Zipponi: «Il governo deve intervenire per fermare la strage sul lavoro. Se non lo fa, lo si dovrà ob

Domenica 15 aprile, di fronte alla notizia di altri morti sul lavoro, Liberazione ha deciso di lanciare un appello dal titolo “Guerra al lavoro che uccide” che ha già raccolto tantissime adesionI.

Qualche tempo fa, mentre le “morti bianche” non ottenevano che miseri trafiletti sui giornali, abbiamo deciso di dedicare la nostra prima pagina proprio alle donne e uomini uccisi sul lavoro. Non trovi che ci sia qualcosa di “malato” in un paese dove cadere da un’impalcatura, finire schiacciato da una lastra d’acciaio in una fabbrica, venire travolto da un trattore è considerato quasi naturale?
Anzitutto vorrei cancellare un aggettivo: quel “bianche” che solitamente segue alla parola “morti” quando si parla di omicidi sul lavoro. “Bianche” da un’idea di asetticità, toglie spessore a un dramma, ammanta con una patina di pulito un evento devastante e “sporco”, diminuisce la responsabilità di chi l’ha provocato. Per me restano soltanto omicidi. L’incessante susseguirsi delle morti e degli infortuni, sommato al falso assunto secondo cui il bene dell’impresa corrisponde al bene di tutti, ha prodotto una sorta di assuefazione all’orrore, un dare per scontato che sia un inevitabile prezzo da pagare allo sviluppo, un “così è, e non si può fare altrimenti”. Altrimenti si può fare, eccome: dagli accertamenti, infatti, emerge che nel 99% dei casi il rispetto delle norme di sicurezza e l’innovazione tecnologica degli impianti avrebbe salvato la vita dei lavoratori. Altro che fatalità o casualità, altro che distrazione umana: la verità è che per molte imprese, per troppi datori di lavoro, costa meno uccidere che prevenire la morte. Non servono marchingegni che arrivano da un altro pianeta: quello che fa la differenza tra lavoro sicuro e precipitare nel vuoto o finire stritolato da un ingranaggio è già stato inventato, è disponibile sul mercato: solo che è un costo per l’impresa. Un costo che, spesso, l’impresa non vuole pagare.

Anche se solo oggi i media si sono accorti della progressione quotidiana degli omicidi sul lavoro, nei cantieri, nelle fabbriche e nei campi si muore da troppo tempo. Un tempo in cui il paese non è stato governato sempre e solo dal centro destra Oggi è il centro sinistra a governare. Ci si ferma alle buone intenzioni, oppure c’è qualcosa di più e di nuovo?
Alcuni passi sono stati fatti, ad esempio contro il lavoro nero e il caporalato, ma certo non basta. Il consiglio dei ministri ha licenziato un testo unico in materia di sicurezza che verrà discusso a breve dal senato: si tratta di un fatto positivo, ma quel testo ha molti limiti. E’ vero che ordina la materia, che contiene alcune novità significative, ad esempio perché assegna la responsabilità degli infortuni alle ditte appaltatrici e rende più difficile la scandalosa prassi delle imprese di comunicare l’assunzione del lavoratore infortunato con la data del giorno precedente l’incidente. Ma questo non basta, noi chiediamo di più. Ad esempio che venga garantita alle organizzazioni sindacali di costituirsi parte civile nei processi, non solo perché questo deve essere un diritto, ma anche perché non esiste famiglia che possa reggere da sola procedimenti che si protraggono per anni. Chiediamo che l’assistenza legale a chi è stato vittima di infortuni e ai congiunti sia gratuita: perché un lavoratore o la sua famiglia non può permettersi il lusso di pagare i costi di un processo. I datori di lavoro senza scrupoli sono perfettamente a conoscenza di questo “dato di realtà” e ci marciano.
E poi credo sia ora di piantarla, su questo nodo, di premiare i padroni “buoni”: dobbiamo punire severamente chi mette a repentaglio la vita dei lavoratori. Insomma, chiediamo che venga sancito per legge un principio: la sicurezza rappresenta un costo che le imprese sono obbligate a pagare. Senza sconti.

Sei sicuro che per risolvere il problema basti una buona legge? Sei sicuro che questo governo avrà la volontà politica non solo di emanarla ma, anche di impegnarsi perché venga applicata?
No, una buona legge non basta ad affermare che la vita umana non ha prezzo, che non può costare (e quindi valere) meno di una imbragatura. Esistono già le norme per garantire la sicurezza dei lavoratori, ma non vengono applicate. E allora il primo passo da fare è intervenire per potenziare e dotare di strumenti chi è preposto al controllo e alla repressione delle irregolarità (dagli ispettori del lavoro, alle forze dell’ordine, alla magistratura). Dobbiamo cancellare l’idea che quelli sul lavoro siano morti di “serie b” e fare in modo che gli accertamenti vengano fatti con rigore, che le inchieste non siano “di rutine”, che le pene siano severe. Se questo governo non sentirà il dovere di intervenire nettamente e duramente per fermare la strage, per stabilire il principio indiscutibile della salvaguardia della vita dei lavoratori, lo si deve obbligare. Alle discussioni e al voti nelle aule parlamentari deve affiancarsi la forza dirompente e determinante di una grande mobilitazione nel paese, di un risveglio delle coscienze capace di sgretolare l’idea perversa per cui di lavoro e sul lavoro si muore e non c’è nulla da fare.

Per provocare questa sorta di ribellione all’ineluttabilità del massacro basta l’attenzione dei media che così come amplificano un evento sono capaci di farlo tornare nell’oblio? Autorevoli esponenti delle istituzioni si sono espressi con parole forti. E’ un fatto inedito e più che positivo, e poi…. ?
Il presidente della Camera non si è limitato a denunciare un problema, ha messo l’accento sulla necessità di una forte azione collettiva: certo che questo non è sufficiente, ma ha un peso. Perché, passato il momento, non si torni a morire in silenzio, deve avere volto e parola chi ha subito. Devono emergere le storie di chi si è visto stravolgere per sempre l’esistenza, di chi è rimasto mutilato non solo nel corpo, delle compagne e dei compagni, delle figlie e dei figli di chi ha perso la vita. Di chi ha provato e prova il dolore di un’assenza, di coloro a cui un sistema di valori alla rovescia ha rovinato presente e futuro. Per Rifondazione il 12 maggio sarà la “Giornata in difesa della vita di chi lavora”. Abbiamo scelto Taranto, come tappa simbolica della nostra mobilitazione e abbiamo deciso di non organizzare un convegno solo tra esperti, ma un momento in cui ascoltare i racconti di chi, suo malgrado, è stato segnato da un incidente sul lavoro.
Taranto perché lì c’è l’Ilva (ossia il più grande centro siderurgico d’Europa) con i suoi giovanissimi operai che hanno molte probabilità di “farsi male, nonostante il protocollo d’intesa sulla sicurezza (seriamente voluto dal presidente della regione Puglia) siglato tra sindacato, impresa e istituzione. Ma non c’è solo Taranto, non c’è solo Napoli, Brindisi, non c’è solo il Sud. Perché i lavoratori muoiono in ogni angolo del paese e in ogni angolo del paese devono moltiplicarsi le iniziative. Delle quattro persone uccise ogni giorno, venerdì due sono “toccate” a Brescia. A Brescia, il 3 maggio, sarà sciopero generale. Quattro morti al giorno non si possono più tollerare. Nemmeno tre, ne due, ne uno. Come non si può più tollerare un milione di infortuni denunciati all’Inail (a proposito di cifre, a che numero arriviamo se sommiamo i lavoratori stranieri, i lavoratori precari che, minacciati dalle imprese, si fanno male e non possono dire nulla pena il posto di lavoro?). Se non possiamo, non vogliamo più assistere impotenti alla carneficina, non c’è che una strada: promuovere mobilitazioni nel paese. E fare in modo che non siano solo “roba nostra”, ma che scuotano, che costringano tutti a porsi le domande: è giusta una società che considera i morti sul lavoro una sorta di “effetto collaterale”‘? è giusto che in nome del profitto di pochi si metta a repentaglio la vita? Alle domande devono seguire le risposte e poi l’azione. Con il pianto del coccodrillo non si produce alcun cambiamento.