Zelaya, il liberale che scelse il popolo

Questo piccolo paese centro-americano, con i suoi quasi otto milioni di abitanti e i suoi circa 112.000 kmq, ha sofferto insieme ai suoi fratelli dell’Istmo il peso di una storia di dolori. Povero, molto povero, sopravvive con l’esportazione di prodotti coloniali come caffè e banane. E quella meravigliosa frutta è un marchio di vergogna se ancora pochi anni fa era noto come una “repubblica delle banane” sotto il feroce tallone del polipo verde della United Fruit. Un piccola oligarchia, succube degli interessi multinazionali, totalmente apàtride, impermeabile al concetto di bene comune, predatrice nel suo egoismo, accumulava tutto ciò che poteva. Si sentivano sicuri perché dicevano: sempre così è stato e così continuerà ad essere. E contavano sull’appoggio costante degli Stati Uniti. Per gli honduregni che si ribellavano e lottavano erano pronti repressione crudele, tortura, carceri e morte. C’erano elezioni: il clientelismo e le minacce erano sufficienti per
mantenere il sistema. Nonostante tutto, però, i venti soffiavano e soffiano. Nel 2005 venne eletto presidente un leader liberale, uno dei partiti dell’oligarchia. Il suo nome Manuel Zelaya. Poco o niente da lui speravano i movimenti popolari. Cattolico osservante e sincero, toccò con mano la miseria del suo popolo. Cercò soluzioni, guardò intorno a sé, concentrò il suo sguardo su Cuba, dove nessun bambino dorme per strada; apprezzò i programmi sociali di Lula in Brasile; si
entusiasmò con la rivoluzione bolivariana in Venezuela e con il miracolo Evo Morales in Bolivia. Decise la sua strada. Si avvicinò ai lavoratori delle campagne e delle città, ascoltò le denunce e le proteste di quell’umanità meticcia e indigena. Insieme ad essi tracciò progetti di ridistribuzione del reddito, di salute ed educazione per tutti. Divenne un traditore, criminalizzato dalla oligarchia.
Osò aderire al sistema Alba, Alleanza Bolivariana per le Americhe, insieme a Venezuela, Nicaragua, Cuba, Bolivia, Equador, fra gli altri. Cominciò a fare i primi passi sul binario del movimento continentale “socialismo XXI”. Due motori spingevano questo movimento. La rilettura
appassionata dei valori della resistenza degli ultimi cinque secoli e il desiderio di integrazione latinoamericana. E l’Honduras ha anche un figlio illustre: Francisco Morazán. Combattente, eroe di decine di battaglie contro la oligarchia, discepolo di Simón Bolívar, lottatore per l’unità dei popoli dell’Istmo, coprì la carica di presidente della Unione delle Province dell’America Centrale fra 1830 e 1839. Fu sconfitto, il mosaico si scompose. Rimase il sogno. Il governo Zelaya si nutre di esso.
L’oligarchia latino americana si agita, si contorce, è preoccupata. I movimenti sociali si organizzano vieppiù, avanzano, conquistano governi progressisti o rivoluzionari. La discussione sulla costruzione di una società socialista abbandona la nicchia delle illusioni e diventa pratica sociale delle masse. L’imperialismo statunitense impantanato in oriente non trova più le forze per colpire direttamente l’America Latina. Gruppi fascisti, appoggiati dalla grande stampa e dai capitali forti, tessono trame per spezzare il processo. Denigrano, mentono su tutto quello che è popolare. Cercano il golpe in Venezuela e il separatismo in Bolivia. Sono sconfitti. Si concentrano sull’anello più debole e giocano il tutto per tutto: Honduras, dove le strutture popolari sono più fragili e il cammino del cambiamento più recente e atipico. La necessità dell’azione golpista è impellente. Agire prima che il processo si consolidi e l’integrazione con i vicini diventi più concreta. Anche le multinazionali temono di perdere gli anelli e poi le dita. Il 24 giugno 2009 i paesi dell’Alba decidono «l’appropriazione delle conoscenze per potere produrre i beni fondamentali per la vita». E l’Honduras, che importa l’80% delle medicine, opta per ricevere tecnologia e farmaci generici da Cuba. Ciò rappresenta una sfida ai colossi dell’industria chimico-farmaceutica. Non tanto per il danno economico, ma per l’esempio di ribellione. Altri settori che detengono i “saperi monopolistici” anch’essi si preoccupano.

Un altro fattore spinge verso il golpe. Lo scoraggiamento della contro-rivoluzione a causa della amministrazione Barak Obama, visto come un pericoloso bolscevico. La destra statunitense incalza per creare fatti irreversibili per distruggere il lento e faticoso dialogo fra le due Americhe. Si scatena il golpe. Forze potenti aprono le gabbie dei fascisti storditi. La lotta politica che si profila è molto maggiore dello spazio honduregno. Se il golpe si mantiene fino a gennaio 2010, quando ci
sarà una nuova tornata elettorale e senza la presenza di Zeyala, le oligarchie potranno installare uno dei loro burattini al governo. Così dimostreranno che tutto è ammesso per fare indietreggiate la
rivoluzione latinoamericana. Di qui la necessità di un isolamento assoluto dei golpisti: che nessun governo del pianeta sia in condizione di riconoscerlo e che il legittimo Presidente Zelaya torni
a Tegucigalpa quanto prima. Sarebbe una sconfitta storica per la destra e rafforzerebbe il “socialismo XXI”. I golpisti sono esasperati perché tutti i governi latinoamericani – alcuni anche controvoglia – li hanno condannati. E per la prima volta il grande amico statunitense li “tradisce” perché il Presidente Obama riconosce solo Zelaya come primo cittadino dell’Honduras. Costa dure battaglie, sofferenza e sangue questa tappa della storia dei popoli honduregni, ma come scriveva il poeta cileno Pablo Neruda Alta es la noche y Morazán vigila/Es hoy, ayer, manana? Tu lo
sabes./Hermanos, amanece. Y Morazàn vigila(Profonda è la notte e Morazán vigila/E’ oggi, ieri, domani? Tu lo sai./Fratelli, albeggia. E Morazán vigila).