Washington, la rinascita dei neocon: «La guerra in Libano è la nostra guerra»

«La guerra in Libano? E’ la nostra guerra». William Kristol, intellettuale della destra nordamericana e teorico dello scontro di civiltà non poteva essere più chiaro nell’illustrare sulle colonne del Weekly Standard sentimenti e speranze che i neoconservatori nutrono verso l’offensiva di Israele nel Paese dei cedri. Quasi una prova generale del conflitto che verrà, quello che dovrà rovesciare i regimi di Teheran e Damasco per completare l’opera di rimodellamento del Medio Oriente. Ovvero il disegno originale degli ideologhi neocon.
Saliti in auge dopo gli attentati dell’11 settembre, gli ispiratori della guerra permanente hanno perso negli anni parte dell’influenza che esercitavano sulla Casa Bianca. Lo spirito marziano del primo mandato Bush si è infatti dovuto accordare con le necessità di una diplomazia faticosa, calibrata sulle difficoltà reali che l’occupazione americana incontrava in Iraq e Afghanistan. E sulla necessità di trovare una soluzione, anche fittizia, anche virtuale, alla questione israelo-palestinese. La nomina di Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato, vissuta come una mezza iattura dagli entourages neocon, è l’emblema del riaggiustamento coatto delle politiche internazionali degli Stati Uniti. Mettendo a capo della diplomazia una storica figura della destra pragmatica, in molti hanno pensato che Bush volesse diminuire l’impatto di personaggi come il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld a profitto di una gestione più equilibrata della crisi. La giostra delle nomine del secondo mandato sembra confermare la tendenza: Paul Wolfowitz, l’architetto della guerra contro Saddam Hussein pur essendo diventato il presidente della Banca Mondiale, non è più viceministro della Difesa, mentre il “principe delle tenebre” Richard Perle, accanito sostenitore dell’uso della forza militare contro tutti i nemici di Israele, non lavora più come consigliere del Pentagono.

Questo non significa che l’amministrazione Usa ha rinunciato alle proprie ambizioni “imperiali” in Medio Oriente e Asia centrale, ma che, a un certo punto, si è trovata costretta a perseguirle secondo modalità e tempi diversi. Un approccio che ha irritato a lungo gli intellettuali vicini alla vulgata neoconservatrice.

In un articolo apparso alla fine di maggio sul Los Angeles Times, Danielle Pletka e Michael Rubin, membri dell’influente think tank American Enterprice Institute, attacavano il presidente Bush, reo di aver diluito la missione civilizzatrice degli Usa nell’acqua sporca del pragmatismo politico. Di aver mortificato lo slancio colonizzatore nelle pastoie delle trattative diplomatiche. Roba da Nazioni unite, ossia da piccoli parassiti. La fine dell’embrago diplomatico verso la Libia, la rinuncia a sanzionare l’Egitto e a sostenere attivamente i dissidenti cinesi, nonché l’idea di risolvere le tensioni con la Corea del Nord non necessariamente attraverso l’uso delle bombe sarebbero i segni inequivoci di tale perdita di ispirazione: «La democratizzazione è stata abbandonata a vantaggio di un falso realismo in materia di guerra al terrore», scrivono Pletka e Rubin, i quali, quasi anticipando l’escalation libanese, non hanno mai disperato che le cose potessero cambiare: «Nulla ci permette di affermare che l’amministrazione abbia smesso di credere in ciò che professava, il problema è che oggi non sembra in grado di prendere le decisioni dolorose che le sue convizioni esigono». Gli stessi concetti sono stati espressi alla fine di giugno sull’International Herald Tribune da Michael Mac Faul, direttore del Project on Iranian Democracy all’istituto Hoover, anch’egli assai perplesso dalla perdita di mordente dei repubblicani: «La Casa Bianca dà l’impressione di conferire meno importanza alla promozione della democrazia e alla diffusione della libertà rispetto al passato». Un’impressione, per l’appunto. Ma ora che la guerra israeliana in Libano ha riattivato le antiche sinapsi, la voce frustrata dei neoconservatori esce dal cono d’ombra in cui era stata relegata e riacquista l’influenza perduta nelle stanze dei bottoni. Sarà difficile per Bush ignorare le sirene guerriere ora che nuovo caos si aggiunge al caos dello scacchiere mediorientale. E il caos, si sa, è da sempre il brodo primordiale delle concezioni dei falchi statunitensi.

L’editoriale di Kristol sul Weekly Standard compendia in tal senso, gli orientamenti geostrategici della destra neocon, la quale non intende perdere l’occasione di sfruttare l’offensiva israeliana per preparare il terreno a campagne ben più ambiziose: «Il conflitto libanese non è una classica guerra arabo-israeliana, ma una guerra tra israeliani e islamisti, Egitto, Giordania e Arabia Saudita sono indifferenti alla sorte di Hezbollah, mentre Fatah non fa parte del gioco, si può affermare quindi che si tratta di una guerra tra Occidente e islamismo». Poiché il jihadismo radicale e il populismo arabo non potrebbero sopravvivere senza l’appoggio degli Stati “canaglia”, l’unico modo per eliminare la minaccia terrorista consiste nel changing regime in Siria e Iran. «Niente Repubblica islamica dell’Iran, niente Hezobollah. Niente appoggio iraniano alla Siria, niente sponsor per Hezbollah e Hamas. La guerra contro l’estremismo islamico non finirà certo domani, però ci sarà una grande differenza quando gli stati protettori del terrorismo non potranno più finanziarlo». Elementare.

Il cambio di regime nelle due nazioni “canaglia” non sembra però nell’agenda immediata del Pentagono. Prima di terminare l’arabesco che ridisegnerà il Medio Oriente ci sono dei passaggi obbligati da percorrere. In primo luogo le elezioni di “mid-term” previste per novembre, necessarie per ottenere la copertura politica per nuove avventure militari. A quel punto l’amministrazione repubblicana non dovrà fare altro che recitare un copione già scritto da tempo.

Appena tre mesi fa sul prestigioso Times un ex funzionario dell’intelligence che è voluto restare anonimo, spiegava che l’abbandono della «diplomazia del cowboy» da parte del governo Usa è solo una suggestione giornalistica: «Cheney e compagnia stanno solo guadagnando tempo, aspettando che gli sforzi diplomatici falliscano». E quando il cadavere di Condoleeza Rice passerà sul greto del fiume, i neoconservatori avranno finalmente la “loro” guerra.