Afghanistan: quando un romanzo è al servizio dell’intervento USA

“The Kite Runner (Il cacciatore di aquiloni) è un romanzo di 392 pagine, scritto da Khaled Hosseini e pubblicato in Italia dalla casa editrice Piemme. Non è uscito ora e dunque non ne proponiamo una recensione. Vorremmo invece parlarne poiché una serie di motivi lo rendono di stretta attualità; lo rendono – paradossalmente – più attuale ora di quando uscì. Perché vale la pena tornare su “Il cacciatore di aquiloni”? Primo: perché quest’opera va conquistando proprio ora i mercati mondiali e va imponendosi come uno dei più grandi successi letterari internazionali degli ultimi dieci anni. Sono già milioni le copie vendute in dodici diversi paesi del mondo. Uscito per la prima volta in Italia nel 2004 è giunto, in quest’ultimo luglio, alla ventisettesima edizione. Secondo: perché il suo successo, il suo impatto mediatico e popolare, la sua fortuna, sembrano essere solo all’inizio e tutto ci dice (per motivi che cercheremo di mettere in luce più avanti) che il romanzo di Hosseini potrebbe divenire uno dei più grandi best seller mondiali degli ultimi decenni. Intanto, sappiamo già che la “Dreamworks”, la casa di produzione di Steven Spielberg, ne ha già acquistato i diritti per farne un film (e quando è Spielberg a fare un film vi è la certezza che esso godrà sin dall’inizio di una divulgazione universale). Il terzo motivo che ci induce a parlare de “Il cacciatore di aquiloni” è che esso parla dell’Afghanistan, del martoriato Paese di oggi, delle guerre, degli interventi stranieri, della Kabul successiva all’11 settembre, all’attacco alle Torri Gemelle. E ancor più precisamente: siamo di fronte ad uno scrittore afghano che parla del proprio paese da un punto di vista americano; siamo di fronte ad una storia afghana filo-americana che va, non casualmente, aumentando il proprio successo mondiale proprio nel momento in cui si inasprisce l’intervento degli Usa e della Nato in questo paese. Qual è la storia narrata da Khaled Hosseini? Essa si sviluppa lungo gli ultimi trent’anni, dalla fine della monarchia all’intervento sovietico, dal regime dei talebani sino ai giorni nostri. In quest’arco di tempo, nelle pagine di Hosseini, accade – essenzialmente – che il giovane Amir (protagonista ed io narrante del romanzo) fugga clandestinamente, portato dal gigantesco e carismatico padre “Baba”, dalla Kabul occupata dai sovietici per rifugiarsi negli Usa e che molti anni dopo lo stesso Amir torni in Afghanistan per salvare dai talebani un ragazzino a lui carissimo e portarlo negli Usa. E stiamo all’essenza, non tanto perché non vogliamo svelare il plot o perché non vogliamo gettare anzitempo luce sugli intrighi narrativi – l’opera non merita ulteriore mercato – ma perché sarebbe lungo ripercorrerne la trama, essendo il romanzo costruito, pur con un linguaggio essenziale, modernamente accattivante, attorno alla più tradizionale retorica letteraria: amore, morte, furore, colpi di scena e svelamento di inattese identità. Insomma, un feuilleton, ma come vedremo – per personaggi e quadro ad una sola dimensione – non certo della qualità di un Dumas, né di un Victor Hugo. Possiamo subito notare, dalla seppur sintetica messa in luce della trama, che nel romanzo emerge un approdo fisico ed esistenziale sicuro, una terra della salvezza e della libertà, e questa terra è quella degli Stati Uniti d’America. Il giovane Amir fugge da Kabul e dai sovietici invasori per trovare salvezza in California e quando, dopo anni, torna a Kabul per salvare il giovanissimo Sorhab dai talebani, di nuovo la salvezza sarà l’America. E’ bene, d’altra parte, ricordare che lo stesso autore de “Il cacciatore di aquiloni”, Khaled Hosseini, nato a Kabul e figlio di un diplomatico afghano, ha ottenuto, per sé e per la propria famiglia, l’asilo politico negli Usa nel 1980, che è medico, che vive in California e che con gli aurei diritti d’autore del suo romanzo sta velocemente passando dalla modestia quotidiana all’inveramento del “sogno americano”. Il romanzo di Hosseini ha una spina dorsale ideologica chiara: la salvezza (dal punto di vista fisico e spirituale, del corpo e dell’anima) è possibile solo nel mondo a stelle e strisce. Tutto il resto è orrore. Orrore indicibile sono i soldati sovietici che entrano a Kabul, orrore allo stato puro sono i talebani. Ora, qui, siamo ben lontani dal difendere sia le truppe d’invasione sovietiche in Afghanistan che i talebani. Ci preme solo rilevare come, in Hosseini, la costruzione della “mostruosità” sovietica e talebana sia funzionale all’enfatizzazione del ruolo storico degli Usa, del loro ordine mondiale. La rappresentazione dei soldati sovietici, nelle pagine di Hosseini, non ha nulla da invidiare a quella che Berlusconi fa dei comunisti cinesi quali “bollitori di bambini”. Nel romanzo essi sono “uomini” ad una sola dimensione: stupratori, corruttori, corrotti, ladri, alcolizzati. E per la verità l’autore tende chiaramente, attraverso ogni artifizio retorico, ad attribuire tali giudizi non tanto e non solo alle truppe sovietiche in Afghanistan, ma ai comunisti in quanto tali: sono infatti gli shorawi (in afghano i comunisti) ad essere segnati, secondo Hosseini, da tutte le categorie delinquenziali conosciute. E criminali totali, in sé, quindi astorici e disumanizzati, sono anche i talebani con il terribile Assef – pedofilo, sanguinario, carogna allo stato puro – a rappresentarli tutti. Tra l’altro, Hosseini si guarda bene dall’introdurre qualche elemento, nella trama, che ricordi come i talebani siano stati, solo pochi anni fa, i primi alleati, il riferimento sul campo degli Usa, nel contesto della guerra civile che ha dilaniato il paese dopo il ritiro sovietico. In verità non si vede l’ora che qualcuno, in quel paese disgraziato, intervenga, e se i liberatori debbono venire essi non possono essere che americani. Il grande romanzo borghese moderno nasce, come noto, con il Don Chisciotte di Cervantes, quando, cioè, la letteratura abbandona l’epica unidimensionale (dell’eroe duro e puro, ma anche di una visione del mondo pietrificata in un solo punto di vista) e apre ai chiaroscuri della realtà contraddittoria, storica e umana. Da questo punto di vista il romanzo di Hosseini, che denuncia solo gli orrori sovietici e talebani, celando accuratamente sia gli orrori sia le mire strategiche e geopolitiche americane in Afghanistan, è in verità un’opera letteraria pre-moderna, che paga il prezzo della propria unidirezionalità ideologica riducendosi ad un pamphlet filo-imperialista, ad un libello entro il quale si muovono personaggi monocolori (e dunque caricaturali, lontani dalla controversa spiritualità e carnalità dei personaggi di un Balzac o di un Flaubert) poiché privi della realistica contraddittorietà storica e sociale. Insomma, come sempre avviene nei casi in cui l’opera è piegata ad un pregiudizio, la realtà rappresentata è dimezzata, e la semi rappresentazione rende asfittica l’opera stessa. Forse bastano poche righe tratte dal romanzo per decifrarne l’essenza. Siamo quasi alla fine della storia, le Torri Gemelle sono state attaccate: “Nel giro di una notte il mondo cambiò. Improvvisamente la bandiera americana apparve ovunque…- Subito dopo l’attacco dell’11 settembre l’America bombardò l’Afghanistan e i talebani fuggirono come topi nelle loro tane…”. Appare questo il senso più profondo ed estremo dell’opera di Hosseini: costruire un senso comune planetario volto alla santificazione dell’intervento armato Usa in Afghanistan. D’altra parte il romanzo è costellato di segni politici e ideologici chiari. A partire dal fatto che il popolo afghano, nelle sue sofferenze, nella sua miseria, nella sua genuflessione forzata ai vari padroni armati, non appare mai. Ciò che emerge è solo la grandezza etica e spirituale dell’aristocrazia e della borghesia afghana, rappresentata dal padre di Amir, l’eroico Baba, proprietario, tra l’altro, come scrive Hosseini senza pudori, “della più bella casa di Wazir Akbar Khan, il quartiere nuovo e ricco della zona nord di Kabul”. Ed è lo stesso Baba a conservare, come una reliquia, una foto scattata nel 1931, che ritrae suo padre assieme all’ultimo re afgano: Nadir Shah. Come dire: o la monarchia o l’imperialismo Usa, in quest’unica traiettoria risiede la libertà. Quella dei ceti alti, non quella del popolo. Queste righe, che non potevano e non volevano essere una recensione, sono, dunque, solo un allarme: l’intervento in Afghanistan, per gli Usa e i suoi alleati, rappresenta oggi uno dei punti centrali dell’escalation imperialista e per appoggiare tale escalation decisiva appare la costruzione di un vasto e favorevole sentimento popolare mondiale. Cosa di meglio, per questo obiettivo, di un caso letterario internazionale, un romanzo ben scritto e sovranazionalmente strappalacrime (una sorta di una “Love Story” politica, di una Liala imperialista), che tocchi i nobili cuori d’America e d’Europa e sbocchi poi in un gran film intercontinentale di Spielberg per preparare i popoli del mondo alla “pax americana”? Lo sviluppo imponente della Cina incute terrore agli americani e al capitalismo europeo; l’esigenza di portare gli eserciti occidentali e la Nato nel cuore dell’Asia e ai confini cinesi è prioritaria nella strategia imperialista che punta ad una guerra “calda” o “fredda”, comunque definitiva, contro Pechino. In quest’ottica tutte le forze sono messe in campo, dalle bocche di fuoco agli strumenti mediatici mondiali volti alla costruzione del consenso. Anche per questo la missione militare in Afghanistan non può essere considerata “di pace”, tanto che l’estensione della missione ISAF-NATO ha segnato una prepotente ripresa della guerra. Ritiriamo, di conseguenza, i nostri soldati dalle terre afghane prima che il pianeta intero possa convincersi che l’intervento Usa sia una crociata giusta e santa.