Ormai siamo in grado di fare un bilancio. Se la guardiamo dal punto di vista degli interessi operai, non c’è dubbio che la concertazione è stata un completo fallimento anche rispetto ai modesti obiettivi che i sindacati si erano posti: riduzione della disoccupazione e stabilizzazione della quota salari tramite il controllo dell’inflazione. Il controllo dell’inflazione c’è stato, ma la quota salari è diminuita e l’occupazione non accenna ad aumentare (a parte le fesserie di D’Alema, che ci presenta come aumento dell’occupazione la sostituzione di lavoro stabile e a tempo pieno con lavoro precario e a tempo parziale). A questo punto sembra anche legittimo chiederci se gli obiettivi dichiarati fossero quelli veri. E honni soi qui mal y pense chi la considera una domanda retorica. Vorrei spiegare perché la politica dei redditi, almeno il tipo basato sulla concertazione all’italiana, non può funzionare come politica di difesa operaia, ma può funzionare molto bene come politica di difesa dei profitti; soprattutto vorrei spiegare in che modo può funzionare come politica di controllo dell’inflazione.
La teoria neokeynesiana ortodossa della politica dei redditi
I libri di testo sostengono che esiste un legame stretto tra inflazione e disoccupazione. Se i salari fossero perfettamente flessibili verso il basso, non ci potrebbe essere disoccupazione volontaria. Appena sorgesse un po’ di disoccupazione, il mercato del lavoro funzionerebbe in modo da ridurre i salari reali. In questo modo diminuirebbe il costo del lavoro e le imprese sarebbero indotte ad aumentare produzione e domanda di lavoro. Nella realtà però – dicono sempre i libri di testo – i salari sono rigidi in termini nominali, perché i sindacati si ostinano a non accettare riduzioni del salario monetario. No problem: basta che le autorità monetarie espandano l’offerta di moneta. In questo modo verrebbe creata l’inflazione necessaria per far diminuire i salari reali e l’economia verrebbe spinta comunque verso la piena occupazione. Il governo farebbe gli interessi degli operai, spingendo l’economia verso la piena occupazione. Ma potrebbe ottenere questo risultato solo ingannandoli, cioè facendo aumentare il costo della vita più di quanto i sindacati hanno fatto aumentare i salari monetari. L’unico problema è che per ridurre la disoccupazione bisogna aumentare l’inflazione. Ciò sostanzialmente dice la curva di Phillips. Ma questo dilemma può essere evitato. In che modo? Con la politica dei redditi. Che dovrebbe funzionare così: sindacati, governo e Confindustria si mettono intorno a un tavolo; concordano un tasso d’inflazione programmato; i sindacati si impegnano a moderare le richieste salariali; gli imprenditori a moderare l’aumento dei prezzi; il governo a spingere l’economia verso la piena occupazione. Se i salari monetari aumentano a un tasso pari all’aumento della produttività del lavoro più l’inflazione programmata, e le imprese non cercano di approfittarne, i prezzi dovrebbero crescere proprio al tasso programmato. Il costo del lavoro e la quota salari sul reddito nazionale resterebbero costanti. Se poi si vuole un aumento dell’occupazione, basta che i salari crescano meno della produttività reale. Per ottenere quest’ultimo risultato è necessario che: o il governo e gli industriali facciano crescere l’inflazione più del tasso programmato, o i sindacati facciano crescere i salari monetari meno di quanto necessario per mantenere inalterata la quota salari. Ora, cosa è successo in pratica in Italia dopo gli accordi di luglio, cioè dopo che è stata avviata la politica dei redditi concertata? È successo che l’inflazione è stata ridotta, come prevedeva la teoria; i salari reali sono cresciuti meno della produttività, come prevedeva la teoria; ma l’occupazione non è aumentata, proprio il contrario di quanto prevedeva la teoria. Il fatto è che la teoria è sbagliata. Vediamo meglio.
L’occupazione non è alimentata dalla flessibilità
Per flessibilità si intendono sostanzialmente due cose: flessibilità dei salari reali e flessibilità della schiena dei lavoratori al comando del capitale. La flessibilità in quest’ultimo senso è ciò che una volta si chiamava più propriamente “torchiatura”: abbattimento delle difese sindacali, legali e istituzionali all’aumento dello sfruttamento. Che la flessibilità non sia la strada maestra alla ripresa dell’occupazione è stato ormai dimostrato anche empiricamente e da fonte non sospetta (ad esempio: OECD, Employment Outlook, giugno 1999). Questo per altro è il nocciolo della critica che gli economisti postkeynesiani rivolgono a quelli neokeynesiani da almeno 40 anni. In poche parole, tale critica sostiene che non è vero ciò che prevede una magnifica parabola neokeynesiana: che una riduzione del costo del lavoro (cioè un aumento del salario reale inferiore a quello della produttività) indurrebbe le imprese ad aumentare l’occupazione per sostituire macchine con lavoro. Il cambiamento tecnico non è causato dal costo relativo dei requisiti produttivi, ma dal processo innovativo; e questo non tende normalmente a sostituire macchine con lavoro, semmai il contrario! L’occupazione dunque non è influenzata dal costo del lavoro. Dipende in realtà dal tasso di crescita della produzione, il quale, a sua volta, dipende dall’andamento della domanda aggregata. Ma la domanda aggregata è regolata politicamente. È il governo che determina il tasso di crescita della domanda effettiva e del reddito nazionale, ciò che può fare tramite la crescita della spesa pubblica.
Il conflitto distributivo e l’inflazione
E veniamo al problema dell’inflazione. Al livello macroeconomico la crescita del salario monetario è influenzata soprattutto da tre fattori: il tasso d’inflazione, la variazione dell’occupazione e il grado di “militanza autonoma”. In altro articolo (“Wages, employment and militancy: a simple model and some empirical tests”, Review of Radical Political Economics, Vol. 32, N. 2, giugno 1999) ho stimato l’intensità di queste influenze per l’Italia, la Francia, la Germania, il Regno Unito e gli Stati Uniti nel periodo che va dai primi anni ’60 ai primi anni ’90.
La dipendenza dei salari dall’inflazione è ovvia. Il recupero del costo della vita avviene dovunque, con o senza scala mobile. È parziale quasi ovunque, con o senza scala mobile. È del 65% in Francia, del 69% in Italia, del 49% in Gran Bretagna e del 77% negli USA. Solo in Germania è totale. La dipendenza dei salari dalle variazioni dell’occupazione è meno ovvia. Non ha comunque niente a che fare con la domanda e l’offerta di lavoro. I salari vengono determinati tramite il negoziato in un processo conflittuale il cui esito dipende dei rapporti di forza. Le variazioni dell’occupazione incidono sulla paura di perdere il posto di lavoro. Quando sono negative, questa paura è grande e gli operai moderano le rivendicazioni (e le lotte). Perciò i salari flettono. Se non operassero gli altri due fattori, per ogni riduzione dell’1% dell’occupazione i salari diminuirebbero dello 0,56% in Francia, dell’1,19% in Germania, dello 0,94% in Italia, dello 0,32% in Gran Bretagna e dello 0,34% in USA. La militanza autonoma è misurata dalle ore di lavoro perdute per l’attività di sciopero. È definita come “autonoma” nel senso che non dipende da nessuna delle altre variabili summenzionate.
Così i dati sugli scioperi sono depurati da quella parte dei conflitti di lavoro che è influenzata dalle variazioni dell’occupazione. La militanza autonoma misura l’autonomia operaia, la combattività che si manifesta indipendentemente dal ciclo economico. È ad essa che ci si riferisce quando si dice che il salario è un variabile indipendente. I dati empirici mostrano che effettivamente il salario è una variabile almeno parzialmente indipendente. L’aumento di un punto di militanza autonoma fa aumentare i salari dell’1,34% in Francia, del 2,9% in Italia, dello 0,64% in Gran Bretagna e dell’1,19% negli USA (dello 0.003% in Germania, ma questo dato è scarsamente significativo). Il processo inflazionistico è sostenuto dal conflitto distributivo. Se ad esempio aumenta la bolletta petrolifera e i capitalisti non vogliono ridurre i profitti, aumenteranno i prezzi. Se i lavoratori non vogliono essere loro a pagare interamente la bolletta petrolifera, chiederanno aumenti salariali in risposta all’aumento del costo della vita. Dopo di che, prezzi e salari potranno rincorrersi per un periodo più o meno lungo.
L’inflazione continuerà a crescere finché le parti sociali non si mettono d’accordo su come ripartirsi il costo della bolletta. Come si fa a convincere gli operai a moderare le pretese? Si fa con la paura, cioè con la riduzione dell’occupazione. Se, per di più, i sindacati collaborano col governo e la Confindustria, si può abbassare anche il grado di militanza autonoma. Quando l’occupazione e la militanza si sono ridotte al punto da stabilizzare l’inflazione, l’economia ha raggiunto un equilibrio. Insisto: non è un equilibrio di domanda e offerta, ma un bilanciamento di paura e militanza. È così che si è domata l’inflazione in Italia: Maastricht ha agito sulla paura, i patti di luglio sulla militanza.
Ecco perché la concertazione non ha (o meglio, ha) funzionato
La politica dei redditi basata sulla concertazione è stata efficace, come politica anti-inflazionistica, in virtù di un trucco e un inganno. Il trucco: Confindustria promette il rallentamento dei prezzi se i sindacati garantiscono la moderazione salariale; ma i salari sono decisi centralmente, i prezzi no; i primi sono fissati al tavolo delle trattative, dove i lavoratori non hanno voce in capitolo, i secondi sono fissati dalle imprese, dove Confindustria non ha voce in capitolo; Confindustria ha promesso una cosa che non è alla sua portata. L’inganno: subito dopo la firma del secondo patto di luglio la Banca d’Italia ha deciso una spaventosa svalutazione della lira che ha avuto l’effetto di trasferire massicciamente soldi dalle tasche dei lavoratori a quelle delle imprese. È così che si è riusciti ad incidere sul salario reale. Ed è stata la conseguente diminuzione del costo del lavoro che ha consentito di domare l’inflazione. La concertazione non ha funzionato invece come politica per la ripresa dell’occupazione. E ciò in virtù di un altro trucco e un altro inganno. Il trucco è quello teorico che ho descritto sopra.
Gli “scienziati” garantiscono che la flessibilità porta alla piena occupazione, i politici e la Confindustria fanno finta di credergli, i sindacati gli credono (voglio essere buono), gli operai si attaccano: quota salari più bassa e disoccupazione più alta (per non parlare dei profitti). L’inganno è servito a fregare quelli che non credono alla magnifica parabola e pensano che il governo deve attivamente impegnarsi con le politiche macroeconomiche per le ripresa dell’occupazione. Effettivamente alcuni esponenti delle forze politiche e dei poteri istituzionali che contano si erano impegnati in tal senso. In cosa è consistito questo inganno? Si è promessa una generica politica per l’occupazione, ma si è firmato un trattato di Maastricht che limita fortemente la capacità di fare politiche macroeconomiche per la piena occupazione.
Contro la concertazione
I lavoratori non hanno bisogno di nessuna concertazione per decidere le rivendicazioni salariali, e devono rifiutare qualsiasi proposta di politica dei redditi basata sulla magnifica parabola. E a chi insiste che il movimento operaio deve farsi carico del controllo dell’inflazione, si può rispondere che i lavoratori, se proprio vogliono, la politica dei redditi possono farla da soli, senza dover concertare nulla col governo e la Confindustria. Come potrebbero fare ciò? Basterebbe che i sindacati annunciassero che d’ora in poi, per le rivendicazioni salariali, si atterranno alla seguente regola:
dw dy dp dF dL
—- – —- – —- = a ( —- – —- )
w y p F L
dove w è il salario monetario, y la produttività del lavoro, p il livello dei prezzi, F la forza lavoro e L l’occupazione. Il membro di sinistra dell’equazione rappresenta il saggio di variazione del salario meno il saggio di variazione della produttività del lavoro e meno il saggio di variazione dei prezzi: il tutto equivale al saggio di variazione della quota salari. Il membro di destra rappresenta la differenza tra il saggio di variazione della forza lavoro e il saggio di variazione dell’occupazione (il che equivale al saggio di variazione del tasso di disoccupazione) moltiplicato un certo parametro a.
L’equazione dice che:
a) se l’economia cresce in piena occupazione (cioè se dF/F=dL/L e la disoccupazione esistente è puramente frazionale), o almeno se la disoccupazione non aumenta, i lavoratori manterranno stabile la quota salari e quindi l’inflazione;
b) se aumenta la disoccupazione (cioè se dF/F>dL/L), per ogni punto percentuale di aumento del tasso di disoccupazione i lavoratori pretenderanno un aumento della quota salari di una percentuale pari ad a>0, innescando in questo modo la spirale inflazionistica;
c) se il tasso di disoccupazione diminuisce, i lavoratori saranno disposti ad accettare una riduzione della quota salari, con ciò disinnescando la spirale inflazionistica.
L’adozione di un formula del genere come regola di condotta modificherebbe la natura dell’accumulazione capitalistica e la regole del governo dell’economia. Rivoluzionerebbe anche la teoria economica. Infatti sovvertirebbe la curva di Phillips: il governo saprebbe che l’unico modo per ridurre l’inflazione è di ridurre la disoccupazione, e sarebbe così costretto ad assumere un ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. In questo modo le politiche per la piena occupazione verrebbero endogenizzate. Sarebbe una specie di contro-Maastricht. Mentre il trattato per l’Unione Monetaria (e il patto di stabilità) vincolano il governo a non fare politiche per la piena occupazione, la regola che ho suggerito lo vincolerebbe a farle. A scanso di equivoci vorrei mettere in chiaro che non è la vecchia tesi della ‘tregua salariale’, nella quale i sindacati danno oggi moderazione salariale per avere in futuro una crescita dell’occupazione. Si tratta invece di un quadro teorico in cui la politica dell’occupazione e della distribuzione del reddito, nel breve e nel lungo periodo, la farebbe autonomamente il movimento operaio. Faccio peraltro notare che quella regola può essere formulata in modo tale che la quota salari di lungo periodo non sia arbitraria, ma sia decisa dal movimento operaio. Ad esempio, se si volesse farla aumentare il coefficiente a sarebbe fissato in modo tale da risultare maggiore di 1 se dF/F>dL/L e minore di 1 se dF/F