A un passo dal precipizio*

Da qualche mese la Turchia è balzata agli onori della cronaca, non tanto per la repressione violenta nei confronti di comunisti, oppositori politici e delle minoranze nazionali (che la grande stampa ha sempre preferito ignorare), quanto perché l’esercito turco, con l’avallo del parlamento di recente eletto, ha annunciato e sta attuando una campagna militare diretta contro il nord dell’Iraq, ricchissimo di ottimo petrolio, a prevalente maggioranza curda, che, nei disegni dell’imperialismo USA, è servito, sin dai primi anni ’90, al progetto di distruggere l’integrità territoriale del paese retto da Saddam Hussein, per suddividerlo in almeno tre distinte entità statali (Kurdistan a nord, sunniti al centro, sciiti al sud), secondo la sempre efficace logica del divide et impera. Con l’azione intrapresa dall’esercito turco si manifesta palesemente una forte contraddizione all’interno del campo imperialista e della NATO, di cui la Turchia è parte essenziale, in funzione antisovietica prima, antirussa poi. Ma una contradizione si era già manifestata tra il 2002 e il 2003, quando la Turchia rifiutò di servire da base per l’aggressione angloamericana contro l’Iraq. (…).

ATATÜRK E I COMUNISTI

La rivoluzione antimperialista di Mustafa Kemal Pascià, inizialmente salutata entusiasticamente dai rivoluzionari di tutto il mondo come un modello di lotta contro i diktat imperialistici, si volgeva ora brutalmente contro i comunisti. Fondato a Baku il 10 settembre 1920 sull’onda della rivoluzione sovietica, il Partito comunista turco (TKP), membro riconosciuto del Komintern, divenne ben presto per Atatürk il nemico da eliminare: su suo ordine, nel gennaio 1921, i suoi dirigenti, il quarantenne Mustafa Suphi, che aveva svolto un ruolo da protagonista sulla questione coloniale al I e II congresso della III Internazionale (1919 e 1920), e i suoi 14 compagni furono massacrati. Perché il laico e illuminista Atatürk, “capo di una rivoluzione nazionale, modernizzatrice e antimperialista” che “si era procurato amicizie tra le giovani repubbliche sovietiche”[1], fa terra bruciata contro i comunisti, che pure ritenevano di poter percorrere insieme con lui un bel pezzo di strada nella comune lotta antimperialista e avevano dimostrato, col sostegno militare dell’Armata sovietica, di appoggiarlo nella lotta contro l’infame spartizione di Sèvres, sottoscritta dal Sultano, in cui le potenze dell’Intesa, vincitrici della Grande guerra contro gli imperi centrali, a fianco dei quali si era schierato l’impero ottomano, avevano attuato la vecchia politica spartitoria del colonialismo, facendo a pezzi la Turchia – un “tipico modello di pace imperialista, improntato […] alla tutela degli interessi delle potenze europee del Mediterraneo”? Con il Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 l’Impero Ottomano, già drasticamente ridimensionato col Trattato di Londra del 1913, si ritrovò ridotto ad un modesto stato entro i limiti della penisola anatolica, privato di tutti i territori arabi e della sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che furono smilitarizzati. Ai greci fu assegnata nell’Asia minore la zona gravitante su Smirne, ai bordi meridionali della penisola anatolica erano previste zone d’influenza dell’Italia (golfo di Adalia), della Francia (Cilicia) e della Gran Bretagna (Kurdistan). L’Armenia fu riconosciuta come stato indipendente con i vilayet di Erzerum, Erivan e Trebisonda. Dei paesi arabi, Siria e Libano andarono ai francesi, la Palestina e l’Iraq agli inglesi come “mandati” sotto il controllo della Società delle Nazioni (una forma speciale di neocolonialismo). La riscossa turca in Anatolia mandò in pezzi questa costruzione e, con la pace di Losanna del 1923, la Turchia, repubblica, assumeva il suo aspetto attuale. (…). La lotta che Mustafa Kemal, in nome dei destini della nazione turca, aveva intrapreso contro i diktat dell’Intesa, era vista dall’I.C. come parte essenziale di una strategia mondiale che legava lotta antimperialista e lotta per il socialismo. Il congresso fondativo dell’Internazionale Comunista, nel 1919, aveva affrontato la questione coloniale ponendo l’accento sulla vittoria – che allora sembrava imminente – della rivoluzione nei paesi capitalistici dell’Occidente: “La liberazione delle colonie è possibile soltanto se avviene parallelamente alla liberazione della classe operaia delle metropoli. […] Se l’Europa capitalista ha trascinato forzatamente i paesi più arretrati del mondo nel vortice del capitalismo, l’Europa socialista verrà in aiuto delle colonie liberate con la sua tecnica, la sua organizzazione, la sua influenza culturale, per favorire il loro passaggio all’economia regolata del regime socialista. Schiavi coloniali dell’Africa e dell’Asia! L’ora della dittatura proletaria in Europa segnerà anche l’ora della vostra liberazione!”. Il fondatore del partito comunista turco, Mustafa Suphi, pur senza rovesciare questa impostazione, attribuiva un ruolo decisivo alla liberazione delle colonie per la vittoria della rivoluzione mondiale: privando la produzione franco-inglese di materie prime e sbocchi, Turchia, Persia, India, Cina possono uccidere per asfissia il capitalismo. (…). L’Internazionale comunista seguì con attenzione l’evolversi degli eventi turchi. Il regime di Kemal, grazie anche al generoso appoggio prestatogli dalla Russia sovietica, era uscito vittorioso dalla guerra contro la Grecia sostenuta dalle potenze imperialiste, ma non appena aveva ottenuto dall’Intesa la promessa di una revisione del trattato di Sèvres, aveva ripreso la persecuzione dei comunisti. Il nazionalismo di Kemal era oggettivamente antimperialista, ma questo non implicava una sua convergenza col movimento comunista. Tutt’altro. Così come la sua modernizzazione e occidentalizzazione della Turchia, si fermava dinnanzi ai rapporti di classe consolidati e non realizzò mai un’autentica riforma agraria. Benché il Komintern continuasse fino al 1923 a dare una valutazione complessivamente positiva del ruolo del governo di Ankara nella lotta antimperialista dei popoli orientali, era chiaro che la rivoluzione nazionale turca era ormai entrata nella sua fase conservatrice e rappresentava sempre meno una minaccia per lo status quo coloniale dell’Asia centrale. Neanche il più grande poeta turco del ‘900, Nazim Hikmet, fu risparmiato dalla feroce repressione della repubblica kemalista, che, per la sola colpa di essere convintamente e coerentemente comunista, lo tenne a marcire nelle sue prigioni per lunghi anni (ben 17 tra il 1928 e il 1950), costringendolo infine all’esilio e all’ostracismo anche post mortem, (un silenzio pubblico che la campagna di massa promossa nel 2000 dal “Partito per il potere socialista”, ha finalmente rotto, con la raccolta di oltre 500 mila firme). L’anticomunismo del nazionalismo kemalista non è una novità nel panorama delle lotte antimperialiste: la borghesia nazionale si schiera contro le altre borghesie, ma attacca ferocemente anche la possibile trasformazione sociale interna. Ma i comunisti turchi e le loro organizzazioni di massa, i sindacati, non vengono perseguitati e massacrati solo per una ragione di classe, ma anche, e forse soprattutto, perché sono legati ad un’associazione internazionale, perché nascono sul terreno della Internazionale Comunista e ciò, ad onta delle dichiarazioni del partito comunista turco, è percepito dal nazionalismo kemalista come un attentato all’integrità dello stato turco, alla compattezza che si pretende assoluta della nazione turca nella terra di Turchia; tanto più che questa pretesa compattezza assoluta è assolutamente fittizia, per la presenza nell’impero ottomano di diverse altre entità: greci, armeni, arabi, curdi… Quanto più è fittizia la compattezza nazionale, quanto più a rischio di delegittimazione la sua identità, tanto più aggressivo, intollerante, esclusivista si presenta il nazionalismo. È il problema storico del nazionalismo kemalista, la cui eredità è ancora operante nella Turchia odierna.

LAICITA’, NAZIONALISMO E REPRESSIONE

Il nazionalismo turco ha qualche problema in più rispetto agli altri nazionalismi. Esso è tardivo, di recentissima costituzione. Infatti il movimento dei “Giovani Turchi”, da cui prende le mosse la rivoluzione di Kemal Pascià, fu a lungo incerto tra panislamismo, che pensava l’unificazione dei popoli musulmani dell’impero ottomano attraverso il richiamo religioso ad una fede comune, e panturanismo, la suggestione dell’unità di tutti i turchi, dalle steppe dell’Asia centrale all’Anatolia. I numerosi ufficiali dell’esercito che, basandosi essenzialmente sul Centro di Salonicco, organizzarono clandestinamente l’opposizione al regime del sultano Abdulhamid II nell’ultimo decennio dell’800, si ispiravano all’associazione dei “Giovani ottomani”, costituita nel 1865. Obiettivo iniziale dei “Giovani Turchi” era solo il ripristino della costituzione del 1876, che essi ottennero (con aggiunta di norme supplementari quali l’aboli- zione di ogni tribunale speciale, l’inviolabilità della corrispondenza, la libertà di stampa), minacciando di marciare su Istanbul (luglio 1908). Con le elezioni del 1908 portarono in parlamento una maggioranza di deputati vicini alle loro posizioni. I “Giovani turchi” gravitavano dunque ancora nell’orbita dell’impero ottomano, multietnico, il cui collante non era certo il principio nazionale. È solo con Atatürk che il nazionalismo turco si costituisce come fondamento unico e assoluto del nuovo stato, non la religione, su cui pure egli avrebbe potuto contare per ottenere consenso dalle masse (durante la guerra di indipendenza per liberare l’Anatolia, tra il 1919 e il 1922 fece ricorso anche al richiamo dell’islam e dei simboli islamici). La rivoluzione di Atatürk dopo la liberazione del paese dagli eserciti occupanti, è prima di tutto una rivoluzione culturale volta ad affermare l’assoluta compattezza e unità della nazione, la sua totale indipendenza da qualsivoglia centro di potere – chiesa compresa – che non sia quello dello stato nazionale. Di qui una spinta accelerata alla laicizzazione: abolizione del califfato (3 marzo 1924), messa al bando degli ordini dei dervisci, eliminazione nella costituzione del riferimento all’Islam quale religione di stato, soppressione dei tribunali religiosi e delle scuole coraniche, sostituite da una rete sempre più capillare ed efficiente di scuole elementari di stato, primo livello di un sistema educativo basato su patriottismo e laicismo. L’arabo, la lingua di Maometto e del Corano, viene vietato al pari di qualsiasi lingua diversa dal turco nelle funzioni religiose. E insieme con le lingue, si nega l’esistenza di altri popoli o di altre culture. Dei Greci, dei quali non può essere negata l’esistenza – avendo ormai un’identità forte e, soprattutto, il sostegno di uno stato riconosciuto internazionalmente – Atatürk ottiene di sbarazzarsi con lo scambio coatto di popolazioni sancito dal trattato di Losanna (1923): circa un milione e mezzo di cristiani ortodossi, in larga parte linguisticamente greci (ma anche di altre minoranze cristiane) furono espulsi dal territorio turco e reinsediati in quello greco, mentre circa 800.000 musulmani fecero il percorso opposto. I greci rimasti ad Istanbul – una consistente comunità di 100.000 persone – verranno attaccati nel settembre 1955 da un pogrom che ne accelera fortemente l’emigrazione, riducendoli dai 200.000 che si contavano ancora nel 1924 agli appena 5.000 del 2005. Le altre minoranze, curda, armena e araba, furono perseguitate e fu colpita ogni espressione della loro nazionalità. Tale nazionalismo esasperato si tradusse nel rifiuto di ammettere che in Turchia esistessero popolazioni non turche. Gli Armeni, già prima dell’avvento al potere di Atatürk, erano stati oggetto di persecuzioni e repressioni: nella campagna del 1894-1896 condotta contro di essi dal sultano ottomanoAbdul- Hamid II, poi, negli anni 1915-1916, durante la Grande guerra, accusati di tradimento (parte degli armeni si arruolarono nell’esercito zarista), furono deportati dall’Anatolia, dove abitavano da millenni, verso i deserti della Siria e della Mesopotamia e morirono a centinaia di migliaia (secondo alcune fonti si supera il milione: un genocidio). I Curdi, che avevano ancora una presenza rilevante nel sudest del paese, furono chiamati “turchi di montagna” e si proibì loro di parlare la propria lingua. Vista in questa prospettiva, l’occi – dentalizzazione dei costumi turchi (vietato agli uomini il fez, alle donne il velo, reso obbligatorio nel 1934 l’uso del cognome) mira piuttosto a separare l’identità della nazione turca dal suo passato ottomano che ad omologarla all’Occidente. Va insomma letta come un elemento della costruzione della nazione turca, costruzione tanto più difficile, in quanto secoli di storia rimandavano all’eredità di un impero dal passato glorioso, ma fondato su principi, concezioni e pratiche abissalmente distanti dall’identità nazionale turca che Atatürk si proponeva di costruire. La creazione di uno stato moderno, repubblicano e laico, dotato di una definizione e legittimità territoriale e nazionale, in luogo di un impero-califfato fondato sull’universalismo religioso e territoriale dell’islam rappresentava una rottura radicale col passato, che Kemal volle profonda e irreversibile. La fondazione della repubblica turca richiede l’invenzione dello stato nazionale monoetnico turco. L’ideologia islamica ottomana si fondava su una religione universalistica e sulla plurietnicità. La distinzione che nell’impero ottomano si praticava non era per linee nazionali, ma in primis per linee religiose. I convertiti all’islam, come furono nei Balcani i nobili di Bosnia e gli albanesi, erano a tutti gli effetti sudditi rispettati dell’impero. (…). I nazionalismi tardivi sono colti dal panico dell’identità, della crisi di legittimazione, e questo timor panico li rende particolarmente feroci e aggressivi verso altri popoli imputati di minare un’unità ancora fittizia e difficilmente costruita. Per questo ricorrono alla negazione di altri popoli abitanti sul territorio e alla loro soppressione di massa. Solo così forse si può spiegare il tenace negazionismo del massacro-genocidio degli armeni nel 1915-1916, perpetrato, tra l’altro, principalmente dai curdi, i quali saranno a loro volta vittime del nazionalismo esclusivista turco, che nega il diritto elementare di esistere in quanto curdi, di non volersi assimilare all’identità turca. Ma in questo mondo “grande e terribile”, come amava chiamarlo Gramsci, la cui cifra dominante è l’imperialismo, le questioni si complicano. La Turchia è un paese che è stato costretto a lottare con le unghie e con i denti contro le potenze imperialistiche per costituirsi come stato nazionale indipendente, per riscattare l’umiliazione cui le grandi potenze vincitrici l’avevano costretto con la spartizione di Sèvres, uno spettro che continua ad ossessionare gli eredi dei kemalisti: una Turchia fatta a pezzi facendo leva sui movimenti nazionalisti separatisti di popoli che vivono all’interno del territorio della Repubblica, i curdi in primo luogo, la minoranza numericamente più consistente, circa 12 milioni, quasi 1/5 della popolazione turca, che gli imperialisti dell’Intesa cercarono di usare – impegnandosi col trattato del 1920 alla costituzione di un Kurdistan – per fare a pezzi la Turchia e contro cui insorsero i kemalisti. Uno spettro che ritorna ad aggirarsi anche oggi, e forse più che uno spettro, se guardiamo ai piani di spartizione della Turchia che vengono fatti circolare come una delle possibili alternative del piano imperialista di dominio dell’Eurasia sulla grande scacchiera ideata da Brzezinski. Del resto, l’indipendentismo curdo ha già servito egregiamente il disegno statunitense di divisione dell’Iraq, sin dal 1991 e dalla creazione della no-fly zone per arrivare al ruolo attivo che i peshmerga curdi hanno avuto nella occupazione imperialista dell’Iraq nel 2003, attuando tra l’altro una feroce pulizia etnica contro le minoranze iracheno-sunnite di Kirkuk. Forse più di uno spettro, se leggiamo in questi giorni comunicati ANSA, trascurati dalla grande stampa, che ci dicono di divisioni turche che si ammassano ai confini del Kurdistan iracheno e di Washington che intima ai generali di non varcare il Rubicone per arrivare a Kirkuk… Per analizzare la politica della Turchia bisogna ricordare che la sua alleanza con l’Occidente, inclusa la sua adesione alla Nato, è sempre avvenuta all’ombra di dubbi e sospetti, più o meno impliciti, su – gli obiettivi delle grandi potenze nei confronti del paese dopo il crollo dell’impero ottomano. Da questo nazionalismo della repubblica turca dobbiamo partire per comprendere anche gli eventi odierni, che sembrano ripetere, ad oltre 80 anni di distanza, alcune dinamiche di repressione, torture, massacri contro i comunisti. Ed anche della dipendenza dall’imperialismo.

COLLOCAZIONE INTERNAZIONALE

La politica estera della repubblica turca tra le due guerre mondiali oscillò tra l’alleanza con la Germania hitleriana, riprendendo anche la tradizionale collaborazione con il paese che ebbe la maggior influenza sull’impero ottomano, e di cui Atatürk ammirava l’accentramento del potere e il nazionalismo revanscista, e le liberaldemocrazie occidentali eredi dell’Intesa, con cui si era in parte riconciliata nel 1923, quando queste a Losanna avevano accettato di rovesciare il verdetto di Sèvres, e più tardi, nel 1936, alla conferenza di Montreux, dove Ankara ottenne il diritto di fortificare gli Stretti, aprendo quasi una crisi con l’URSS, e nel 1939, quando stipulò il Patto di mutua assistenza con Gran Bretagna e Francia, che le cedeva il controllo del sangiaccato di Alessandretta (ribattezzato Hatay), in precedenza sotto amministrazione francese. La seconda guerra mondiale è decisiva per la definizione del campo in cui la Turchia si schiererà. Essa, ammaestrata dalla dura esperienza della Grande guerra, che determinò il crollo del suo impero, decide di rimanere neutrale, in attesa di scegliere la carta da giocare. Il 30 gennaio 1943, in un treno fermo alla stazione di Adana, Churchill incontra segretamente InoÅNnü, il successore di Atatürk (morto nel 1938) e alla fine dell’anno lo rincontra, insieme con Roosvelt, alla conferenza del Cairo. I due statisti anglosassoni riescono ad evitare che la Turchia aderisca all’Asse. Del resto, dopo la vittoria sovietica a Stalingrado, le fortune del blocco nazifascista sono decisamente in declino. La Turchia, quando è ormai evidente la disfatta hitleriana, dichiara guerra alla Germania e gioca la sua carta per l’adesione al campo occidentale in funzione anticomunista. Per la sua posizione geografica, essa è preziosa nella strategia di Churchill nel Mediterraneo, dove l’insurrezione dei comunisti greci sarebbe stata fermata in un bagno di sangue dagli anglo-americani. Si gettano così le basi per l’adesione della Turchia al campo occidentale. Essa diverrà il bastione antisovietico, il paese dove la Russia si ferma. L’orientamento anticomunista del nazionalismo turco è confermato. E così, alle potenze occidentali, agli anglosassoni in particolare, riesce il colpo gobbo di riprendersi come alleato stabile e fedelissimo quella Turchia che era nata con Atatürk proprio per opporsi ad esse, e in questa lotta era stata sostenuta dalla rivoluzione russa, anche dopo il massacro del gruppo dirigente del partito comunista turco. La classe dirigente turca fa una scelta di campo ormai ben precisa, accettando anche di trasformare, in omaggio formale agli USA e all’Occidente, il sistema politico, inventandosi il multipartitismo. (…).

MILITARI E LIBERISMO

L’assenza di grande proprietà fondiaria e l’espulsione della borghesia cristiana all’indomani della prima guerra mondiale sono gli elementi che hanno contribuito a dare il volto alla Turchia moderna e rendere peculiare lo sviluppo in essa del capitalismo, che procede da un lato attraverso un’alleanza conflittuale tra burocrazia statale e borghesia, dall’altro con l’integrazione progressiva del paese nel mercato capitalista. L’accumulazione originaria della classe borghese, quasi inesistente nell’impero ottomano, dove le funzioni economiche erano appannaggio degli stranieri e delle minoranze greche, armene, ebree, avviene sotto la direzione politica della burocrazia statale del regime kemalista. La politica economica di Atatürk si basa su un deciso interventismo statale in economia e sulla pianificazione quinquennale, che negli anni trenta guarda con interesse ai successi del modello sovietico. Nel 1929, per proteggere la nascente industria nazionale, vengono elevate rigide barriere doganali. Nel 1934 viene varato, il primo piano quinquennale (riprendendo la stessa formula che, dal 1929, si era affermata in URSS), si nazionalizzano le principali attività produttive, si impone il monopolio statale sull’industrie siderurgica, tessile e calzaturiera, del tabacco, del cemento, della carta e del legno. Anche il sistema dei trasporti è nazionalizzato e viene costruita un’efficiente rete stradale. Strumento fondamentale per lo sviluppo delle industrie di base è la Sümer Bank, cui si affianca l’Eti Bank con il compito di favorire lo sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche. Il secondo piano quinquennale, interrotto dalla guerra, punta allo sviluppo della siderurgia, della produzione energetica e mineraria, della cantieristica. Il kemalismo, che, dopo la morte del padre fondatore, stava sbiadendo negli anni quaranta, cede il passo ad una politica di liberalismo economico, che invita i capitali stranieri ad investire in Turchia e privatizza alcune industrie statali. Nel luglio 1947 la Turchia firma l’accordo di cooperazione economica con gli USA, che prestano più di 12,5 miliardi di $ come sussidio economico e più di 14 per assistenza militare. Alle elezioni del 1950 il kemalista Partito Repubblicano del Popolo è in minoranza, sopraffatto da una maggioranza schiacciante del Partito Democratico, fondato nel 1945 da un gruppo di politici e intellettuali allo scopo di far accettare la Turchia come membro a pieno titolo del nuovo ordine mondiale e di ricevere assistenza economica dagli Stati Uniti nell’ambito della dottrina Truman. Il suo leader, Adanan Menderes, che rispolvera anche un moderato islamismo per contrastare il kemalismo, guida il paese per dieci anni. La Turchia entra stabilmente nell’orbita degli Stati Uniti d’America e nel 1950 manda i suoi soldati – ascari subalterni – a combattere al loro fianco la guerra di Corea. Nel 1952 il quadro si completa con l’adesione alla Nato, che farà della Turchia uno dei principali baluardi contro l’Unione sovietica, impedita al libero accesso al Mediterraneo dal controllo turco degli Stretti, e una carta importante della politica d’influenza statunitense in Medio Oriente. Così, gli USA si sostituiscono alla Germania guglielmina nella penetrazione imperialistica in Turchia. Gli USA addestrano i quadri dell’esercito turco. Il capitalismo avanza rapidamente, producendo grandi squilibri, che portano al golpe del 27 maggio 1960 attuato dal generale Cemal Gürsel e alla fondazione della seconda repubblica. La Turchia del secondo dopoguerra è un paese di capitalismo periferico e in gran parte dipendente, completamente recuperata dall’economia capitalistica mondiale e sottomessa alla divisione internazionale del lavoro dettata dall’imperialismo. Le ragioni dello sviluppo di un capitalismo periferico turco risiedono sia nell’espansione imperialista del dopoguerra che nelle contraddizioni economiche e sociali e i rapporti di classe all’interno. Il paese ha una struttura economica fragile, il suo sviluppo è squilibrato, caratterizzato da periodi di forte crescita e successive crisi, con inflazione elevata, alti tassi di disoccupazione e un malessere sociale per controllare il quale i militari attuano, con cadenza decennale, tre colpi di stato: 1960, di cui si è detto; 12 marzo 1971, che, contro il movimento operaio e di sinistra, mette al bando anche il Partito dei Lavoratori della Turchia; 12 settembre 1980, ad opera del generale Kenan Evren, con la complicità del governo USA: è il più duro e violento, con decine di migliaia di arrestati e perseguitati. Negli anni 1950, l’abbandono dello statalismo e i nuovi incentivi alla libera impresa determinano una prima espansione, mentre la fornitura di trattori ai contadini incrementa fortemente la produzione agricola. La liberalizzazione delle importazioni, tuttavia, finisce con il determinare un deterioramento della bilancia dei pagamenti, causando la ripetuta svalutazione della moneta turca e l’aumento del debito estero, tratti questi che accompagneranno l’instabile e squilibrata economia turca dal secondo dopoguerra ad oggi, in cui il paese svetta nelle classifiche dei più indebitati al mondo. Gli squilibri degli anni 50 spingono i kemalisti dell’esercito a prendere il potere e a imporre un colpo di freno al liberismo di Menderes, giustiziato per tradimento alla costituzione. Il “ritorno ai principi di Atatürk” comporta la creazione, nel 1961, di un apposito organismo nazionale di pianificazione con massicci investimenti da parte dello stato, ma mantenendo al contempo l’apertura verso il capitale privato e straniero. Tra il 1963 e il 1977 vengono varati tre piani quinquennali, con un aumento del PIL di quasi il 7% annuo, grazie alle buone performance del settore industriale ed energetico-minerario, mentre rimane il nodo strutturale dell’arretratezza in agricoltura, dove è occupato oltre il 50% della forza-lavoro del paese con una conduzione arcaica di tipo familiare, volta essenzialmente all’autoconsumo. Per superare l’arretratezza agricola lo stato crea delle fattorie modello, una banca di credito agrario e strutture cooperative, nonostante l’opposizione dei grandi proprietari terrieri, e adotta una politica di protezionismo statale per i prodotti agricoli. Ma la riforma agraria ha scarsa incidenza, non contrasta effettivamente il latifondo; la campagna turca risulta fortemente arretrata economicamente e culturalmente. Gli anni 70, avviati dal consueto colpo di stato, ripropongono l’andamento fluttuante e squilibrato degli anni precedenti e il manifestarsi di una crisi economica che si ripercuote sull’occupazione, in notevole decrescita, e sui salari reali, erosi da un’inflazione elevatissima che raggiunge a fine decennio, nel 1979, la punta del 74 %. L’economia turca si regge grazie ad iniezioni massicce di prestiti esteri, che truccano il suo tasso di crescita (che figura nelle statistiche intorno al 6,5%). Nel 1977 il deficit della bilancia commerciale raggiunge i 4,04 mrd. $ (contro i 769 milioni del 1973). Il debito estero passa dai 2,62 mrd. $ del 1973 ai 33 mrd. $ del 1979. Alla fine del 1978, le riserve d’oro e di divise convertibili toccano il livello più basso. La crisi, che porta nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1980 al colpo di stato dei militari col sostegno, o, quantomeno, il benevolo assenso di USA e NATO, è strutturale ed è essenzialmente di origine interna, anche se le difficoltà del sistema capitalistico internazionale, alla periferia del quale si colloca l’economia turca, l’aggravano considerevolmente. (…). Il colpo di stato del settembre 1980 è per certi aspetti diverso dai precedenti, e non solo per la sua particolare durezza – le migliaia e migliaia di arresti tra i militanti sindacali e politici -, ma perché questa volta chi tira effettivamente le fila è un padrone internazionale intransigente, che ha stretto la Turchia nella morsa del debito ed esige che esso venga pagato adottando i suoi precetti: il Fondo Monetario Internazionale. Esso impone un piano di “interventi strutturali” che riorientino a suo vantaggio tutta l’economia turca, che ancora portava su di sé i segni dello statalismo kemalista. Ma gli anni ’80 inaugurano le politiche “neoliberiste” e la Turchia vi si deve adeguare pienamente. Per imporre le ricette crudeli del FMI, per avere mano libera su licenziamenti, salari, prezzi dei beni di prima necessità, condizioni di lavoro, sarà necessario eliminare le organizzazioni sindacali e i partiti di sinistra, che avevano conosciuto un notevole sviluppo negli anni 70. Il piano del FMI per la Turchia è del gennaio 1980, precede di 8 mesi il colpo di stato, e ne illumina le ragioni profonde. Di fronte all’incapacità del paese di rimborsare i suoi debiti, i creditori occidentali (i grandi paesi occidentali, le organizzazioni internazionali di finanziamento e oltre 200 banche private) si lanciano in un’operazione di “soccorso”. Ma a condizione che il governo applichi le “misure di austerità” che il FMI in tali circostanze abitualmente preconizza. Così nasce, molti mesi prima del colpo di stato, il piano economico del 24 gennaio 1980 che combina austerità e liberalizzazione dell’economia, invitata ormai a produrre più per l’esportazione che per i consumi interni, conformemente ai desideri che da tempo formulava il padronato turco riunito nella Associazione degli industriali e degli uomini d’affari di Turchia (TUSIAD). Ispiratore del piano è Turgut Özal, già presidente dell’Unione degli industriali della metal- lurgia (MESS), vicino all’estrema destra, e che sarà in seguito nominato dal generale Evren vice primo ministro incaricato della pianificazione economica. Egli sarà, fino alla morte, nel 1993, l’uomo chiave della politica turca: fondatore del Partito della Madrepatria, che vince le elezioni del 1983 (consentite dai militari che hanno “risistemato” le cose), è primo ministro dal 1983 al 1989 e Presidente della repubblica dal 1989. In Turchia, come in tanti altri paesi del terzo mondo – scrive nella sua analisi Yilmar Dogan -, dopo la Corea del Sud, il Brasile e il Cile, il modello neoliberista dei Chicago boys vuole che si producano merci per l’esportazione. Si sopprimono a questo scopo tutti controlli sui prezzi, in modo da incoraggiare la produzione di surplus destinati all’esportazione. Ma l’economia turca è un’economia dipendente e, in tal caso, il solo modo di accrescere la produzione è il ricorso a iniezioni di capitali stranieri attraverso il FMI e altri allocatori di fondi, continuando comunque a importare prodotti intermedi. Eredi dello statalismo di Atatürk, le imprese economiche di stato avevano dominato fino al 1980 circa la metà dei settori manifatturiero e dei servizi. Era lo stato a finanziarle, controllarle, mandarle avanti e assicurare loro delle sovvenzioni. Dopo un anno, anch’esse devono funzionare secondo le regole del mercato e sono private parzialmente o totalmente dei sussidi statali. Ormai non è più il governo, ma delle amministrazioni autonome delle imprese economiche di stato a fissare i prezzi, il volume della produzione, i salari, l’impiego di manodopera e gli investimenti. I prezzi possono essere aumentati, le imprese del settore privato possono entrare molto più facilmente in concorrenza con le imprese di stato e fare incursioni in campi che fino allora erano stati appannaggio del settore pubblico. Ma a causa delle loro mediocri performance, in particolare per la tecnologia e la gestione, gli esportatori turchi non sono molto efficaci. Possono affrontare la concorrenza sull’arena internazionale solo a condizione di ridurre i loro costi di produzione e mantenere i salari artificialmente bassi, il che provoca il restringimento del consumo interno. Per fare pressione sui sindacati, viene istituito un Consiglio centrale di contrattazione collettiva e si profila la creazione di un sindacato di tipo fascista sotto controllo dello stato. Col colpo di stato liberista del 12 settembre 1980 ogni attività sindacale è soppressa, i fondi dei sindacati sono bloccati, più di 5.400 sindacalisti sono messi agli arresti, vietati scioperi e occupazioni, chiuse de facto le Confederazioni sindacali. Sulla base del piano del FMI adottato da Özal, nel periodo 1980-1988 la crescita annua media delle esportazioni si attesta sul 20%, nettamente al di sopra della media mondiale. Queste buone performance riducono di molto lo squilibrio della bilancia commerciale: il tasso di copertura delle importazioni attraverso le esportazioni passa dal 37% del 1980 al 74% del 1989, con una trasformazione radicale della composizione dell’export: la parte dei prodotti industriali che era inferiore al 30% nel 1980 giunge al 71% nel 1989. Anche gli IDE (Investimenti diretti all’estero) sono fortemente incoraggiati. Tra il 1980 e il 1989 ammontano a 4 mrd. $, 9 volte di più del capitale investito nel precedente quarto di secolo. Ma i “Chicago boys” istallati ai posti chiave del paese a partire dal 1984 non hanno saputo agganciare l’insieme dell’economia, in particolare gli investimenti produttivi e il miglioramento della produttività, alla forza d’attrazione del rilancio commerciale, sicché le basi restano fragili. Le esportazioni sono in affanno nel 1989, diminuendo dello 0,3%. Forse è arrivato al capolinea lo sfruttamento del vantaggio dato dai bassi salari – l’indice del salario reale medio è passato da 100 nel 1979 a 60 nel 1987 (…). Tra il 2001 e il 2002 il paese è in una gravissima crisi economica. Essa comporta quasi la cessazione dei pagamenti e l’economia non è più in grado di funzionare senza un ulteriore aiuto esterno di grandi proporzioni, nonostante il promettente “piano di stabilizzazione” del FMI deciso nel 1999 con un aiuto di 15 mrd $. Due shock successivi (novembre 2000 e febbraio 2001) segnano il fallimento di un sistema bancario del quale lo stato si era fatto garante e che ha dovuto ricapitalizzare in tutta fretta senza poter evitare la caduta del 50% della lira turca, il panico dei piccoli risparmiatori, una fuga di capitali per circa 7 mrd. $ e una perdita di 20 mrd. $ per le banche di stato a causa di crediti inesigibili. Sono ormai i grandi banchieri internazionali, il FMI, la Banca mondiale che per fronteggiare la crisi impongono direttamente un loro uomo Kemal Dervis, vicepresidente della banca mondiale, a capo del nuovo super ministero dell’economia e delle finanze istituito ad hoc, che il 14 aprile 2001 propone un nuovo piano articolato in 15 riforme che completino il processo di denazionalizzazione dell’economia – privatizzazione di grandi aziende di stato come la Turkish Airways e la Turkish Telekom – e di sottrazione de- gli istituti di credito al controllo del potere politico, sancendo l’indipendenza della banca centrale e adottando una nuova legge bancaria. Il FMI ancora una volta ha imposto la sua politica alternando promesse e minacce. Nel 2002 il FMI vara il nuovo programma triennale di prestiti per 16,5 mrd. $, ma intanto “raccomanda” una diminuzione dei dipendenti pubblici di 100.000 unità. La Turchia continua ad essere avvinta nella spirale del debito: il debito interno è il 57% del PIL, quello estero è di 116 mrd $, che passa nel 2003, a 174,6 miliardi di dollari, vale a dire il 60% del PIL. Così, è nel plotone di testa dei paesi più indebitati del mondo, principalmente nei confronti delle banche occidentali. “I responsabili principali del saccheggio e dell’arretratezza della Turchia – scrive Jean Pestiau – sono i dirigenti degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e i loro rappresentanti in Turchia[2]”. Nel 2005 il pendolo dell’economia turca sembra volgere al meglio. Il paese riceve una valanga di denaro straniero, «che però non è vero che non puzzi (olet!). In effetti, potrebbe sembrare che si stia verificando una nuova espansione economica, con esperti pronti a esaltare le riforme del paese. Senonché già nel 1999 la borsa di Istanbul aveva registrato il massimo incremento mondiale dell’anno, qualcosa come il 400%! Tanto che il Fmi aveva apprezzato la politica della Turchia, per il suo “programma forte e ben equilibrato” (aveva esclamato Stanley Fischer), concedendole finanziamenti “strutturali”. Ma proprio in quegli anni e dopo di allora l’economia turca andava indietro, con una discesa del 9,5% nell’anno peggiore. Il governo perciò si indebitò ancora di più col Fmi stesso (per oltre 30 mrd $), che però le impose il rispetto delle “regole del fondo”; ciò portò ad altissimi tassi di interesse (15% reale! per attirare gli investimenti speculativi dall’estero), riduzione delle entrate fiscali e della spesa statale, fluttuazione del cambio, inflazione, privatizzazione delle industrie statali, disoccupazione ed eliminazione di sussidi all’agricoltura e ad altri settori. Ciò avrebbe, in compenso (tenendo fede alle basi militari Usa e chiedendo l’ingresso in Europa, persecuzioni sociali permettendo), portato a una “ripresa” economica negli anni seguenti. Tuttavia, il grande afflusso di capitali dall’estero (più o meno una trentina di miliardi di dollari, ossia più del 5% dell’intera economia) è avvenuto soprattutto sotto forma di investimenti speculativi a breve termine (non Investimenti Diretti all’Estero produttivi, pertanto), seguitando così a penalizzare la capacità produttiva del paese e la creazione di posti di lavoro. Sicché il paese è a rischio di una depressione economica del tutto incontrollabile, non appena il capitale speculativo straniero – il flyjng capital – “vola” via, com’è del resto sua prassi. Nel 1997 in questa maniera fu organizzata la crisi asiatica e la conseguente depressione dell’intera area per lungo tempo, consentendo il saccheggio da parte delle potenze imperialistiche, a partire dagli Usa (che nel 1994 avevano sperimentato già simile strategia contro il Messico, con il cosiddetto “effetto tequila”). La mancata solvibilità del debito estero – prevista e programmata, del resto, dal capitale speculativo transnazionale – fa dirottare altrove le proprie operazioni di borsa, verso investimenti in quel momento maggiormente sicuri. L’afflusso speculativo di moneta dall’estero ha anche, riversandosi sulla moneta turca (cresciuta in tre anni del 140% rispetto al dollaro), gonfiato la bolla speculativa che prima o poi deve scoppiare; il collasso delle industrie tradizionali turche ne è la premessa causale e l’implicazione fenomenica. Quindi si è aggravato il problema della distruzione di posti di lavoro (con la disoccupazione ufficiale che ha superato il 10% e con salari reali in costante diminuzione). Parallelamente al debito estero – come impongono i dettami dell’imbecillità economica dominante – è cresciuto paurosamente il debito pubblico (70% del pil). Il Fmi ha perciò imposto al governo turco un intervento di controllo stretto del disavanzo del bilancio interno, impedendo così di fare gli investimenti necessari, ma dando libertà di “caccia” al capitale speculativo straniero. Il confronto con la situazione creata dagli Usa in Argentina è quindi evidente e assai preoccupante, e lì, si sa, ha fatto séguito forse la più drammatica crisi della storia in un paese una volta ricco. Anche la crescita dell’Argentina, infatti, fu innescata dall’afflusso di capitali speculativi stranieri (con la complicità di borghesia compradora e governo locali) il che condusse pure a una sopravalutazione valutaria. I politici locali, al servizio della potenza usamericana, creano un’economia che progredisce in direzione di una bolla speculativa»[3]. Visto l’andamento altalenante di questa economia, indebitatissima e spesso sull’orlo del precipizio, si può sospettare che le perplessità manifestate da una parte della grande borghesia europea all’ingresso della Turchia nell’Unione non siano fondate tanto su ragioni ideologiche, culturali, religioso-identitarie o persino politiche, quanto sulla valutazione dell’impatto che questa struttura squilibrata potrebbe provocare sull’insieme dell’economia della UE.

NOTE

1 Così Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995, p. 541.

2 Cfr. Jean Pestieau, Perché il partito comunista turco è contro l’ingresso della Turchia nell’Unione europea?, in www.resistenze.org, 24 – 12 – 2004.

3 Cfr. La contraddizione – bimestrale di marxismo, Roma, n. 108, maggio-giugno 2005.

* Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione al libro di Uberto Tomma, Turchia – tulipani rossi, Edizioni Achab, Verona, 2007.