facce non si incontrino e che la prima (la voglia di lottare dei giovani) non giunga a modificare, anche radicalmente, la seconda (la struttura stessa del mondo del lavoro), questo non solo perché la stessa cosa è già avvenuta nella storia (basti pensare a quelle straordinarie lotte operaie degli anni ’60 che hanno portato alla conquista di quello stesso Statuto dei lavoratori che destre e padroni vogliono cancellare), ma anche perché qualche segnale in questo senso, seppur limitato, c’è già stato; ci riferiamo ad esempio alle lotte dei lavoratori Mc Donald che inizialmente avevano attratto molta attenzione da parte della stampa (ci duole notare che anche la stampa di sinistra ragiona un po’ troppo spesso per campagne, per cui i lavoratori Mc Donald da molti mesi sono stati dimenticati).
La lotta dei lavoratori (precari, i più) della più celebre catena di fast-food del mondo per ottenere minime garanzie democratiche sul lavoro ha, è chiaro, una grande importanza simbolica, ma non è un caso isolato; le lotte, anche se timidamente e senza grande sostegno, si sviluppano anche in altre situazioni di precariato (come i call-center) e, oggi, si profila un percorso unificante: la costruzione dello sciopero generale contro la libertà di licenziare, contro il “libro bianco” di Maroni, contro il governo Berlusconi.
Di fronte a questo scenario è davvero una questione centrale, per costruire un intervento reale tra tutti i giovani e per divenire un punto di riferimento, l’intervento dei Giovani Comunisti tra i giovani lavoratori (può apparire scontato, ma è utile riaffermare che la centralità della contraddizione capitale-lavoro vale anche quando ci si accosti ai giovani); intervenire tra i giovani lavoratori significa, in primo luogo, costruire con loro (anche se il termine è impreciso, perché sono molti i giovani comunisti che lavorano, che sono delegati sindacali o che fanno politica sul posto di lavoro) iniziative che permettano un confronto ampio tra giovani che lavorano (in modo diverso, con diversi contratti…) e che lottano (a volte in maniera isolata) per riaffermare i diritti del lavoratori e per porre fine alla fallimentare logica della concertazione.
Quest’attività di iniziative comuni, conoscenza, coordinamento è il primo passo fondamentale, non solo per ricostruire un’analisi che riparta dai problemi reali dei lavoratori, ma per valorizzare le singole lotte, reagire all’isolamento che i “nuovi” contratti e le “nuove” situazioni lavorative (lavori esternalizzati, “cooperative”..) cercano di imporre ai lavoratori.
Valorizzare e sostenere le lotte che si sviluppano è il primo passo affinché se ne sviluppino altre, affinché i giovani che sentono la necessità di lottare (quantomeno per difendersi) non si sentano più soli, affinché si possa sviluppare tra i lavoratori sfruttati la coscienza della propria condizione, unita però alla coscienza della forza che può derivare dall’unità tra tutti coloro a cui questa società promette solo un futuro senza garanzie e senza diritti (partendo da qui si può, e si deve, costruire l’unità tra giovani italiani ed immigrati che vivono le stesse condizioni di sfruttamento).
Si tratta (è ambizioso ma indispensabile) di ricostruire una forte alleanza di classe che può nascere anche dai giovani; per fare questo i Giovani Comunisti (insieme a tutto il Partito) devono lavorare, in contrasto con l’ideologia dominante, per riproporre l’unità dei lavoratori come fecero socialisti e comunisti nell’800, quando seppero unire i diversi bisogni materiali in un’unica lotta contro il capitalismo e per una società migliore.
Il ruolo dei Giovani Comunisti
Per sfruttare tutte le potenzialità del “disgelo” a livello giovanile e per ricostruire, attraverso percorsi di lotta politica, un senso comune di sinistra, occorre che i Giovani Comunisti si dotino di strumenti, i più consoni, sia per le modalità d’intervento, sia per il dibattito politico anche interno.
La prima questione da cui partire è quella della partecipazione e della democrazia interna ai Giovani Comunisti stessi. Molto resta ancora da “perfezionare”: non si può evitare di ricordare che il Coordinamento Nazionale non viene eletto dal 1997, cioè da prima della scissione operata da Cossutta. Nel frattempo si è verificata una massiccia dose di cooptazioni, quasi ad ovviare l’obbligo di una conferenza nazionale degli iscritti. Questo porta inevitabilmente a un’autoreferenzialità dell’esecutivo nazionale, proprio in una fase politica nella quale sarebbe opportuno discutere la linea da adottare riguardo al modo di interloquire con i vari soggetti del movimento, alle priorità di lavoro dei Giovani Comunisti, al modus operandi o, come si diceva una volta, allo stile nel lavoro.
Non ci si può nascondere dietro un dito e impugnare gli impegni, pur sacrosanti, dell’agendina, per giustificare il fatto che è da più di tre anni che i Giovani Comunisti (intendiamo gli iscritti) non discutono della loro politica e di come è più opportuno esercitarla. Specialmente laddove, come in questo caso, discutere non significa “ciarlare”, ma valutare come operare nel movimento, come costruire il radicamento di massa, come operare sul territorio, nei luoghi di lavoro e di studio. Anche la recente assemblea nazionale, tenutasi a Foligno il 22 e il 23 dicembre, non ha certo colmato il vuoto di democrazia che si è venuto a creare. Non solo, ma la convocazione di un’assemblea nazionale in un luogo difficilmente raggiungibile a ridosso delle feste, sembra volutamente organizzato per limitare la partecipazione dei compagni e delle compagne. Come se non bastasse, queste assemblee sono sì un ambito di discussione politica, ma mai di decisione. In questo modo, la delega assoluta nella determinazione della linea politica dei Giovani Comunisti, di cui si è impadronito l’esecutivo nazionale, continua ad alimentarsi.
È solo sviluppando una maggiore circolazione di idee e costruendo rapporti interni veramente democratici che coinvolgano tutte le istanze di base nelle decisioni, che si riesce ad ottenere una maggiore partecipazione dei militanti rendendoli più attivi e facendoli sentire realmente parte del partito, riuscendo così ad avere una visione più articolata della realtà (non si può vivere di sole inchieste).
Proprio a tale riguardo troviamo di una straordinaria gravità il fatto che sulla scelta della cosiddetta “disobbedienza sociale” non siano stati consultati, non già gli iscritti (che sarebbe troppa grazia), ma neanche i coordinatori provinciali! Eppure questa si è concretizzata come una scelta strategica importante.
Con “disobbedienza sociale” si intende un percorso avviato dai Giovani Comunisti con alcuni soggetti del movimento, come le Tute Bianche e Ya Basta che, dopo Genova, è sfociato in una piattaforma comune di azione politica: questa non è più, quindi, uno strumento per la lotta politica ma si identifica con la stessa.
La gravità di questa proposta così articolata sta nel fatto che assume questo tipo di lotta come alternativa in sé, invece di cercare di contrapporsi alla cultura dominante con un progetto politico alternativo.
Per quanto riguarda invece i metodi, la “disobbedienza” prevede, accanto a forme di lotta tradizionali come le occupazioni, anche strumenti d’intervento (dagli aeroplanini di carta alla vernice nella fontana e ad altri “dispetti” ) sulla cui efficacia nel contribuire alla formazione di una coscienza di sinistra nutriamo seri dubbi, tanto che, sino ad ora, nessuno aveva ritenuto di portarli ad esempio. Ci chiediamo, infatti, come sia possibile operare un salto di qualità nelle mobilitazioni e nelle capacità critiche degli studenti, soprattutto quando si propongono determinate pratiche che, per quanto affascinanti, portano raramente ad intervenire sull’insieme dei giovani. Anche dove si riscontra una buona partecipazione per questo genere di iniziative, ci pare difficile sostenere che il lancio di aerei di carta svolga una funzione di crescita politica! Se così fosse, più che bearsi del latente anticapitalismo del movimento, bisognerebbe sperare nel latente antimperialismo dei bimbi delle elementari.
Anche la scelta di operare congiuntamente con altre sigle in un’area disobbediente, sarebbe stata meritevole di un confronto. Quando i compagni chiedevano di portare nelle istanze del movimento le posizioni dei comunisti, veniva risposto loro che questo era un modo “egemonico” di porsi, che non avrebbe prodotto alcun risultato perché sarebbe stato accolto negativamente da altre realtà. Prendiamo atto, invece, che ora che si stabilisce una piattaforma d’identità e d’azione con le Tute Bianche, non si ha più il timore di influenzare negativamente le altre sensibilità politiche che compongono il movimento.
Al contrario, noi pensiamo che per costruire un forte movimento alternativo, non solo le forme di lotta da praticare debbano essere scelte da tutto il movimento, ma si debbano anche differenziare a seconda della situazione nella quale si opera e in base al livello di coscienza dei giovani da coinvolgere affinché decidano come attuare la protesta, in quanto riteniamo più importante la sostanza rispetto alla forma.
Ci auguriamo un confronto sereno su queste questioni a maggio, quando si dovrebbe tenere la tanto invocata Conferenza Nazionale dei Giovani Comunisti.
Nel frattempo facciamo notare che i Giovani Comunisti di un’importante federazione come Milano, hanno deciso di rifiutare, in un regolare attivo degli iscritti e alla presenza del Coordinatore Nazionale Peppe De Cristoforo, la linea della disobbedienza sociale. Sia perché non riconosciuta come percorso condiviso, sia per il merito della proposta.
Per trasformare le potenzialità in risultati
Le potenzialità che si possono avere lavorando con i giovani sui loro problemi, sono numerose. Questo non deve però indurre a facili equazioni tra le possibilità e i risultati, perché tra i due estremi sta l’elemento del come intervenire per trasformare le possibilità in risultati.
Se, come abbiamo detto, le potenzialità ci sono, che cosa manca, allora?
Mancano punti di riferimento, manca (o non è ancora all’altezza dei compiti che gli spetterebbero) un’organizzazione, un partito che sappia essere interprete dei bisogni e sia realmente una avanguardia, una forza in grado di attrarre, organizzare e mobilitare i giovani (tutti i giovani, non solo i no-global), che sappia essere presente e radicato nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro (anche quelli “nuovi”) e nei quartieri (magari intervenendo nei luoghi di ritrovo giovanili o nelle biblioteche) .
In una situazione in cui, non solo è forte l’attacco culturale ai valori della sinistra, ma è forte anche l’attacco materiale alle condizioni di vita dei giovani (citiamo solo l’attacco alla scuola pubblica ed allo statuto del lavoratori) e persino l’intimidazione fisica nei confronti di chi continua a lottare (la repressione di Genova è l’esempio più drammatico e macroscopico), si sente il bisogno di strutture solide che sappiano contrapporsi alle destre con continuità, perché è chiara a tutti la sproporzione delle forze in campo e la posta in gioco per il destino stesso delle nuove generazioni; quando si parla con i giovani o ci si fa politica insieme, quello di cui hanno bisogno è un aiuto organizzativo, materiale politico, controiformazione, analisi e punti di vista diversi da quelli imposti dai mass media, più che di caschi e scudi.
Il nostro principale obiettivo deve essere, quindi, quello di lavorare perché certi valori (antifascismo, antimperialismo, protagonismo politico) siano egemoni, siano quelli che la maggioranza dei giovani sentano propri.
Se questo è il nostro obiettivo, i GC devono impegnarsi a costruire una propria analisi politica ed una propria proposta politica, devono sviluppare percorsi di lotta, sostenere quelli esistenti e cercare di unificare le lotte che si sviluppano proponendo obiettivi comuni, devono saper portare la nostra organizzazione nei movimenti, consci del fatto che il patrimonio politico e organizzativo di un partito comunista dovrebbero esserne la punta avanzata.
Questo lavoro sarà fondamentale anche per il “movimento di Seattle”, per il superamento del carattere episodico che ancora ha, per la sua crescita futura e per un suo effettivo radicamento nella società.
Per questo occorre recuperare temi centrali nel processo della rifondazione comunista, nella quale anche i giovani sono impegnati, quali la necessità di una presenza sul territorio (a partire dai circoli), la necessità di un maggior coordinamento con le strutture del partito (fatta salva l’autonomia dei Giovani Comunisti) e l’utilità di un intervento “a tutto campo”, anche dove il movimento non arriva.