1917- 2007 A novant’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre

*storico

Leggendo dei classici della storiografia sulla Rivoluzione d’Ottobre, come le opere di E. H. Carr o C. Hill, si rimane colpiti dalla comprensione profonda e dall’apprezzamento convinto che questi autori – il primo dei quali inizialmente era solo un liberale – avevano per la Rivoluzione, la figura di Lenin e l’esperienza sovietica: un apprezzamento che oggi, in Occidente, forse abbiamo solo noi comunisti, ma che fino a trent’anni fa era un dato acquisito per buona parte della cultura e dello stesso senso comune di massa. Uno dei nostri compiti più importanti è dunque quello di ricostruire questa memoria storica, questo senso comune, questa egemonia. Solo restituendo all’Ottobre e all’esperienza sovietica il loro valore storico, infatti, potremo riscattare la parola comunista, e solo così potremo tornare a porre l’obiettivo di un altro sistema sociale e politico, più evoluto, più rispondente agli infiniti progressi tecnologici e scientifici che vi sono stati in questi 90 anni, e più adeguato ad affrontare le emergenze sociali e ambientali del mondo di oggi. Perché questo è uno dei significati più importanti di quella esperienza: per la prima volta, l’umanità ha tentato di liberarsi dallo sfruttamento, ma soprattutto di superare una condizione che la vede schiava di processi economici che non controlla, e ha tentato di sottomettere i meccani – smi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata delle masse. Come scrive Carr, “il leninismo è il marxismo dell’epoca non più delle leggi economiche obiettive e inesorabili, ma della regolazione cosciente di processi economici e sociali”, e quella russa “fu la prima rivoluzione della storia che cercò d’instaurare la giustizia sociale mediante controlli economici organizzati dall’azione politica”[1]; insomma di superare il caos della società capitalistica attraverso l’opera di una razionalità pubblica organizzata. Per questo l’Ottobre e l’esperienza sovietica sono figli del razionalismo, dell’Illuminismo, di quanto di meglio ha prodotto quella “civiltà occidentale” di cui i neo-cons blaterano. Si sa che quella esperienza non fu compiuta sulla base di quel massimo sviluppo delle forze produttive capitalistiche, che per Marx ed Engels era il “presupposto pratico assolutamente necessario” per il comunismo, poiché “senza di esso si generalizzerebbe soltanto la mise – ria”, e poiché solo uno sviluppo “universale” delle forze produttive può creare tra gli uomini le interdipendenze necessarie al socialismo[2]; condizioni esistenti oggi, ma non all’inizio del Novecento, e tanto meno in Russia. Questo esperimento, invece, fu avviato “in un paese economicamente arretrato con un proletariato numericamente scarso […] relativamente disorganizzato” e poco istruito, un paese a grande maggioranza contadina, “con risorse umane e materiali penosamente inadeguate”[3]. E tuttavia già dopo pochi mesi – come scrisse Lenin – la Russia sovietica aveva fatto più di ogni altro paese “per far partecipare gli operai e i contadini poveri alla gestione dello Stato”[4]. I bolscevichi avevano mantenuto le promesse: pace immediata, abolizione della proprietà fondiaria, potere ai soviet, controllo operaio sulla produzione e la compravendita di merci e materie prime. E in poco tempo – nonostante l’intervento delle potenze straniere, i sabotaggi, la guerra civile – “il proletariato russo riuscì a formare un potente esercito, a sviluppare le industrie di guerra, a costruire il suo Stato”[5] “La maggioranza della popolazione – dovette ammettere il gen. Ironside – simpatizzava per i bolscevichi”[6].

Oggi, al contrario, la Rivoluzione d’Ottobre viene descritta come un “colpo di mano”, un putsch contro il volere della maggioranza della popolazione. Questo è falso. Sul piano teorico, già nell’aprile 1917 Lenin sottolinea che “per giungere al potere, gli operai coscienti devono conquistare la maggioranza […]. Non siamo dei blanquisti – aggiunge –, non siamo dei fautori della conquista del potere per opera di una minoranza. Siamo dei marxisti, fautori della lotta di classe proletaria […]”. Al centro della sua riflessione di questi mesi sta il potere dei soviet, di questi organi creati dalle masse sulla base dell’“iniziativa diretta, locale, dal basso”[7]. E proprio sulla base della forza dei soviet, Lenin ritiene addirittura possibile “una rivoluzione pacifica”, ossia un passaggio indolore del potere al proletariato e ai contadini; possibilità che esclude dopo i moti di luglio in cui mezzo milione di lavoratori chiede “tutto il potere ai soviet”, subendo la dura repressione del governo provvisorio[8]. Dopo il tentato colpo di Stato di Kornilov, respinto grazie alla determinazione dei bolscevichi, questi ultimi conquistano la maggioranza nei soviet delle città e nell’esercito, e perfino alle elezioni per la Duma ottengono circa il 50% dei voti; intanto la “guardia rossa” di Pietrogrado raggiunge i ventimila elementi, e alla vigilia della presa del potere sono decine di migliaia le persone mobilitate sulle parole d’- ordine bolsceviche[9]. È a questo punto che Lenin dice a chiare lettere: I bolscevichi devono prendere il potere, poiché “la maggioranza attiva degli elementi rivoluzionari popolari delle due capitali basta a trascinare le masse” [10]. Ma ancora una volta ribadisce la sua convinzione: “Per riuscire, l’insurrezione deve appoggiarsi non su di un complotto, non su di un partito, ma sulla classe progressiva”[11]. La rivoluzione, cioè, o è un fatto di massa ed esprime una volontà cosciente delle masse, o non è. E non a caso la presa del potere avviene in modo quasi incruento, proprio perché esprime un mutamento di rapporto di forza tra le classi maturato nei mesi precedenti[12]. Tutto il contrario, dunque, di un colpo di mano. La straordinarietà dell’Ottobre sta anzi proprio in questa fusione tra Partito e masse. Scrive Victor Serge: “Quello che tutti vogliono, il partito lo esprime in termini chiari, – e lo fa. […] Il partito è il legame che li unisce tra di loro, da un capo all’altro del paese […] è la loro coscienza, la loro organizzazione. […] Diventa impossibile distinguere tra il partito e le masse. È una sola ondata. […] I bolscevichi, grazie alla loro giusta concezione teorica […] si identificano insieme con le masse lavoratrici e con la necessità storica”[13]. Questo rapporto organico tra le masse e l’organizzazione politica è forse la lezione più significativa dell’Ottobre; una lezione attuale e utile anche per noi.

Si tratta peraltro di un elemento legato alle questioni della democrazia e della partecipazione. All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua “uno dei compiti più importanti” nello “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai […] e di tutti gli sfruttati […] nel campo dell’organizzazione”, sapendo che “il lavoro di organizzazione è anche alla portata di un co – mune operaio o contadino che sa leggere e scrivere”, e “la forza […] della rivoluzione d’Ottobre […] è che essa suscita queste qualità, abbatte tutte le vecchie barriere […] fa entrare i lavoratori nella via dove creano essi stessi la nuova vita”[14]. Occorre però risolvere enormi problemi teorici e pratici. Il potere sovietico, infatti, “non eredita rapporti [sociali] già pronti”, e allora “l’organizzazione di un censimento, il controllo delle aziende più importanti, la trasformazione di tutto il meccanismo economico statale in una sola grande macchina” che funzioni sulla base di “un piano unico”, diventano priorità assolute[15]. “La difficoltà principale”, dunque, “è nel campo economico”, ma è soprattutto come “socializzare effettivamente la produzione”. Lenin prova a dare una risposta: “Lo Stato socialista – scrive – può sorgere unicamente sotto forma di una rete di comuni di produzione e di consumo che registrino […] la loro produzione e il loro consumo, economizzino il lavoro, ne elevino continuamente la produttività, riuscendo così a ridurre la giornata lavorativa a sette, sei ore e anche meno”[16]. Nulla è più lontano dal burocratismo, e al tempo stesso la necessità di un enorme apparato che controlli e gestisca la produzione e la distribuzione delle merci è affermata chiaramente: ma, appunto, non è un apparato in senso classico, non è un corpo separato di tecnici o funzionari; è un apparato di massa, composto di lavoratori, a loro volta membri dei soviet. E Lenin lo spiega: “La lotta contro la deformazione burocratica dell’organizzazione sovietica è garantita dalla solidità dei legami che uniscono i Soviet con il ‘popolo’ […]”. In questo senso, “il carattere socialista della democrazia sovietica” sta nel fatto che “si crea una migliore organizzazione dell’avanguardia dei lavoratori, cioè del proletariato della grande industria, […] che gli permette di assumere la direzione della più larghe masse di sfruttati, di farle partecipare a una vita politica indipendente, di educarle politicamente sulla base della loro stessa esperienza […] in modo che realmente tutta la popolazione impari a governare”[17]. Questa è la concezione di Lenin e dei bolscevichi, ed è una concezione non solo di democrazia diretta, ma direi di democrazia integrale. In questo senso il sindacato era “cinghia di trasmissione” fra il partito e i lavoratori, non nel senso banale che viene propagandato di un sindacato al servizio del partito, ma di un sindacato che veicolasse gli orientamenti delle masse, collaborasse alla pianificazione, organizzasse il controllo dei lavoratori sul partito e sullo Stato, e al tempo stesso fosse una “scuola di comunismo” e una “scuola di amministrazione dell’industria socialista”, formando e promovendo “alle cariche di amministratori gli operai e, in generale, le masse lavoratrici”[18]. Inoltre, quando si legge Lenin che parla di “una rete di comuni di produzione e di consumo” in grado di registrare la loro attività, elevare la produttività e ridurre la giornata lavorativa, non si può non pensare quanto questo sarebbe più facile oggi, con lo sviluppo delle forze produttive e delle tecnologie informatiche: sviluppi che consentono la produzione just in time, che hanno portato la precarietà del lavoro ma potrebbero favorire la sua liberazione; tecnologie che permettono ai gruppi privati di pianificare la produzione, essendo informati in tempo reale su quanti e quali prodotti sono venduti. Come sarebbe più facile oggi conciliare la pianificazione economica con l’andamento della domanda! Per Lenin “il socialismo è inconcepibile senza la tecnica della grande industria capitalista, organizzata secondo l’ultima parola della scienza moderna”[19]. “In confronto al capitalismo – aggiunge – il comunismo è la più elevata produttività del lavoro di operai volontari, coscienti e uniti, che si servono della tecnica più progredita”. Non è (solo) una questione quantitativa, dunque. “Il comunismo comincia là dove appare la preoccupazione disinteressata […] dei semplici operai di aumentare la produttività del lavoro, di salvaguardare ogni pud di grano, di carbone, di ferro” a beneficio della “società nel suo complesso”[20]. È uno sviluppo produttivo, economico e culturale insieme, ed è legato ai problemi della democrazia e della partecipazione. “Combattere sino in fondo il burocratismo – scrive infatti Lenin – […] si può unicamente se tutta la popolazione partecipa alla gestione. Nelle repubbliche borghesi […] la legge stessa lo impedisce”; in Russia, invece, il problema è quello del “basso livello di cultura” delle masse, che ostacola il loro protagonismo e rende necessario “un lungo lavoro di educazione”[21].

Lenin inoltre sa che in vaste zone del Paese vigono “rapporti precapitalistici” e prevale la “piccola produzione”. Proprio per questo promuove la Nuova Politica Economica, afferma che lo Stato proletario deve passare attraverso lo scambio mercantile fra prodotti agricoli e industriali, la “ricostruzione della piccola industria”, le “concessioni” a privati anche stranieri, per poi andare – attraverso la modernizzazione, l’elettrificazione e il capitalismo di Stato – verso il socialismo[22]. La sua ora è una riflessione autocritica sulle fughe in avanti del “comunismo di guerra”, e in generale più consapevole della complessità della transizione. Il primo obiettivo è quello di avviare la modernizzazione del Paese, sapendo che dal socialismo la Russia è separata da un abisso ma pure che occorre “gettare un ponte” su questo abisso, ponendo le basi dello sviluppo, a partire dalla creazione di un nuovo “apparato statale” e di partito che possa dirigere questa trasformazione[23]. Né ovviamente questo comporta un diverso giudizio sulla Rivoluzione. A chi ripropone la tesi menscevica secondo cui, mancando le condizioni per il socialismo, i bolscevichi non avrebbero dovuto prendere il potere, Lenin replica: “Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzitutto quelle premesse della civil – tà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso il socialismo?”[24]. E sull’importanza del nuovo Stato sovietico nonostante i suoi difetti, aggiunge: Per la prima volta è stata scoperta una forma non borghese di Stato. Può darsi che il nostro apparato sia scadente, ma si dice che anche la prima macchina a vapore fosse scadente; non si sa neppure se funzionasse o no… Ma l’importante è che ora abbiamo le macchine a vapore. Per quanto scadente possa essere il nostro apparato statale, esso è stato creato; è stata fatta la più grande invenzione della storia, è stato creato un tipo di Stato proletario[25].

Accanto alla costruzione di un apparato statale adeguato, Lenin individua subito le altre priorità del potere sovietico, ossia l’industrializzazione e il rapporto coi contadini. Quest’ultimo è l’asse decisivo della Rivoluzione russa. Scrive Lenin: “Solo se, nella pratica, riusciremo a provare ai contadini i vantaggi dei metodi sociali, collettivi, cooperativi […] la classe operaia […] potrà realmente […] esercitare la sua influenza” [26]. Egli distingue nel mondo rurale un proletariato agricolo, i contadini poveri, quelli medi e quelli ricchi, i cosiddetti kulaki. Solo per sconfiggere la eventuale resistenza di questi ultimi ammette l’uso di metodi coercitivi, mentre con gli altri va consolidata l’alleanza evitando “modi da caporale”, promovendo la loro organizzazione collettiva e “un lungo lavoro educativo”[27]. E all’VIII Congresso del Partito aggiunge: “Agire in questo campo con la violenza, significa rovinar tutto. Qui occorre un lungo lavoro di educazione. Al contadino […] dobbiamo offrire esempi concreti per provargli che la ‘comune’ è migliore di ogni altra cosa”, ed essa va organizzata “in modo da conquistare la fiducia del con – t a d i n o”, mirando a ottenerne “il consenso volontario” a farne parte. “Se potessimo domani dare centomila trattrici […] allora il contadino medio direbbe: ‘Io sono per la comune’ (cioè per il comunismo). Ma per far questo, bisogna prima vincere la borghesia internazionale, […] oppure bisogna elevare a nostra produttività in modo che possiamo fornirle noi stessi”[28]. Anche dopo la morte di Lenin, il Partito bolscevico rimase fedele a questa impostazione. Nel 1927-28 furono costruite le prime grandi fabbriche e stazioni di trattori per modernizzare le campagne, ma la priorità era ancora dell’industria leggera. Al XV Congresso, che pure lanciò ‘un’offensiva contro il kulak’, Molotov ribadì la necessità di uno “sviluppo graduale di grandi fattorie collettive”, escludendo scorciatoie e metodi coercitivi, e lo stesso Stalin fu su questa linea. Nel 1929 si discusse della possibilità di ammettere anche i kulaki nei kolchoz. ‘Né terrore né dekulakizzazione – titolava la “Pravda” – ma un’offensiva socialista nella direzione della NEP’[29]. È chiaro, d’altra parte, che la questione era legata a quella dello sviluppo industriale. Nel 1922 Lenin aveva affermato: “Se non si riorganizzerà l’industria pesante, non potremo costruire nessuna industria: e senza l’industria noi, come paese indipendente, periremo”[30]. Secondo Carr, questo pericolo tornò a essere avvertito in modo acuto nel ’27, con la sconfitta comunista in Cina e la rottura con la Gran Bretagna. Fu allora che si puntò decisamente sull’industrializzazione, e in particolare sull’industria pesante, anche per modernizzare un’agricoltura che cresceva troppo piano e nella quale andava riformandosi l’elemento borghese. “O l’industria nazionalizzata […] riusciva a subordinare a sé l’economia contadina e a integrarla in un sistema pianificato […] oppure la resistenza dei contadini si sarebbe rivelata invincibile”. La crisi dei raccolti, parte dei quali veniva nascosta per far lievitare i prezzi, fece il resto, avviando la lotta a kulaki e speculatori e la collettivizzazione accelerata dell’agricoltura, che si radicalizzò in corso d’opera[31]. Una cosa simile accadde per l’industrializzazione. Avviata inizialmente ‘a passo di lumaca’ e privilegiando l’industria dei beni di consumo, a seguito delle crisi agricole e del crescente isolamento internazionale essa subì una netta accelerazione, e procedette assieme alla pianificazione economica. Ha scritto Carr: “Il successo di questa campagna”, che pure ebbe costi umani altissimi, ma “in trent’anni, partendo da una popolazione semianalfabeta di contadini arretrati, portò l’URSS al livello del secondo paese industriale del mondo […] è forse il più significativo di tutti i successi della rivoluzione russa”, accompagnandosi all’aumento della durata media della vita, al diffondersi dell’istruzione, alla costruzione di una rete enorme di servizi sociali. “Nel giro di cinquant’anni, un popolo primitivo e arretrato è stato messo in condizione di costruire con le proprie mani un nuovo tipo di vita e una nuova civiltà. L’ampiezza, la grandiosità e la velocità di questa avanzata […] non hanno eguale”[32].

Occorre dunque restituire alla Rivoluzione d’Ottobre e all’esperienza sovietica la loro grandezza, assieme ai limiti oggettivi e soggettivi che pure non mancarono. E se sul piano economico i successi sono di gran lunga superiori, sul terreno politico quei limiti furono pesanti. Nei suoi ultimi scritti, Lenin li rilevò lucidamente, soffermandosi sulle questioni della democrazia socialista e sulla necessità di evitare la separazione rappresentanti/rappresentati tipica dei paesi borghesi. Egli osservava che l’apparato statale sovietico “rappresenta al massimo grado una sopravvivenza di quello passato”, e proponeva la riorganizzazione del Commissariato del popolo per l’Ispezione operaia e contadina, finalizzato a evitare appunto quella separazione. Lenin chiedeva di fonderlo con la Commissione Centrale di Controllo del Partito, in modo da garantire anche rispetto al Partito un’azione di vigilanza e verifica ‘senza riguardo per chicchessia’[33]. Nel suo ultimo articolo, ribadì l’obiettivo di “costruire un apparato veramente nuovo che meriti […] il nome di socialista”, sapendo che sarebbe stato necessario “dedicare a questo lavoro alcuni anni” e che esso avrebbe incontrato resistenze e inerzie. Tuttavia Lenin non dimenticava il quadro internazionale in cui avveniva l’esperimento sovietico: Le potenze capitalistiche dell’Europa occidentale – scriveva – […] hanno fatto tutto il possibile per respingerci indietro, per utilizzare gli elementi di guerra civile in Russia al fine di rovinare il più possibile il nostro paese […]. Non rovesciarono il nuovo regime creato dalla rivoluzione, ma non gli permisero di fare subito un passo in avanti tale da […] permettergli di sviluppare con grandissima rapidità le forze produttive, di sviluppare tutte quelle possibilità, che […] avrebbero dato il socialismo, di dimostrare a tutti […] che il socialismo racchiude in sé forze gigantesche e che l’umanità è ora passata ad una nuova fase di sviluppo, che racchiude in sé possibilità magnifiche[34].

Certo, la storia non si fa coi “se”, ma lo stesso Hill osserva: “Se le cose fossero andate diversamente nel 1919, se le risorse industriali e il progresso tecnico dell’Europa centrale fossero stati a disposizione di una unione di repubbliche sovietiche, quante sofferenze umane e quanti sforzi sarebbero stati evitati, alla Russia nel 1920 e al mondo intero dopo l’avvento di Hitler”[35]. Quanto meno difficile – aggiungerei – sarebbe stato il tentativo di transizione al socialismo! In effetti, se alcuni dei problemi sollevati da Lenin (in particolare quelli di tipo economico) furono in parte risolti dal gruppo dirigente staliniano, altri (quelli, ad esempio, del sistema politico) rimasero insoluti e spesso si aggravarono, con tutte le deviazioni dalla “legalità socialista” e le “deformazioni” della società sovietica su cui Togliatti si soffermerà nel 1956[36]. Le stesse contingenze storiche indussero infatti, da un lato ad accantonare le proposte di Lenin, dall’altro ad accelerare la centralizzazione economica e politica; l’obiettivo della modernizzazione della Russia sovietica venne in buona parte raggiunto, ma rimanevano aperti problemi rilevanti relativi al modello di socialismo in costruzione. Oggi quella esperienza si è chiusa, ma i suoi effetti – come quelli della Rivoluzione francese – restano acquisizioni permanenti dello sviluppo storico: il movimento di liberazione dei popoli e il processo di decolonizzazione, le altre rivoluzioni del ’900, l’affermazione di nuovi diritti sociali, ma soprattutto la dimostrazione pratica che un altro sistema economico, un’altra organizzazione della società sono davvero possibili; che pianificare l’economia si può, anche se è molto difficile; che socializzare la produzione si può, anche se bisogna trovare le forme più adeguate a rendere la socializzazione effettiva; che più evolute modalità di partecipazione alla cosa pubblica sono possibili, anche se non irreversibili; che nuovi rapporti tra gli uomini – rapporti di cooperazione costruttiva, anziché di quella competizione individualistica che sta portando il Pianeta alla catastrofe – sono possibili. E l’esperienza ha confermato che la transizione al socialismo è un processo storico, lungo, complesso e tortuoso; che le accelerazioni possono rispondere a delle emergenze ed essere necessarie in alcuni momenti, ma non possono surrogare gli elementi strutturali, il loro sviluppo, la loro maturità. Questi elementi oggettivi, paradossalmente, oggi sono molto più maturi di ieri, mentre le maggiori carenze riguardano il piano soggettivo, quello dell’elaborazione teorica e della proposta politica. Su questo terreno, dunque, occorre impegnarsi.

NOTE

1 E.H. Carr, 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1970, pp. 21, 24.

2 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 25.

3 Carr, 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa, cit., p. 31.

4 V. I. Lenin, Rapporto sul programma del partito presentato all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia, marzo 1919, in Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, p. 1262.

5 V. Serge, L’Anno primo della rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1991, pp. 64-67, 126, 145, 346.

6 C. Hill, Lenin e la rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1979, p. 101.

7V. I. Lenin, Il dualismo del potere [aprile 1917], in Id., Opere scelte, cit., p. 721.

8 V. I. Lenin, Primo Congresso dei deputati operai e soldati di tutta la Russia [giugno 1917], ivi, p. 765; Id., Sulle parole d’ordine [ luglio 1917], ivi, pp. 771-773; Hill, Lenin e la rivoluzione russa, cit., p. 95.

9 Serge, L’Anno primo della rivoluzione russa, cit., pp. 36, 47-51.

10 V. I. Lenin, I bolscevichi devono prendere il potere [settembre 1917], in Id., Opere scelte, cit., p. 843.

11 V. I. Lenin, Il marxismo e l’insurrezione [settembre 1917], ivi, p. 949.

12 Hill, Lenin e la rivoluzione russa, cit., pp. 96-99.

13 Serge, op. cit., pp. 38-39

14 V. I. Lenin, Come organizzare l’emulazione? [gennaio 1918], in Id., Opere scelte, pp. 1028-1033.

15 V. I. Lenin, Rapporto sulla guerra e sulla pace al VII Congresso del PC(b)R [marzo 1918], ivi, p. 1064.

16 V. I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico [aprile 1918], ivi, pp. 1089, 1101.

17 Ivi, pp. 1116-1118.

18 Hill, op. cit., p. 148; V. I. Lenin, La funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova politica economica [gennaio 1922], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1682-1685.

19 V. I. Lenin, L’infantilismo “di sinistra” e la mentalità piccolo-borghese [maggio 1918], ivi, p.1540.

20 V. I. Lenin, La grande iniziativa [luglio 1919], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1304-1305.

21 Lenin, Rapporto sul programma del partito presentato all’VIII Congresso…, cit., pp. 1260-1261.

22 V. I. Lenin, Sull’imposta in natura [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1549-1561.

23 I. Getzler, Ottobre 1917: il dibattito marxista sulla rivoluzione in Russia, in Storia del marxismo, cit., vol. 3*, p. 46.

24 V. I. Lenin, Sulla nostra rivoluzione. A proposito delle note di N. Sukhanov [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1807-1808 (corsivi miei).

25 Cfr. Hill, op. cit., p. 158.

26 Ivi, pp. 76-77.

27 Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico, cit., pp. 1234-1235.

28 V. I. Lenin, Rapporto sul lavoro nella campagna all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia [marzo 1919], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1271-1278.

29 Carr, 1917…, cit., pp. 117-119, 126.

30 V. I. Lenin, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale [ novembre 1922], Id., Opere scelte, cit., p. 1752.

31 Carr, 1917…, cit., pp. 119-131.

32 Ivi, pp. 142-146, 18-19, 201.

33 V. I. Lenin, Come riorganizzare l’Ispezione operaia e contadina [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1809-1813.

34 V. I. Lenin, Meglio meno, ma meglio [marzo 1923], ivi, pp. 1815-1827

35 Hill, op. cit., p. 121.

36 P. Togliatti, Intervista a “Nuovi Argomenti”, maggio-giugno 1956, in Id., Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 702-728. Cfr. Il PCI e il 1956. Scritti e documenti dal XX Congresso del PCUS ai fatti di Ungheria, a cura di A. Höbel, Napoli, La Città del Sole, 2006.