“Non bisogna farsi illusioni. Tutta quella gente (gli oligarchi e le strutture politiche che li sostengono) non è uscita dalla scena politica. I nomi li trovate tra i candidati e i sostenitori di alcuni partiti. Vogliono una rivincita, tornare al potere, ad esercitare la loro influenza. E restaurare il regime oligarchico, basato sulla corruzione e sulla menzogna”. Forse queste parole pronunciate da Vladimir Putin, durante una grande manifestazione di “Russia Unita”, il partito di cui era capolista, servono a far comprendere le vere ragioni dello straordinario successo della forza politica di governo che – al di là dei suoi confusi e contraddittori programmi politici e di un apparato in larga parte non distinguibile, per provenienza e aspirazioni sociali, dall’opposizione “liberale” –, dai russi è stato associato alla figura del presidente russo dopo la sua decisione di diventarne il leader.
Troppo vivo è il ricordo del decennio di umiliazioni e di declino della Russia, seguito alla dissoluzione della potenza sovietica, per poter pensare ad una rivincita degli uomini e dei partiti che delle disgrazie di quel periodo sono stati i responsabili, al seguito di quella che oggi può considerarsi la figura più screditata della storia contemporanea di questo grande paese: Boris Eltsin.
Lo striminzito 2% raccolto dai partiti “liberali”, osannati in Occidente (“progressisti” li ha definiti anche “Liberazione”!), sta lì a dimostrarlo eloquentemente.
Stupisce che una riflessione più ponderata di quanto sta accadendo in Russia non sia passata per la testa neppure a molti commentatori della cosiddetta sinistra radicale occidentale (i servizi su “Liberazione” del 1 dicembre ne sono un esempio), che non hanno avuto alcuna esitazione ad accettare in modo acritico tutti i cliché propagandistici delle centrali di informazione occidentali.
Putin per i russi, spesso descritti nei giornali occidentali, con veri e propri toni razzisti, come un popolo quasi geneticamente “autoritario” (con tanto di interviste a “raffinati” intellettuali russi che, ai tempi del secondo golpe di Eltsin nel 1993, non ebbero dubbi a sostenere il massacro dei difensori del Parlamento russo) è colui che, con i fatti, ha dato prova di voler voltare pagina.
I russi, che sicuramente non considerano il loro presidente perfetto, gli riconoscono, a ragione, la determinazione dimostrata nel riportare la Russia sulla scena mondiale, nel sottrarla al rischio di essere condannata al ruolo di colonia delle potenze e delle multinazionali occidentali e destinata a subire gli stessi processi di frammentazione dell’URSS, di avere azzerato il pauroso deficit che aveva portato il paese sull’orlo del precipizio finanziario, di avere migliorato, pur in presenza ancora di grandi ingiustizie e contraddizioni sociali, il tenore di vita di milioni di russi. Sono fatti che nessuno può contestare credibilmente.
E, invece, per spiegare il 63% dei voti raccolto dal partito di Putin nel contesto di un’alta partecipazione al voto (quanti, fino al giorno prima avevano confidato in un grande astensionismo?), si è scelta la strada suggerita dai propagandisti dell’amministrazione americana, anche a “sinistra”. Invece di soffermarsi a riflettere su come Putin vorrà o potrà proseguire sulla strada degli impegni di riscatto sociale e nazionale presi con i suoi elettori (e che gli elettori non dimenticheranno) e ripetuti in modo martellante in tutti gli ultimi messaggi elettorali, e su come potrà vincere le resistenze (di cui è pienamente consapevole) che provengono dagli apparati del suo stesso partito, si preferisce evidentemente dare una mano a questi ultimi, diffondendo la favola (non sostenibile alla prova dei fatti) dell’esistenza in Russia di una dittatura.
La vittoria travolgente di Putin pone anche i comunisti russi di fronte all’esigenza di aprire un serio dibattito sulla loro collocazione nello scenario politico che si profila per i prossimi anni. L’ulteriore, seppur lieve, ridimensionamento elettorale (dal 12,6% all’11,7%), che gela le speranze di una ripresa elettorale coltivate nelle elezioni parziali del marzo scorso, non può essere spiegato solo, in modo autoconsolatorio, con l’eventuale presenza di brogli elettorali (del resto, sempre denunciati anche al termine di ogni passata consultazione), per i quali chiedere l’intervento di quegli organismi internazionali che, in altre occasioni, hanno avviato campagne di criminalizzazione contro gli stessi comunisti (Consiglio d’Europa).
Il PCFR, che resta comunque una forza politica di tutto rispetto, sarà sicuramente costretto ad avviare una profonda analisi dei mutamenti intervenuti nella società russa, durante i 7 anni di amministrazione di Putin. E dovrà fare finalmente i conti con la necessità di incidere realmente nelle contraddizioni degli attuali assetti di potere russo, uscendo da una sorta di orgoglioso isolamento e cogliendo in tutta la sua portata la cesura netta, sia sul piano della politica estera che di quella interna, avvenuta in questi anni rispetto alla precedente “era Eltsin”, grazie all’iniziativa incalzante di Putin e del gruppo “patriottico” che si raccoglie attorno a lui.
Se ciò avverrà, gli appelli a lavorare insieme nel prossimo parlamento russo, lanciati subito dopo il voto dal partito “Russia Giusta” (8% dei voti) (il partito filo-presidenziale, che si definisce “socialista”) ai comunisti, forse, questa volta, non saranno rispediti al mittente, permettendo così a quel 20% della società russa che ancora si esprime con nettezza per una “scelta socialista” di avere la possibilità di favorire una positiva evoluzione dei processi politici, avviati con l’uscita dalla scena di Eltsin e l’avvento di Putin, e che hanno permesso alla Russia di ritrovare un ruolo dignitoso nella scena mondiale, sottraendola sempre di più ai condizionamenti e ai ricatti dell’imperialismo.