Benvenuti sul pianeta globalizzazione con le sue foreste di grattacieli e i fluenti viadotti, dove gli umani vengono lasciati in vita soltanto perché i veri abitanti – dollari, euro, yen, pesos e rupie – non hanno ancora imparato a camminare da soli. Non ci poteva essere luogo migliore di Hong Kong per tenere la Sesta ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio – Wto, per i nemici, dai tempi di Seattle. Il debutto ufficiale di questa mattina è stato in realtà preceduto da due giorni di aperture ufficiose: le dichiarazioni concilianti del rappresentante europeo Paul Mandelson e dell’americano Rob Portman e la festa di strada di un movimento sempre più composito e globale, che è riuscito a sbarcare anche nella città insulare sbandierando sotto il naso degli attoniti hongkonghesi il solito armamentario di scherzi molto seri, dalle canzoni ai pupazzi giganti, dalle danze ai tamburi. Impossibile non notare, nel festoso corteo guardato a vista da una polizia temibile ma estremamente discreta (qui non si sono visti i mostruosi robocop delle nostre parti) la schiacciante maggioranza
di ragazze: sono le migranti che, con le rimesse del loro lavoro semi-schiavistico come badanti tengono in piedi le fatiscenti economie del sudest asiatico povero, dall’Indonesia alle Filippine.
Com’è noto la Conferenza parte sotto i peggiori auspici: le superpotenze economiche sono chiamate dai paesi in via di sviluppo a mostrare la stessa intraprendenza che è stata richiesta loro nel cancellare sussidi e sostegni in campo agricolo. La posizione del sud del
mondo è la stessa di Cancun: nessun nuovo negoziato se prima non si risolve il problema del doppio standard, con i paesi poveri costretti ad aprire i propri mercati alle merci sovvenzionate dei paesi ricchi. E come a Cancun, dove il vertice è miseramente fallito, europei, americani e giapponesi premono per liberalizzare nuovi settori ma non hanno alcuna intenzione di mollare al loro destino i coltivatori di casa propria – si consideri ad esempio la fermezza mostrata da Chirac nei confronti di Mandelson, minacciato addirittura di “licenziamento” quando ha osato mettere in discussione la Politica agricola europea.
Che poi i paesi in via di sviluppo accettino di negoziare ulteriori accordi è davvero molto difficile. Sul tavolo ci sono infatti i famigerati Gats, gli accordi pensati per costringere i paesi a mettere in vendita fondamentali beni comuni – come l’acqua, che interessa in particolar modo le corporation europeee lanciate nel settore – e ad aprire i propri servizi alle corporation globali, dove per servizi s’intendono cosucce di un certo peso come sanità e istruzione. Una volta passati i Gats, ad esempio, nessun paese potrebbe favorire il proprio sistema di istruzione pubblica se domani una McDonalds decidesse di lanciarsi nel lucroso affare dell’educazione. Secondo le regole del Wto potrebbe essere concorrenza sleale anche semplicemente non far pagare l’affitto al liceo pubblico, e pretenderlo invece dal McIstituto di quartiere. L’altro accordo che interessa particolarmente le superpotenze economiche è stato proposto e bocciato a Cancun, ma poi recuperato nei maneggi di corridoio. Si tratta dei negoziati sul Non Agricultural Market Access, ovvero l’Accesso al mercato dei prodotti non agricoli, ampia definizione sotto la quale viene compreso praticamente tutto, tranne le armi. Secondo le numerose organizzazioni che domenica hanno sfilato per le strade di Hong Kong, l’adozione delle riduzioni tariffarie previste dal Nama equivale in sostanza alla dustrializzazione di buona parte dei paesi faticosamente in procinto di costruire un proprio settore industriale. Come per i contadini indiani e sudcoreani rovinati dal dumping dei prodotti agricoli sovvenzionati, così le nascenti imprese locali non potrebbero reggere la concorrenza dei potenti agglomerati industriali del nord del mondo con gli stabilimenti delocalizzati ovunque e gli aiutini dei propri governi – dalle rottamazioni Fiat alle ricorrenti flebo di dollari che il Pentagono riserva alle industrie importanti per la sicurezza nazionale.
Difficile che i negoziatori dei paesi in via di sviluppo accettino di imboccare questa strada senza uscita. I superburocrati lo sanno bene e, come fanno quando sono in difficoltà, attaccano con il ritornello del «lo facciamo per voi». Mandelson rinfodera la vecchia retorica del “pacchetto sviluppo” di Doha – così definito dagli strateghi della comunicazione Wto – dichiarando che bisogna «lanciare un segnale ai paesi in via di sviluppo fin da subito, per sottolineare che i più grossi vantaggi di questo Round potranno essere colti proprio dai paesi più poveri». E per «dare un volto umano al meeting di Hong Kong», come ha ribadito, è tutto un fiorire d’incontri con le Ong – 2.167, comprese quelle appositamente costituite dalle imprese – sotto l’occhio attento dei giornalisti «perché facciamo tutto alla luce del sole» come dichiara in conferenza stampa Keith Rockwell, che del Wto è direttore. Sarebbe bello che uno dei 3.200 giornalisti presenti per una volta rifiutasse di fare da megafono alla retorica. Gli basterebbe farsi un giro al Victoria Park o in uno qualunque dei luoghi dove si tengono i seminari del controvertice, per capire quali sono state le conseguenze materiali della prima fase del progetto “mercato über alles”. Oppure, magari, potrebbero parlare con uno dei rappresentanti del Fisherfolk movement, il movimento dei pescatori artigianali
che ha portato qui gente dall’Indonesia, dal Vietnam, dalla Cambogia, dalla Thailandia e dalle Filippine, popolo presente in massa con pescatori e migranti. Perché sono i piccoli pescatori le vittime designate del Nama che, oltre a distruggere definitivamente le affaticate risorse marine, impone ai governi di tagliare sussidi e aprire ai grandi pescherecci dell’industria ittica globale.
Quanto ai sussidi, il Nama è drastico: nessun sostegno è consentito nel libero mercato, nemmeno gli aiuti ai pescatori colpiti dallo tsunami dell’anno scorso. Alla faccia del volto umano.