A guerra permanente conflitto sociale permanente

L’invio di truppe italiane in Afghanistan ha drasticamente mutato l’orientamento di una gran parte degli italiani nei confronti della guerra: se, prima, l’adesione ad essa aveva raggiunto – per quanto attendibili si possano ritenere i numerosi sondaggi – anche punte del 70%, l’intervento nel conflitto di contingenti italiani ha fatto calare rapidamente il consenso sotto il 50%. Insomma, nonostante la caduta di Kabul e la ritirata dei talebani, oggi almeno un italiano su due vorrebbe vedere terminare subito la guerra, o almeno non ritiene che gli italiani vi debbano partecipare.
Non si tratta certo del mitico e vituperato “mammismo” italico né di generico opportunismo di chi preferisce non rischiare rappresaglie “talebane”. In realtà, settimana dopo settimana è apparso sempre più chiaro, nonostante il bombardamento massmediatico, che non di “operazione di polizia” contro il terrorismo si trattava, ma di una guerra in piena regola, con l’aggravante di svolgersi (a differenza di quella in Jugoslavia, ad esempio) senza confini né spaziali né temporali, mirando essa ad una completa ridisegnazione delle collocazioni strategiche e dei rapporti di forza, in una zona-chiave del conflitto politico ed economico, tra le grandi potenze mondiali, ed in particolare a favore dell’unica superpotenza militare e politica rimasta dopo il crollo dell’Urss, gli Stati Uniti.

I perché della guerra

Non ci sembra che esistano sufficienti elementi per suffragare l’ipotesi, avanzata da varie fonti di stampa indipendente e da studiosi di questioni militari e “spionistiche” a livello internazionale, che l’orrendo attentato delle Twin Towers – un atto di guerra vero e proprio, una specie di bombardamento “non convenzionale”, ben al di là di quanto viene tradizionalmente definito come terrorismo – sia stato agevolato, se non addirittura sollecitato, da forze interne agli Stati Uniti per poter scatenare una guerra per occupare zone di grande rilevanza strategica. Il trauma politico e psicologico che ha colpito gli Stati Uniti, lo svanire rapidissimo di una convinzione di invulnerabilità ed intoccabilità che aveva accompagnato da sempre l’egemonia mondiale Usa, sono eventi che hanno una rilevanza così epocale e sconvolgente da rendere davvero difficile credere ad un “complotto” che possa aver coinvolto le alte sfere del potere Usa.
Certo, però, la dinamica dei fatti lascia pensare che certi “mostri” messi in circolazione proprio dagli Usa abbiano finito per costituire il nemico ideale (come già accaduto con Saddam Husseim e Milosevic) da utilizzare per scatenare una guerra che ha motivazioni in netta prevalenza di natura economica e geopolitica: e non può far escludere a priori che nel terrificante gioco di utilizzo dei gruppi del radicalismo islamico, prima in funzione antisovietica, poi per garantire che altre potenze non si installassero nella zona, le complicità e le interconnessioni tra i servizi segreti abbiano anche potuto favorire in qualche modo l’azione degli attentatori, o perlomeno non abbiano fatto il possibile per impedirla o ostacolarla.
Bisogna innanzitutto, nel valutare le reali motivazioni della guerra, non commettere l’errore di ritenere l’intervento bellico un atto compiuto nei momenti di massima forza di una potenza imperialistica. In realtà, nella storia del capitalismo, la guerra è stata attivata assai sovente nei momenti di debolezza economica o ancor più nelle fasi di declino dell’egemonia economica di uno Stato o di un gruppo di essi.

Estendere la ricchezza: la falsa promessa del capitalismo

Al momento del crollo dell’Urss, l’intero sistema capitalistico aveva pubblicamente esibito la propria massima promessa, quella di estendere la ricchezza di alcuni paesi a tutto il globo e di elevare, seppur con diseguaglianze, il tenore di vita anche di quei tre quarti dell’umanità da decenni nella miseria più nera. La fine degli ostacoli apparenti all’estensione globale del mercato mondiale, della produzione di merci a fini di profitto avrebbe finalmente consentito, questa fu la “vulgata” ideologica dei “padroni del mondo”, il pieno dispiegarsi della potenza del sistema produttivo capitalistico, a beneficio di tutti.
In realtà, e nel giro di pochissimo tempo, queste teorie si sono dimostrate pura utopia. Non solo la ricchezza del mondo occidentale non si è estesa ai tre quarti del mondo, ma al contrario si sono ulteriormente accentuate le differenze economiche: i più ricchi si sono ulteriormente arricchiti e i più poveri, paesi e individui, ancor più impoveriti. Il mercato mondiale delle merci, lungi dall’allargarsi, ha finito per restringersi anche nei paesi ricchi, con l’avvento di nuove povertà: in verità oggi il mercato globalizzato, il luogo cioè dove il cittadino può comprare e vendere, non coinvolge più di un quarto dell’umanità, forse addirittura non più di un miliardo di persone, mentre tutte le altre ne sono irrimediabilmente escluse, non avendo nulla da vendere né i mezzi per comprare alcunché. In tale situazione, il sistema economico capitalistico rischia ad ogni passo una gigantesca crisi da sovrapproduzione: l’apparato produttivo mondiale produce, in tempi sempre più brevi, una quantità sempre maggiore di merci, ma deve venderle ad un numero non crescente di abitanti del mondo i quali, per giunta, posseggono già larga parte dei prodotti indispensabili.

La mercificazione globale e l’utopia liberista

È questa “impasse” che produce da una parte la corsa frenetica alla mercificazione globale, al tentativo terrificante di trasformare qualsiasi cosa – dal cibo geneticamente modificato, alle sementi, dall’istruzione/sapere alla salute, fino alla commercializzazione del corpo umano e del DNA, di qualsiasi “pezzo” di natura, di ogni sentimento, ideale e sogno umano – in merce che possa produrre profitto; e dall’altra, l’impulso guerresco ad abbattere qualsiasi ostacolo alla produzione capitalistica, sia esso di natura politica, militare o economica.
“Porte aperte, o ve le sfondiamo” è la parola d’ordine della “cordata” di Stati, guidati dagli USA, che negli ultimi dieci anni hanno condotto ben quattro guerre, dal Golfo alla Somalia, dalla Jugoslavia all’Afghanistan. Il filo conduttore è la cancellazione di qualsiasi avversario o ostacolo politico, seppur di modeste dimensioni, alla penetrazione economica, all’appropriazione, da parte delle potenze dominanti e degli Usa in primo luogo, delle ricchezze altrui: e contemporaneamente, agisce la volontà di impedire ai concorrenti economici – e cioè a quegli Stati o insieme di Stati che già oggi, o almeno in un lasso di tempo ragionevolmente breve, sarebbero, sul piano puramente economico, in grado di mettere in discussione l’egemonia imperialistica USA, come un’eventuale Europa unita, il Giappone, la Cina, la stessa Russia, una volta uscita dal marasma politico – di crescere e di contestare l’egemonia USA, attraverso una strategia che mira a “strangolare nella culla”, usando lo schiacciante dominio militare, ogni velleità in tal senso.
Oltretutto, non va dimenticato quale potente volano per rilanciare l’economia sia sempre stato, in quest’ultimo secolo, “l’economia di guerra” e cioè i massicci investimenti statuali nella produzione bellica e nei suoi derivati, a maggior ragione quando la produzione di armi è quella che, nell’economia Usa, è stata sempre dominante: nonché il fatto che gli USA hanno il più sbalorditivo debito estero di tutta la storia dell’umanità, qualcosa come 35 milioni di miliardi di lire; e se i principali centri finanziari, statali e privati, richiedessero indietro anche una parte significativa di tale debito, l’economia USA tracollerebbe in pochi giorni. Solo il dominio militare e il controllo politico del mondo garantisce agli Stati Uniti che tale richiesta non divenga operativa, inducendo però gli USA a dover ridimostrare continuamente l’intensità e l’operatività di tale dominio.
La gestione della guerra ha anche dimostrato come il cosiddetto “neoliberismo”, cioè la possibilità del sistema capitalistico di fare a meno dell’intervento statale, affidando tutto al “libero” mercato e alla gestione delle strutture economiche multinazionali o nazionali, sia una pura utopia, un vero e proprio imbroglio ideologico: gli stati, e quello Usa in primo luogo, sono intervenuti massicciamente, dopo l’attentato alle Twin Towers e al Pentagono, per impedire la crisi economica, per finanziare massicciamente i settori economici tracollanti e ovviamente per condurre in prima persona la guerra. Anche la multinazionale più potente non avrebbe alcuna forza reale se non avesse alle spalle uno stato “forte” che, in quanto “capitalista collettivo”, supplisca ai limiti dell’“anarchia capitalistica” dei singoli padroni e fornisca il retroterra politico, economico e militare per il cuore e il cervello dell’impresa, anche se le membra di essa possono essere sparse per il mondo.
In verità il “liberismo” si rivela tale solo nell’assalto ai diritti dei lavoratori: solo per essi vuole abolire le regole e i vincoli e affidare al “libero” mercato il continuo abbassamento dei salari, la distruzione e la privatizzazione dei servizi sociali, della scuola, della sanità, dei trasporti. Ma per se stesso il capitalismo vuole tutele, protezioni, barriere doganali, interventi e sostegni statali, finanziamenti pubblici.
Questo insieme di ragioni spiega perché anche un Irak o una Jugoslavia, che intendano autonomizzarsi in zone politico-militari-economiche di grande rilevanza strategica, e persino una struttura non statuale come la Al Qaeda di Bin Laden divengano ostacoli significativi da abbattere senza limitare i mezzi. Con una precisazione importante per quel che riguarda il cosiddetto “estremismo islamico”: esso è considerato pericoloso in quanto potenziale avanguardia armata di una ben più vasta borghesia araba e islamica che sta valutando seriamente, in questi anni, la possibilità di svincolarsi dall’egemonia statunitense, non certo per contestare/contrastare il capitalismo occidentale e i suoi meccanismi (come una certa propaganda qui da noi vorrebbe far credere, le fandonie sullo “scontro di civiltà” o sul conflitto tra fedi religiose), bensì per ritagliarsi ben più ampi spazi all’interno del sistema economico dominante, utilizzando appieno le proprie ricchezze energetiche. Consapevoli di ciò, gli Usa vogliono invece usare l’”estremismo islamico” per togliere definitivamente alle borghesie islamiche ogni vero controllo sulle proprie ricchezze e passare a gestirle in prima persona, anticipando anche le mosse delle altre, succitate potenze concorrenti.

A guerra permanente, conflitto sociale permanente

Tutto ciò spiega perché parliamo di guerra permanente e globale, al di là degli equilibri/squilibri militari che si vanno determinando in Afghanistan e perché ci siamo tanto battuti, come Cobas, perché l’intero movimento “antiglobalizzazione” (e che noi preferiamo chiamare antiliberista o ancor meglio anticapitalista) si facesse carico di una chiara e consapevole mobilitazione permanente contro la guerra, non “accontentandosi” di una Perugia-Assisi ove la radicalità anti-bellica era miscelata con una serie di profonde ambiguità su ipotetiche “operazioni di polizia internazionale” anti-terrorismo al punto da consentire la partecipazione anche a chi, in Parlamento, aveva votato a favore della guerra, proseguendo nella ignominiosa via già tracciata con l’intervento militare contro la Jugoslavia.
Questo motiva il giustificato orgoglio con il quale abbiamo salutato lo straordinario successo della manifestazione nazionale del movimento a Roma il 10 novembre, al quale abbiamo contribuito in maniera determinante, prima nell’assemblea di movimento a Firenze, ove abbiamo battuto, insieme al Roma Social Forum, ad altri Forum locali e a pochissime realtà nazionali, il tentativo della maggior parte delle organizzazioni nazionali che facevano capo al Genoa Social Forum, nonché di alcuni ex-portavoce, di depotenziare o annullare tale manifestazione: e poi lavorando senza soste per una partecipazione che, per ciò che riguarda i Cobas e il Network per i diritti globali, ha superato le ventimila persone su un totale di oltre centomila presenze: partecipazione che ha ridicolizzato la contemporanea manifestazione pro-guerra dei partiti di governo e messo “ai margini della storia” un centrosinistra mai come ora subordinato al governo, frantumato e incapace di qualsiasi non diciamo opposizione ma almeno pallida autonomia dal centrodestra.
Ma la guerra a tutto campo non è solo militare: come abbiamo scritto nello striscione di apertura del corteo del 10, essa è anche guerra economica e sociale.
E qui in Italia è vero e proprio assalto ai diritti dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati, è rapina di salario, aggressione ai servizi sociali, tentativo di privatizzare e mercificare la scuola e la sanità, i trasporti e l’energia, senza più alcuna finta concertazione o ipocrita “dialogo” con i sindacati concilianti.
Perciò insistiamo affinché si risponda a ”guerra permanente, conflitto sociale permanente”: ogni soldo sottratto ai salari, alle pensioni e ai servizi pubblici, è un soldo dato alla guerra, come ben dimostra quella che abbiamo chiamato Finanziaria di guerra; e viceversa, ogni conquista salariale e sociale sottrae armi e risorse alla guerra. Per questo, abbiamo tenuta ferma l’eccellente mobilitazione della scuola del 31 ottobre, con 30 mila persone in piazza a protestare, contemporaneamente contro la distruzione della scuola pubblica e contro la guerra, per la difesa e il miglioramento dell’istruzione pubblica e per la pace.
E per la stessa ragione abbiamo proposto anche alla Cgil-scuola e agli altri sindacati che hanno scioperato il 12 novembre di tornare in piazza insieme a dicembre per dare una formidabile spallata alla “lady di latta” Moratti, ministra della scuola privata; e nel contempo ci stiamo battendo per lo sciopero generale (che ovviamente assumerebbe e assorbirebbe tutti gli obiettivi della scuola in lotta) contro la Finanziaria, la guerra, il libro bianco di Maroni e la libertà di licenziamento: a maggior ragione quando anche i sindacati concertativi, o almeno una loro parte significativa a partire dalla Fiom, devono prendere atto, loro malgrado, che non c’è più nulla “da concertare” e che dunque il non reagire subito finirebbe per travolgere anche chi, finora, ha cercato di giocare con il “fuoco” della concertazione collaborativa.