Le assemblee della sinistra organizzate dal manifesto e da diverse riviste il 15 e 16 gennaio hanno avuto un grande successo di partecipazione. Non è sorprendente; d’altra parte, iniziative di questo tipo, con modalità variabili ma con adesioni sempre numerose di persone, associazioni e organizzazioni politiche, si ripetono da qualche anno con una certa frequenza perché intercettano in qualche modo una questione reale e sempre più pressante. Stiamo attraversando una fase di transizione storica che è particolarmente impegnativa per la sinistra poiché nasce dalla sconfitta del comunismo reale e dall’affermazione del neoliberismo. Ogni ricorrente iniziativa, come quelle dello scorso week-end, sembra estendere e approfondire la consapevolezza dei due problemi e dei loro stretti legami, ma rimangono le difficoltà di darle un seguito concreto. Qui di seguito vorrei segnalarne due: un possibile equivoco in merito alla questione della rappresentanza politica e una preoccupante carenza nel dibattito sui contenuti programmatici. La stragrande maggioranza degli interventi negli ultimi appuntamenti romani hanno ribadito con forza la necessità che la sinistra «più convinta» dia il suo contributo determinante prima al tentativo di battere il berlusconismo alle prossime elezioni e poi, se vince, alla conduzione del paese senza incorrere di nuovo in drammatiche rotture dell’alleanza complessiva. Tutto ciò implicherà inevitabili mediazioni con il resto della Gad, ma prima di mediare occorrerà definire le proprie posizioni, la scala delle priorità e i punti più o meno irrinunciabili da inserire nel programma comune; quindi occorrerà la forza della coesione politica e la capacità anche tecnica di praticare e comunque verificare l’attuazione dei progetti concordati.
Ma chi fa parte della sinistra «più convinta» e chi la rappresenta? Identificare quest’area in modo preciso non è scontato, anche perché uno degli effetti generati dalla crisi d’identità della sinistra e dalla sua carenza di rappresentanza politica è stato l’allontanamento di molti dalle sue organizzazioni tradizionali o anche da altre forme di pratica politica e/o sociale più o meno contingenti. Ad esempio, tra i potenziale componenti di quest’area politica ci sono senz’altro tutti coloro che hanno votato positivamente al referendum sull’articolo 18, i quali rappresentano addirittura un multiplo del fatidico 13% dell’elettorato votante. Ma questa sacrosanta considerazione non significa affatto che sarebbe sbagliato cominciare a coordinare l’azione delle forze politiche che già rappresentano il 13% esistente. Se si riconosce la necessità di creare una massa d’urto capace di essere maggioritaria su alcuni punti qualificanti del programma della coalizione e di esprimere anche candidature qualificanti, il coordinamento delle forze esistenti costituisce comunque un passaggio utile.
La «Camera di consultazione» proposta nell’assemblea della Fiera di Roma dovrebbe evitare d’impantanarsi in quelle preoccupazioni d’apparato che meno rispondono al nuovo e più partecipativo modo di far politica che viene predicato molto ma praticato poco. Un terreno di confronto qualificante e ineludibile per la definizione dell’identità della nuova sinistra e per la sua affermazione nella concreta conduzione del paese è quella delle scelte economiche. In quest’ambito, una questione centrale è il ruolo dello stato sociale. Tuttavia, è veramente sorprendente che nei due incontri di metà gennaio questi argomenti siano stati affrontati poco o nulla.
La significativa presenza del welfare state nelle società capitalistiche avanzate (dove gestisce da un quarto a un terzo del Pil) è la prova che esigenze sociali e produttive di primaria importanza possono e sono assicurate in modo più efficace e conveniente al di fuori del mercato e della logica del profitto, con criteri produttivi e distributivi di tipo sociale e non individualistico. Dunque non è sorprendente che il suo sviluppo, che continuava ininterrottamente dall’Ottocento, si sia arrestato negli anni Ottanta del Novecento, in coincidenza sia con la riaffermazione del liberismo più integralista sia con la crisi d’identità della sinistra. Tuttavia, alcune controriforme neoliberiste in campo sociale hanno avuto effetti drammatici; ad esempio, con la diffusione della previdenza a capitalizzazione si è preteso di favorire la copertura e i problemi di finanziamento dei sistemi pensionistici, ma il risultato è stato (e sarà) quello di esporre anche i redditi per la vecchiaia all’accresciuta instabilità dei mercati finanziari: nel solo 2002, le perdite patrimoniali, e dunque la distruzione di risparmio previdenziale da parte dei fondi pensione a capitalizzazione è stata, a livello mondiale, pari a 1.400 miliardi di dollari, una cifra allora superiore all’intero reddito nazionale del nostro paese.
In Italia, le politiche neoliberiste del welfare e del lavoro sono aggravate dagli specifici problemi strutturali del sistema economico (ad esempio, predominano piccole imprese che privilegiano la competitività di prezzo anziché l’innovazione; la ristrettezza della Borsa spinge a investire all’estero il risparmio previdenziale gestito dai fondi pensione privati). Esse sono parte fondante di una più complessiva politica economica che ci sta portando al declino; le sue scelte si sono concentrate solo su alcune delle condizioni d’offerta (gli oneri salariali e la flessibilità del lavoro), hanno trascurato quelle più rilevanti (l’innovazione e la qualità dei prodotti e dei processi produttivi) e hanno penalizzato le condizioni della domanda. Dal 1992 al 2002, la produttività del lavoro è aumentata del 10.7%, ma i salari anziché aumentare di altrettanto sono diminuiti del 9,4%, riducendo sensibilmente anche il loro potere d’acquisto. Nel 1990 la spesa sociale in rapporto al Pil era quasi uguale alla media europea, oggi è inferiore di quasi due punti. La controriforma fiscale, riducendo la progressività, limita ulteriormente la partecipazione delle classe lavoratrici alla distribuzione del prodotto nazionale.
Nella prospettiva di un possibile governo di centro-sinistra, è necessario progettare e concordare un cambiamento sostanziale di politica economica. Non potranno essere ignorati né i vincoli interni né quelli esterni: ma, a cominciare dal Patto di stabilità, bisognerà essere conseguenti alla convinzione che alcuni di tali vincoli sono «stupidi». La nuova politica economica, se vorrà essere non solo coerente al baricentro politico, sociale e culturale della nuova maggioranza, ma anche efficace rispetto agli obiettivi di una crescita economica socialmente ed ecologicamente compatibile, dovrà considerare il lavoro, la sua buona qualità, la sua adeguata remunerazione, le sue stabili condizioni d’impiego e la sicurezza sociale come elementi trainanti dello sviluppo complessivo e non come variabili dipendenti. Le scelte in materia di stato e mercato dovranno essere funzionali all’obiettivo di coniugare equità ed efficienza. Gli esiti negativi di scelte fatte in questi anni, ma anche nella legislatura precedente, dovranno essere rimesse in discussione. Dovrà essere chiaro che la riduzione del carico fiscale non è sempre compatibile con l’esigenza di erogare i beni e servizi pubblici che sono necessari non solo all’equilibrio sociale, ma anche al progresso economico. Ne vogliamo parlare anche nella sinistra «più convinta» o ci pensano solo gli altri?