Libro interessante davvero quello scritto da Sergio Garavini (Ripensare l’illusione – Una prospettiva dalla fine del secolo, editore Rubettino).
Ricco di spunti e carico di una ricerca, ancora in Marx, sul futuro di una “democrazia non chiusa alle regole del mercato, conservatore anche quando globale, ma aperta alla suggestione di abitare l’utopia”. Solo che, anticipo subito un prudente giudizio, l’autore mal concilia il proposito ambizioso contenuto nell’ossimoro “abitare l’utopia” con la qualificazione dello strumento utile per abitarla. L’autore è un personaggio di spicco della sinistra italiana e va studiato. Lo ricordo da sindacalista della CGIL, offrire una lettura originale e acuta delle trasformazioni allora in corso nell’organizzazione del lavoro – nel settore tessile, meccanico, dell’energia – e offrire stimoli alti alla questione tuttora attuale delle rappresentanze dirette. Poi dirigente del PCI – leggevo con grande interesse i pur schematici resoconti dei suoi interventi al Comitato Centrale – e, infine, primo Segretario di Rifondazione. Ecco, forse è quest’ultima esperienza che lo ha segnato, ed è anche del tutto comprensibile. In effetti in alcuni passaggi del suo scritto affiora, se non il risentimento, una grande amarezza che permea di pessimismo lo svolgersi successivo del ragionamento e lo spessore, di alto livello, dell’analisi condivisibile o meno. Ne colgo un solo aspetto relativo al Partito, al Partito Comunista, alla sua autonomia e al suo ruolo nella società. L’autore pare, a tal proposito, non offrire prospettive per un (il) Partito Comunista, pur partendo da un assunto del tutto condivisibile, questo: “… la sinistra al potere ha svuotato di contenuti la sua proposta politica. Ha riconosciuto e riconosce che in pratica il solo sistema economico possibile e praticabile è il capitalismo, e che le quote di economia e società che non vi rientrano devono essere ricondotte a quel sistema”. Questo approccio è forte e, direi, assolutamente ben posto. Così come (ma a questo punto l’amarezza diventa tutta nostra) è correttamente posto il corollario successivo, relativo alla sinistra non al potere, che opererebbe solo specularmente rispetto a quella al potere, limitandosi a praticare una critica di controbalzo, di replica direi. Ma però, sinistra al potere (ma un Governo è il potere?) e sinistra che non lo è, risultano nell’analisi ritratte, l’una nelle istituzioni e l’altra nella critica alla politica delle sole istituzioni, lasciando che l’impresa domini pervasiva sull’economia e sulla società. È l’impresa al potere. Le sinistre, critiche o no, assistono poste drammaticamente dinanzi al nodo irrisolto di una riforma dei rapporti sociali – di fatto, il superamento dell’autorità dello Stato – che motivò la nascita del movimento operaio ma che oggi vede le forze politiche, nate appunto dal movimento operaio, muoversi al rafforzamento, diretto o indiretto, di questa autorità.
È perciò, dichiarato senza tanti fronzoli dialettici, il bivio posto dinanzi al movimento operaio italiano e internazionale: o “… andare verso una rinnovata fede borghese, individualista, liberista, oppure riaprire un discorso socialista…” cosa, quest’ultima, che all’autore (e non solo) pare indispensabile.
Banalizzando, in Italia era questo il bivio della Bolognina dinanzi al quale, a differenza dell’autore (e non solo) con quanti scelsero con Occhetto di “… andare verso una rinnovata fede borghese ecc…”, ci furono quanti – dagli oppositori allo scioglimento del PCI ma che non uscirono dal “gorgo”, al Manifesto – che non riposero fiducia nella costruzione del soggetto politico alternativo rispetto alla fondazione del PDS, non riposero fiducia in un soggetto in grado, appunto, di “… riaprire un discorso socialista”. Restarono assisi sul bivio, non ebbero fiducia nella rifondazione del pensiero e della pratica e, quindi, non ebbero fiducia nel partito. Oggi, a quelli, che poi vissero evoluzioni e involuzioni, se ne sono aggiunti altri che, al tempo, ebbero quella fiducia, ma che ora, per la prevalenza di logiche interne di autoconservazione di gruppo, ritornano al bivio e, pur negandolo a parole, nei fatti imboccano l’altra via “… verso una rinnovata fede borghese ecc.”. Ed è una via che ha precise pietre miliari: la guerra, le privatizzazioni, la scuola, l’attacco ai diritti dei lavoratori e dei pensionati. Triste giravolta la loro. Non è questa, certo, la scelta dell’autore ma è il momento in cui lo stesso, ricostruendo il passato, tocca il nervo scoperto: quello del come costruire la nuova formazione politica. Ma parlando di allora, egli così ricorda: “Ovvio che si trattava di superare la formula tradizionale di Partito…” e aggiunge “…Pensavo a un’evoluzione del partito oltre la sua struttura, promotore e punto di riferimento di un processo non solo di tradizionali lotte sociali, ma di una nuova e vasta rete di partecipazione…” diretta (ora riassumo arbitrariamente) verso il mondo dell’arte, della cultura, della scuola, del lavoro dipendente ed autonomo. Era il suo approccio, reso assai esplicito del resto. Ma approccio che scartava rispetto alla costruzione del (di) un Partito che guardasse e cercasse il radicamento (anche) nelle istituzioni e nel movimento operaio tradizionalmente organizzato.
Approccio che si condensò nella formula “liberamente comunisti” e nella metafora delle due gambe per l’organizzazione sindacale. Non era certo l’approccio di altri, anche per altre storie non coincidenti con quella di Sergio Garavini. Era, la sua, un’offerta di partito-movimento che non raccoglieva la domanda di quanti si dissociarono da Occhetto e dalla “cosa”. Costoro solo all’inizio tollerarono quel “liberamente comunisti” ma, poi, cercarono di imprimervi un ribaltamento rispetto al “partito oltre la sua struttura”, obbiettivo e assillo dell’allora segretario. Fu lo scontro tra concezioni opposte, scontro asperrimo. Scontro di culture e di storie. Certo era quello ancora un abbozzo di partito, un semilavorato, che aveva in sé tanti limiti. Al primo Congresso taluno ebbe a dire che si trattava di una “strana carovana”; dal PCI era arrivata la base, dal PDUP, come da altre componenti della nuova sinistra, erano arrivati soprattutto dei quadri, che si collocarono su quella base. Ma in quell’abbozzo, sostiene oggi Garavini “… si venivano delineando nuove condizioni per lo sviluppo di un movimento alternativo di sinistra, sostenuto, ma non semplicemente costituito da Rifondazione Comunista…”.
Un partito oltre la sua struttura, un partito movimento appunto. E la “Convenzione per l’alternativa” nasceva, in parallelo, con questa ambizione. Sarebbe stata il contenitore del tutto. Ma non ha funzionato, come non ha retto, in Rifondazione, l’idea del “partito oltre la sua struttura”, ma non per l’involuzione burocratica (come invece dice il libro) del gruppo dirigente dei fondatori di allora, ma per la ribellione soprattutto di quella base che era appena sfuggita dall’indistinto di una “cosa liberal democratica” ed era portata a rifuggire anche dal modello speculare di una “cosa di sinistra”. Su questo scoglio, che è quello del partito e della sua autonomia, si infranse, otto anni fa, la ricerca sul campo di Sergio Garavini, che purtuttavia quella ricerca continua. Ma è sullo stesso scoglio, ancora il partito (comunista) e la sua autonomia, che oggi si schianta anche la degenerazione del progetto del suo maggior avversario del tempo – quello che accusò Garavini di voler sciogliere il partito – che riduce il “suo” modello di partito a un radicamento contrattato, ora con il Governo ora con la CGIL e si ricolloca tornato al famoso bivio, sulla via rifiutata allo scioglimento del PCI. E perciò va in dissolvenza nella cosa respinta ieri. Ma, scartando l’uno e l’altro, rispetto al Partito, falliscono l’uno e l’altro. E il problema, partito e autonomia, resta tuttora aperto in Rifondazione e nella sinistra, italiana ed internazionale, con esperienze che meriterebbero ampia riflessione, dalla Spagna alla Germania, ai tormenti di Rifondazione in Italia. Opinione mia che in Rifondazione – ove la ricerca resta dispiegata – il modello partito avrebbe sicuramente fatto passi in avanti, se il partito non fosse stato attraversato dai richiamati conflitti interni che lo hanno paralizzato, dal ‘97 in poi. Conflitti resi però incomprensibili, questo è il punto, in quanto rapportati a un Governo, da sostenere o no, e non a un programma in relazione al quale si può sostenere o non sostenere un Governo ed essere capiti almeno dagli elettori. Il problema è squadernato tuttora e la critica che (ci) rivolge Garavini – l’operare solo di contro balzo, in replica – ha, almeno su questo passaggio, un suo fondamento. Così come Rifondazione, partito accerchiato ed oscurato e generosamente esposto a tutti i venti, ha le sue ragioni. Rifondazione oggi resiste. Non resta che un passaggio, complicatissimo, per definire la forma partito e la natura della sua autonomia e il carattere delle sue alleanze, prima sociali e poi politiche: è il passaggio della sostanza, del fine. È il progetto sempre dichiarato, sempre inaffrontato. E per la definizione del fine, che non è né orizzonte né una Finanziaria ma il “programma a medio termine”, devono essere attratte le più belle intelligenze, interne ed esterne al Partito: nel mondo dell’economia, delle scienze, dell’Università, dell’arte. È su questa base, che può richiedere anni di impegno, che si può avviare per sperimentazione e accostamenti successivi, la ricerca delle figure di riferimento, del lavoro e del territorio, in un’ipotesi di blocco sociale storico, in intimo raccordo con le alleanze politico-elettorali necessarie, quando sono necessarie. È questo il lavoro di una Consulta? Se è questo ben venga. Questa ricerca, da condursi a fianco della battaglia politica, è anche indispensabile perché oggi il movimento operaio, lo dico con Mario Tronti “ha perso la centralità politica come nucleo storico-intellettuale. E l’ha persa quando, negli anni ‘80, il quadro fu modificato dalla rivincita di altre centralità, dalla ripresa ad esempio del capitalismo di destra rappresentato nel mondo della Thacher e da Reagan, Ciò portò alla crisi dello Stato Sociale che era frutto di quella centralità perduta”. Come raccordare allora la forte centralità sociale del movimento operaio delle nuove tecnologie, con la caduta del punto di riferimento politico che determina la solitudine operaia? La risposta è il programma comunista, non altro, non poco. L’alternativa è il “comitatismo” che già ora alimenta l’antipartitismo. È il lavoro che Sergio Garavini non ha impostato e non ha impostato nemmeno chi lo ha sconfitto per poi sconfiggersi da solo. È il lavoro da farsi e l’insieme dell’analisi del libro, di cui ho colto solo un passaggio, è utile e stimolante. A Garavini resta il pessimistico ripensamento dell’illusione, il proposito di “abitare l’utopia”. Sì, mi verrebbe da dire, d’accordo nell’abitare l’utopia. Ma da concreti utopisti però.