Fra nemmeno due settimane i ministri del commercio dei 149 stati che fanno parte del Wto, alias Organizzazione mondiale del commercio, si ritroveranno a Hong Kong nel disperato tentativo di resuscitare un’istituzione ormai agonizzante in seguito al fallimento di Seattle, nel 1999, e al collasso di Cancun, nel 2003. Dopo mesi di frenetiche contrattazioni accompagnate dalle solite minacciose dichiarazioni – della serie «ora o mai più» – alla vigilia del vertice i superburocrati del commercio globale sembrano rassegnati all’accordicchio che, nella migliore delle ipotesi, sarà un nuovo calendario per il completamento del Doha Round, il ciclo di negoziati che venne lanciato subito dopo l’11 settembre 2001.
Nel settembre scorso il nuovo direttore della Wto, Pascal Lamy, dopo essersi guadagnato fama di duro come rappresentante al commercio dell’Unione europea, ha declamato a gran voce la sua vo lontà di completare almeno i due terzi del Doha Round durante la ministeriale di Hong Kong, al fine di raggiungere intese concrete sulle varie modalità degli accordi, vale a dire sugli impegni
numerici nel dettaglio. Molti paesi membri sostennero l’obiettivo di Lamy, in particolare quelli più sviluppati che premono per aprire altri settori agli investimenti stranieri, ma via via che passavano i giorni le divergenze sembravano sempre più insormontabili. La settimana scorsa, dopo gli incontri ad alto livello che si sono svolti nella sede centrale di Ginevra, i rappresentanti dei vari paesi hanno annunciato il calo delle aspettative per il risultato di Hong Kong, registrando l’impossibilità di accordarsi sulle modalità
in un tempo così ristretto e con le notevoli distanze ancora presenti nelle posizioni negoziali.
Seppellita qualunque velleità buonista – il ciclo di Doha venne lanciato con la promessa di porre maggiore attenzione alle tematiche dello sviluppo – oggi l’eventuale riuscita del Doha Round viene misurata in relazione a quanto i paesi membri saranno in grado di aumentare le possibilità di accesso al mercato per i loro esportatori in agricoltura, nei prodotti industriali e nei servizi. Nel frattempo, come spiega egregiamente www. tradewatch, l’osservatorio telematico (in italiano) su quanto avviene nelle stanze dei bottoni dell’Organizzazione mondiale del commercio, i paesi sviluppati, in particolare gli Usa e la Ue, «avanzano, senza il minimo pudore, proposte in materia di agricoltura che sanno benissimo non essere la soluzione per i problemi dei paesi poveri, come la sovrapproduzione e il dumping (la vendita di un prodotto a un prezzo che è al di sotto del suo costo di produzione). In cambio di queste vuote promesse, i paesi sviluppati rifiutano ai paesi in via di sviluppo la possibilità di proteggere la loro agricoltura e chiedono la liberalizzazione del commercio dei prodotti industriali e dei servizi». L’atmosfera rarefatta in cui avvengono le trattative e gli eleganti eufemismi con cui ne danno conto i giornali economici non debbono trarre in inganno: le decisioni dei super-burocrati hanno ricadute molto materiali sulla vita dei lavoratori. Per capire cosa questo significhi nel concreto basta dare un’occhiata a quanto sta accadendo in Corea del sud dove i sindacati agricoli e i movimenti sociali sono mobilitati da più di un mese per protestare contro un’ulteriore apertura del mercato agricolo, in questo caso l’apertura ai grandi produttori mondiali di riso a scapito dei coltivatori locali. Una mobilitazione arrivata al parossismo in concomitanza con il voto dell’Assemblea Nazionale che, il 23 novembre, ha ratificato l’apertura del mercato proprio nel giorno in cui uno dei contadini feriti durante la manifestazione del 15 novembre scorso
moriva in seguito alle percosse della polizia. Se Jeon Yong-Cheol è deceduto per le bastonate della Seoul Metropolitan Police Agency, nota per la sua violenza, altri tre contadini hanno scelto l’autoimmolazione, ovvero il suicidio, per tentare di far rimandare il voto. Purtroppo né la morte dei due contadini – il terzo è ricoverato in ospedale in condizioni gravissime – né lo sciopero della fame durato 28 giorni di un parlamentare del Democratic Labor Party, Kang Gi-Gap, è servito per rimandare il movimentato voto che ha spaccato in due l’Assemblea Nazionale letteralmente assediata dai contadini accampati vicino al Palazzo da settimane. La scelta di forme così estreme di protesta non deve stupire più di tanto: la decisione di aprire ulteriormente il mercato agli economici prodotti delle multinazionali dell’agrobusiness rischia di essere davvero il colpo di grazia per un esercito di tre milioni e mezzo di contadini che già affogano nei debiti e che, stante l’alto livello di repressione, non trovano altro modo di far sentire la propria voce. Del resto, già a Cancun, gli agricoltori sud-coreani scelsero l’azione dimostrativa più estrema per attirare l’attenzione sullo tsunami economico che sta devastando la categoria: Lee Kyung Hae, dirigente della Federazione dei contadini e dei pescatori della Corea del sud, si ar
arrampicò sulla recinzione che circondava la zona rossa di Cancun e si piantò un coltello nel cuore. Prima di lui centinaia di contadini indiani rovinati dai debiti, dalla siccità e dall’invasione dei prodotti a basso costo, si sono suicidati in massa sui loro campi ingerendo l’ultima dose di pesticida che erano riusciti ad acquistare. Scioperi della fame, auto- immolazioni e manifestazioni stavolta non sono riusciti a fermare l’avanzata delle liberalizzazioni selvagge. Comunque, per quanto il governo Seoul abbia alla fine ottenuto la ratifica dell’accordo sul riso, il sindacato agricolo sud-coreano, la Korean Peasants League, ha fatto sapere che non ha alcuna intenzione di smobilitare e annuncia un altra manifestazione per il 4 dicembre mentre la Kctu, la Confederazione unitaria dei sindacati, minaccia uno sciopero generale per il primo dicembre prossimo. Mobilitazione che certamente continuerà a Hong Kong in occasione della ministeriale dove i contadini sud-coreani cercheranno di arrivare in massa – autorità permettendo – per portare avanti le loro azioni dimostrative più estreme.