Wto, i grandi stravincono

Dobbiamo ammetterlo, ci avevamo creduto. Abbiamo abboccato al miraggio di un’altra Cancun. Ma alla fine, come ha mestamente concluso un delegato africano «i nuovi padroni sono peggio dei vecchi». Nella logica darwiniana del mercato globale sono prevalsi gli interessi delle potenze emergenti, ovvero India e Brasile, che hanno preso la guida dei vari G20, G33 e G90, per condurli a un accordo disastroso per tutti tranne che per loro. Una strategia abile, quella della sceneggiata dei non-allineati, che ha potuto contare sui puntuali aiutini di Blair – che ha giocato magnificamente la doppia partita Wto-bilancio europeo – e sul silenzioso sostegno del gigante cinese. Per quanto sarebbe consolante la linea del basso profilo – a cui si è adeguata la stampa internazionale – dobbiamo ammetterlo: quello uscito dalla Sesta ministeriale di Hong Kong non è affatto un “accordicchio”. L’agonizzante Wto registra una netta vittoria, ma per il movimento internazionale presente in massa – salvo gli europei – si tratta di una netta sconfitta. Passa il pacchetto sulla liberalizzazione dei servizi (i cosidetti Gats) che era stato congelato per paura del forte impatto sociale, e passa nella formulazione peggiore.
Prima di tutto l’inizio dei negoziati è stato fissato per il febbraio 2006 mentre, peggio ancora, è passato l’art 7. b voluto dagli americani che si riferisce a «modalità negoziali obbligatorie», malgrado l’impegno del tutto formale a «considerare le specificità dei Paesi in via di sviluppo«Se poi si guarda alla sezione sulle “rules” – annesso D – si scopre che nei Gats vengono inclusi anche gli appalti pubblici. Questione davvero cruciale per le amministrazioni locali perchè con questa postilla – respinta a Cancun – i superburocrati aprono le gare d’appalto per le opere pubbliche ai giganti delle infrastrutture come Halliburton, e mettono fuori dalla legge del Wto qualsiasi preferenza per le imprese locali.
Sull’agricoltura, dopo avere chiesto l’eliminazione dei sussidi alle esportazioni nel 2010, i 110 paesi capeggiati da Brasile e India si accontentano del 2013, cosa che è stata presentata dal negoziatore brasiliano Celso Amorin come «una modesta ma non insignificante vittoria». Allo stesso tempo come denunciano i cani da guardia internazionali di Focus on the Global South«l’Ue si impegna a eliminare prima solo una “substantial part”», il che potrebbe tradursi, al massimo, in un «40-50 per cento di taglio, magari dopo il 2010». Certo, da tempo il movimento si era assestato su di una linea «non liberista, basata sul taglio dei sussidi più distorsivi come quelli all’esportazione, ma in difesa dei sistemi di protezione virtuosa che premiano le produzioni biologiche e difendono la sovranità alimentare» ha ricordato il senatore Francesco Martone, anche se bisogna dire che il progressivo avvicinarsi di una grande ong come Oxfam alle posizioni di Blair è stato ungrosso danno.
Inutile dire che i veri perdenti sono gli africani. Sul cotone viene affermata soltanto, e in termini vaghi, l’intenzione di arrivare a una decisione veloce, come era già stato deciso nel luglio 2004 che include l’eliminazione entro il 2006 dei sussidi all’export e l’abbattimento totale di tariffe e quote per i paesi esportatori di cotone più poveri. Il fatto, però, che questa decisione debba includere una riduzione di gran parte dei sussidi interni – i cui maggiori beneficiari sono gli Usa – rimane nella categoria dei vaghi impegni, ovvero se ne va dritta dritta nella pattumiera delle buone intenzioni. Anche le misure “sviluppiste” per i paesi più poveri, ai quali si doveva concedere un accesso privilegiato ai mercati, sono sostanzialmente una presa in giro. Gli Usa hanno 7mila prodotti circa su cui mantengono protezioni tariffarie rispetto ai Paesi meno sviluppati, i cosiddetti Ldc. A Hong Kong si sono impegnati a portare a zero le tariffe solo per il 97 per cento di queste merci ma, mantenendo un livello di protezione al tre per cento, riescono ancora a “blindare” 420 prodotti – formula che consente al Giappone di proteggerne 400. Inoltre, come scrive TradeWatch: «Possiamo scommettere che tra i prodotti salvaguardati in extremis verranno inclusi proprio quelli che sono di interesse per i Paesi più poveri, ma anche dei produttori americani».
Anche sulla questione dei prodotti industriali, i cosiddetti Nama, passa la linea più dura. Si tratta della riduzione dei dazi secondo la cosiddetta formula svizzera – ovvero più proteggi oggi, più tagli domani. Le richieste dei più poveri, che chiedevano di non essere legati a tagli drastici, rimangono inascoltate. Sui Nama perdono anche India e Brasile, perché viene rimandata a Ginevra ogni decisione sulle flessibilità che saranno concesse al Sud del mondo nell’applicazione per i vari settori. E dopo avere smantellato un altro pezzo di sovranità nazionale, ce n’è anche per le Nazioni Unite, in particolare per la Convenzione sulla biodiversità che talvolta creava qualche fastidio ai brevettatori di geni. Sempre per citare TradeWatch: «E’ stata totalmente ignorata la richiesta accolta nella prima bozza» che faceva riferimento alla necessità di proteggere la biodiversità, il sapere tradizionale e il folklore. Una richiesta «approvata a Doha e oggi sparita nel nulla che mostra la supremazia del Wto rispetto alle convenzioni internazionali Onu». Peggio di così non poteva andare. Non sembra però nemmeno possibile individuare particolari responsabilità. Sì, è vero, gli europei erano pochi, anche perché alle prese con le battaglie locali. Ed è anche vero che alcune grandi ong – come Oxfam – si sono fatte trascinare su di una linea filo-liberista. Però, per la maggior parte, quasi tutte le ong dentro al palazzo hanno lavorato egregiamente fino allo stremo per smascherare complotti, fornire sostegno e documenti ai delegati dei paesi più deboli e criticare senza riserve ogni possibile compromesso mentre, nel frattempo, marcavano stretto le autorità locali per ottenere la liberazione degli attivisti arrestati.
Fuori dal palazzo, i movimenti sociali si sono dati il cambio per una settimana ininterrotta di mobilitazioni. Con estrema capacità di coordinamento e di articolazione e utilizzando i differenti stili dei differenti paesi – alla faccia del pensiero unico – e delle diverse categorie, si sono viste all’opera ogni tipo di strategie di comunicazione e di pressione, dall’arte della guerra dei contadini sud-coreani, al teatro di strada degli indonesiani che sono riusciti a spiegare a una città corrotta e indifferente problemi e questioni difficili anche per i più esperti. Un movimento che forse non è riuscito a coinvolgere l’opposizione strisciante della Cina continentale – salvo qualche rara eccezione – ma che ha portato in strada, insieme all’elite degli studenti universitari, l’ultima ruota del carro: le decine di migliaia di badanti filippine o indonesiane che hanno riempito le domeniche delle loro canzoni, delle loro danze e dei loro slogan arrabbiati. A Hong Kong non abbiamo visto un movimento in crisi ma, sull’altro fronte, abbiamo assistito imponenti alla marcia implacabile di una poderosa macchina legale, con risorse finanziarie illimitate, difesa dai poliziotti meglio armati e addestrati del mondo. Dobbiamo rassegnarci? Non credo. Questa colossale macchina ha un punto debole: i suoi mega-trattati alla fine debbono essere messi in pratica tra la gente.
Un governo corrotto può vendere l’acquedotto a una multinazionale straniera con l’aiuto del Wto o della Banca Mondiale, ma alla fine è fra la gente che bisogna andare a riscuotere le bollette. E se la gente non paga, se si ribella, non c’è accordo che tenga: la multinazionale se ne deve andare. Lo hanno dimostrato le donne di Cochabamba, gli indigeni della valle del Narmada, i comitati anti-privatizzazione di Soweto. Lo stano dimostrando in Val di Susa. Le alleanze strategiche e transnazionali devono continuare a rafforzarsi ma forse dovrebbero riversare l’enorme potenziale del movimento dei movimenti sulle singole battaglie a livello locale, lì dove le poderose architetture legali alla fine debbono sbattere il grugno. Forse, la prossima volta, dovremmo lasciarli semplicemente soli.