Addio caro, carissimo compagno Aldo

IN MEMORIA DI ALDO LOMBARDI, FIGLIO DEL MOVIMENTO OPERAIO, DIRIGENTE COMUNISTA, POETA, RIVOLUZIONARIO

Aldo Lombardi ci ha lasciati. Così, all’improvviso. Era a Venezia con noi al Congresso di Rifondazione, con noi ha votato per l’ultima volta nel tardo pomeriggio di quella domenica, poi, il mercoledì, la telefonata dei compagni di La Spezia: “È morto Aldo”. E Aldo lo abbiamo salutato in tanti, in tantissimi, due giorni dopo: migliaia di cittadini spezzini, centinaia le bandiere rosse listate a lutto, affranti i famigliari, sgomenti i compagni e le compagne.
Ma chi era Aldo Lombardi? Perché c’era tutta una città e il suo Sindaco al suo ultimo saluto? Aldo era un compagno straordinario, un dirigente naturale, entusiasta e creativo, una persona di una umanità e generosità eccezionali. Tutto qui. Aldo era questo. Sono onorato di essergli stato amico per quarant’anni. Quarant’anni: perché l’ho conosciuto alla metà degli anni 60. Lui era un giovane cantierista, che però aveva già diretto la lotta, vittoriosa, degli operai spezzini che volevano essere assunti in quell’Enel che si era da poco costituita, soppiantando le vecchie “baronie” elettriche. Io ero, allora, un giovane tecnico della progettazione di quelle ciminiere che tuttora svettano sugli impianti di produzione elettrica. E ci incontrammo, appunto in quel di Turbigo sul Ticino, un grande cantiere, entrambi convinti che fosse più esaltante lavorare per il bene pubblico piuttosto che per il tornaconto di un padrone.
L’Enel non era ancora diventata l’azienda che poi avrebbe fatto parlare di “nazionalizzazione tradita”, ma già vi apparivano i segnali sconfortanti di quelle cordate di politici e dirigenti senza scrupoli che cercavano di impadronirsi, come poi ci riusciranno, del business del kilowattore.
Io e Aldo militavamo nel sindacato degli elettrici della CGIL, che allora si chiamava FIDAE e che poi divenne FNLE. Era un sindacato forte; lo dirigeva Valentino Invernizzi, un comunista di Lecco, quadro carismatico, un partigiano, dalla dirittura morale fortissima, un maestro. Erano gli anni in cui, dopo le fiammate del luglio del 60 – la lotta a Tambroni, lo sciopero generale e antifascista della sola CGIL (il mio primo sciopero, come dimenticarlo?) – si andava ad annunciare il biennio della riscossa operaia. La scintilla fu nelle scuole, a Milano prima fu la Cattolica di Capanna e poi la Statale. Nelle fabbriche, prima la Pirelli e poi via via tutte le altre. Si sollevava la testa e si riprendevano i temi della lotta degli elettromeccanici milanesi diretta, anni prima, da Giuseppe Sacchi e Pierre Carniti. Si parlava, addirittura, di “proletarizzazione degli impiegati”! Ogni giorno c’era un’assemblea, un corteo, un’occupazione. Con Aldo, noi giovani quadri di fabbrica, cercavamo di capire, di sintonizzarci con quel fermento che scuoteva dalle fondamenta “il sistema” (allora lo si chiamava così). E gli equilibri politici che avevano retto dal ’45 sino ad allora erano in discussione: montava una nuova domanda sociale, crescevano così movimenti veri e possenti e al di fuori dei partiti. L’altro mondo sembrava possibile, ed era il mondo del socialismo. E, nel Vietnam, gli USA venivano cacciati.
Con Aldo ci trovammo il 19 novembre del ‘69 quando, nell’incontro di piazza tra lavoratori e studenti programmato davanti al Lirico, intervenne la Celere con feroce tempismo, esattamente come a Genova 25 anni dopo. A Genova cadde Carlo Giuliani, a Milano quel giorno morì l’agente Annarumma, e solo qualche giorno dopo, il 12 dicembre, fu Piazza Fontana.
Aldo già allora era un compagno curioso, disponibile, aperto, sempre in prima fila. Un compagno certo critico con quello che allora era il suo – e che divenne poi anche il mio – Partito. Che volevamo più combattivo, meno burocratizzato. Ma guai se altri si azzardavano a criticarlo, il Partito. Allora alzava la voce, sempre con quella sua cadenza ligure che non ha mai perso, pur nel suo peregrinare da cantierista nei cantieri elettrici di mezza Italia.
Il cantiere – la sua gente, i suoi dialetti, i suoi odori – era il suo ambiente naturale. Lì era a casa, a suo agio. Il cantiere era fabbrica e scuola. E fabbrica particolare, provvisoria, durava infatti dagli 8 ai 10 anni. In questo arco di anni vi si concentravano operai e tecnici di centinaia di aziende, grandi, piccole, medie, dell’Italia e dell’Europa. E attorno al cantiere sorgeva una cittadella che, dopo gli 8/10 anni , si dissolveva.
Ecco, essere dirigente di quel cantiere e, quindi, vigilare su appalti, subappalti, lavori pericolosi, infortuni, lavoro in nero, e dirigere lotte, spesso aspre, richiedeva le grandi doti che Aldo possedeva.
Non era un sindacalista degli elettrici, ma degli edili, dei metalmeccanici, dei chimici. Sindacalista generale. E un leader naturale.
La sua capacità di oggi di dirigere la Federazione di La Spezia, come prima la Camera del Lavoro, in modo così carismatico e originale, era nata proprio lì, nel confronto con gli operai, con gli ingegneri, con gli imprenditori, con i Sindaci. E nei suoi cantieri si inventarono vertenze esemplari, “contratti di sito” si direbbe oggi, che poi entravano nei contratti nazionali. Una bella storia la sua.
Al congresso di Venezia, seduti vicino come cento e cento altre volte, commentavamo invece e con una vena di amarezza le pose e i toni che assumevano taluni giovanotti che sfilavano sul palco, e ci domandavamo “… e questa sarebbe la nuova classe dirigente del Partito? Ma che pratica di lavoro di massa hanno mai fatto, se non qualche corteo di sabato? Quanti scioperi hanno diretto? Ma hanno mai lavorato o, almeno visto lavorare?” E ci guardavamo scuotendo la testa.
Ora tanti episodi mi ritornano in mente ricordando Aldo. Ne scelgo uno, della metà degli anni 70. Ero diventato allora il Segretario degli elettrici CGIL, quando mi avvicinò un gruppo di antifascisti uruguayani esiliati in Italia da quel regime che mi dissero: “Guarda che è stato arrestato Eugenio Bentaberry, il Presidente del sindacato degli elettrici del nostro Paese. È molto anziano, sappiamo che lo stanno torturando. Per favore, fate qualcosa”. La vicenda mi colpì molto e ne parlai con Aldo, che allora era nel grande cantiere di Tavazzano, vicino a Lodi. Insieme, ma soprattutto lui, mettemmo a punto una campagna per la liberazione di Bentaberry: firme, petizioni, appelli, manifestazioni, presidi al consolato. E, cosa da non crederci, Bentaberry viene liberato e, espulso dall’Uruguay, sceglie di venire in Italia. Dove accoglierlo se non a Tavazzano? Ora vi prego di immaginare una grande sala mensa con tremila operai in attesa, e questo vecchietto che la tortura aveva segnato, che parla loro così: “Nel buio del carcere aspettavo la morte. Poi, dall’isolamento, filtra una voce che mi dice: ‘Guarda che in Italia degli operai stanno manifestando per la tua vita.’ Ecco, fratelli miei, questo e solo questo mi ha dato la forza per resistere. Grazie, companeros!” E la sala si alza in piedi e, immaginate ancora, tremila persone che intonano l’Internazionale. E vedo ancora Aldo con le lacrime che gli rigano il volto.

A Rifondazione ci arrivammo insieme. Da anni il PCI, dai tempi di Berlinguer, ci stava stretto. A Rifondazione Aldo ha dato tanto, tantissimo, in tempo, lavoro di giorno e di notte, entusiasmo che come altri lo ha sottratto ai suoi cari che ora lo piangono.
Quando, ancora a Venezia, sentiamo che sempre da quel palco ci si dice che “Esistono in Italia due partiti comunisti, e quindi a chi non sta bene questo…”, ci arrabbiamo, e rispondiamo dicendo due cose: “Primo, che per noi c’è un solo partito ed è quello che abbiamo contribuito noi a fondare, mentre altri dubitavano galleggiando nel gorgo. Secondo, che lo abbiamo difeso noi questo partito a Milano, a Torino, a La Spezia e altrove quando era esposto a rischi altissimi, come nel ‘98, e lo difendiamo anche adesso dall’autoritarismo di quanti si atteggiano a capi. Noi non abbiamo capi! E combattiamo il conformismo e l’opportunismo dilagante”. Così ci siamo detti anche a Venezia.

Aldo era però molte cose insieme. Politica, ma non solo politica. Era non un Segretario di Federazione, ma “il Segretario”, quello che dà l’esempio tutti i santi giorni, che solleva al mattino la saracinesca della “sua” Federazione di cui era orgoglioso, e l’ultimo che la tira giù a tarda sera; che scriveva i volantini che poi diffondeva a fianco a fianco con i compagni e le compagne; che promuoveva mille iniziative, marce, convegni, presidi, ma anche mostre e presentazioni di libri; che preparava la Festa che voleva sempre più grande e sempre più bella; che incalzava il Sindaco su ogni problema, come per la casa agli sfrattati, sempre della parte degli ultimi; che sognava una città, la sua La Spezia, che si andasse a riconvertire, smilitarizzata, in una città della pace, del lavoro, del commercio.
Quando ci si domanda “perché tanta gente al funerale”, guardate che è in questo elenco, assai parziale, che sta la risposta parziale. E lo avrebbe votato, quella gente, alle elezioni regionali, in cui, dopo molte pressioni, aveva accettato la candidatura. Sarebbe stato un grande consigliere Regionale, perché sui banchi avrebbe portato la voce della classe operaia. Immagino la scena del Presidente del Consiglio che dice “Ha ora la parola il consigliere Lombardi”, e con Aldo che si alza e parla, e con lui si alzano e parlano l’operaio e il disoccupato, il precario e l’immigrato.

Ma Aldo non era soltanto un uomo politico. Era una personalità poliedrica. Aldo era un poeta, e dolce anche. “Ho ancora delle poesie dentro”, mi ha confidato sul vaporetto mentre tornavano da Venezia.
Coltivava vari progetti, e sognava. Ed era molto orgoglioso del successo del suo ultimo spettacolo teatrale su Che Guevara. “Lo voglio portare a Genova”, mi confessò. Mente libera, sciolta, bella.
Orgoglioso, lo ripeto, della sua Federazione. E i suoi compagni, le sue compagne, orgogliosi di quel loro Segretario così unico, così “matto”.
Lo dico con tanto rimpianto. Lui mi considerava il suo riferimento politico e, quando c’era una decisione da prendere, i compagni di La Spezia lo prendevano in giro per quel suo “Ma Bruno cosa ne pensa?” Era una specie di gioco tra di noi. Che oggi si è interrotto. Quando per l’ultima volta ci siamo salutati abbracciandoci alla stazione di S. Lucia, ci eravamo dati appuntamento per il venerdì a Roma, allo sciopero dei metalmeccanici Fiat. Quel venerdì il nostro incontro è stato diverso. E ci siamo raccontati, per l’ennesima volta, di quando ci si trovò nell’80 a Mirafiori in quella lotta, in quella sconfitta ai cancelli della Fiat, e ci dicevamo ( il 6° Congresso del PCI ci aveva molto intristiti) che il dirigente non va giudicato dall’esito delle sue battaglie ma dalla scelta stessa di dare battaglia. E Aldo non misurava mai la sua scelta con la bilancia del tornaconto politico che ne derivava. Un bel compagno, un grande amico, un fratello. Quando ci salutammo mi disse come sempre “Tieni duro”. Certo che tengo duro, caro, carissimo Aldo.