Accumulazione capitalistica e morte del pianeta

La principale causa del continuo deterioramento dell’ambiente globale consiste nei modelli inostenibili di produzione e consumo, in particolare nelle nazioni industrializzate.” Così recita l’Agenda 21, il famoso piano d’azione per lo sviluppo sostenibile, pubblicato al termine del Vertice sulla Terra svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992, che era stato letto come la presa di coscienza politica del mondo nei confronti della crisi ecologica e come un preciso impegno a fronteggiarla e risolverla.
Ma questo non è accaduto. A dieci anni di distanza siamo in presenza di un quadro ambientale in progressivo inarrestabile deterioramento. Aumenta la popolazione del globo, si moltiplicano le aggressioni all’ecosfera, si consumano più materie prime e più energia, si producono più rifiuti. Tutti gli ecosistemi planetari presentano crescenti segni di sofferenza: le foreste continuano ad essere decimate, i deserti si allargano rapidamente, i ghiacciai e le calotte polari vanno assottigliandosi e frantumandosi, i mari sono fortemente inquinati, le acque dolci sono soggette a continue infiltrazioni tossiche, le specie minacciate di estinzione sono 11.000, l’ inquinamento atmosferico è causa di morte per 10 milioni di persone ogni anno, la scarsità idrica va assumendo le proporzioni di un immane problema sociale, che già oggi significa mancanza di acqua per un miliardo e 200 milioni di individui. Negli ultimi dieci anni le emissioni di carbonio, responsabili dell’effetto serra, sono aumentate di più del 9%; ne derivano lo sconvolgimento climatico e l’estremizzazione dei fenomeni meteorologici, cioè la formazione di uragani, alluvioni, devastanti catastrofi ecologiche che raddoppiano da un anno all’altro, causando danni irreparabili a campagne, città, inestimabili patrimoni artistici, con milioni di senza-casa, di profughi, di morti.
Il fatto è che non solo gli impegni presi dai paesi firmatari dell’Agenda 21 per il contenimento del guasto ecologico sono stati disattesi, ma il monito in essa contenuto, con la dichiarazione di insostenibilità dei modelli di produzione e consumo attuali, è stato del tutto ignorato. Benché l’ambiente faccia ormai parte obbligata del programma di ogni partito come di ogni governo, e sia oggetto di una vastissima attività legislativa, e sia occasione di periodici incontri al vertice tra tutti i potenti della terra, e anche industriali e manager ne discutano ormai abitualmente, di fatto ciò che si sta verificando è una sorta di “normalizzazione” del problema ecologico. Il quale, quando addirittura non è visto solo come un impaccio alla libertà imprenditoriale, viene trattato come una semplice disfunzione del sistema, un inconveniente controllabile mediante innovazioni tecniche, livelli di inquinamento consentiti, tassazioni e simili; cioè con provvedimenti non privi di qualche immediata utilità, ma che non possono in alcun modo risultare risolutivi, in quanto non affrontano le cause prime del fenomeno, appunto quei modelli di produzione e consumo che l’Agenda 21 pone sotto accusa.
La cosa è d’altronde inevitabile in società come la nostra, in cui l’economia ha assunto una posizione di indiscussa centralità, e conseguentemente condiziona e orienta valori, comportamenti, scelte individuali o collettive, in maniera da imporre come obiettivi prioritari l’ aumento del Pil (cioè l’accumulazione di plusvalore, perno e motore della gran macchina capitalistica), e quindi la crescita produttiva (non importa di che cosa, in risposta a quali bisogni, con quali conseguenze), quindi i consumi (non importa se necessari, utili, superflui o dannosi). Di fatto il drammatico guasto dell’ ambiente è il prodotto di una società pienamente assimilata alle ragioni del capitale, che ad esse fedelmente conforma il proprio agire e pensare, nel modo più insensato, dimenticando che il pianeta Terra è una quantità finita, cui non si può chiedere di sostenere un’economia in crescita illimitata fornendole la necessaria base materiale, cedendole cioè in misura via via maggiore quelle “quantità di natura” (minerale vegetale animale) che sono indispensabili alla produzione di plusvalore in ogni sua forma.
La devastazione dell’ambiente è insomma la logica conseguenza di una società che ignora totalmente la natura, il mondo fisico, la stessa materialità della produzione, apprezzando solamente la loro capacità di farsi merce, oggetto di transazione finanziaria, astratto valore di scambio misurabile in danaro, massa monetaria circolante per i mercati del mondo. Secondo una regola che ha trovato la sua forma più compiuta nel neoliberismo, in un mondo produttivo senza orizzonti che non siano consumo e profitto, in un modello economico che fonda la sua prosperità sulla rapina della natura come sulla disuguaglianza sociale.
Già, perché a chi contesta la follia di una crescita illimitata in un mondo che illimitato non è, la risposta è solitamente il richiamo al sottosviluppo, alla fame, alla necessità di portare i poveri della terra al nostro livello di benessere. Dimenticando, o fingendo di dimenticare, che proprio gli anni in cui la crescita produttiva ha toccato la sua massima espansione hanno visto il crollo dell’ occupazione, l’attacco generalizzato allo stato sociale, l’aumento drammatico della disuguaglianza tra ricchi e poveri, non solo in ambito internazionale ma all’interno stesso dei paesi più affluenti. È ancora l’Onu, nel documento elaborato in preparazione del Vertice di Johannesburg, a fare il punto in materia: “Il 15 per cento della popolazione mondiale vive nelle nazioni ad alto reddito, che rappresentano però il 56 per cento dei consumi mondiali complessivi, mentre il 40 per cento più povero, nei paesi a basso reddito, rappresenta solo l’11 per cento dei consumi.” Ma ciò che clamorosamente invalida la pretesa di spacciare la crescita produttiva come una politica intesa a sconfiggere la fame è che, proprio nel periodo della massima espansione economica, il livello si vita dei più poveri è paurosamente peggiorato: ad esempio ”il consumo della famiglia media africana si è abbassato del 20 per cento.”
D’altronde proprio l’estrema povertà – sovente indotta o accentuata dai processi di globalizzazione che caratterizzano l’economia mondiale degli ultimi decenni – costringe molti governi a comportamenti antiecologici. Per far fronte al pesantissimo indebitamento, consentono il taglio indiscriminato delle loro foreste, accettano di ospitare scorie tossiche e radioattive, si lasciano indurre a un uso smodato di fertilizzanti e pesticidi nella speranza di migliorare i raccolti, viceversa favorendo l’esaurimento e la desertificazione delle loro terre. In una sorta di spirale perversa a questo modo povertà e inquinamento si alimentano a vicenda. E appunto questa strettissima relazione che accomuna povertà e degrado ambientale è di recente divenuta oggetto centrale di riflessione di molte formazioni verdi, fino alla consapevolezza che eccesso di consumi e morte per fame sono le due facce di una stessa medaglia, che dunque il sistema economico neoliberista è incapace di affrontare sia il problema sociale che quello ecologico; che al contrario emarginazione e disuguaglianze da un lato e rapina della natura dall’altro sono strumenti imprescindibili per la sua prosperità.
Ma un’altra consapevolezza, da tempo raggiunta dall’ambientalismo più qualificato, sta divenendo oggi patrimonio comune dell’universo verde: il fatto che il modello di vita e di consumo dei paesi occidentali già di per sé oltrepassa largamente la capacità ecologica del pianeta, e che è dunque assolutamente impensabile esportarlo e diffonderlo in tutto il mondo. “Se ogni persona sulla faccia della Terra dovesse comportarsi come l’abitante medio delle nazioni ad alto reddito – ammonisce ancora l’Onu – ci sarebbe bisogno di altri 2,6 pianeti per soddisfare le necessità di tutti”.
Di fronte a tutto ciò continuano a mostrarsi ignari, o comunque pochissimo interessati, proprio quanti hanno responsabilità del mondo e dei suoi destini, cioè i politici di ogni livello e praticamente di ogni parte.
L’aumento del Pil, il rilancio della crescita e dei consumi, e dunque l’insistenza su una linea economica fatalmente destinata ad aggravare la crisi ecologica planetaria, senza affatto diminuire povertà e disuguaglianze, continua ad essere la preoccupazione principale per la quasi totalità della classe politica. E il Vertice di Johannesburg ne è stato lampante conferma: disertato da alcuni tra i potenti più potenti del mondo, da molti altri raggiunto svogliatamente per mera convenienza politica, da quasi tutti abbordato con palese totale mancanza di conoscenza della materia in questione. Mentre la quantità e la drammaticità dei problemi ecologici sociali umani, oggetto del dibattito ufficiale e del controdibattito della contestazione, finivano per produrre null’altro che uno modestissimo documento di auspici più che di regole vincolanti; in fondo, e nonostante le dichiarazioni di principio, non lontano dalla linea della delegazione Usa, che si limitava a largire un po’ di dollari per la cooperazione (la metà di quelli offerti dieci anni fa a Rio), e si sottraeva ad ogni serio impegno per ridurre le aggressioni all’ambiente, una volta ancora rifiutando di firmare il trattato di Kyoto, in pratica schierandosi a sostegno dei grandi potentati economici e ignorando le tragedie del mondo.