Migliaia di dimostranti hanno marciato ieri a Washington contro la guerra in Iraq, quella che doveva essere una passeggiata fra ali di folla adoranti e che adesso entra nel suo quinto anno, dopo 3.200 soldati americani morti e centinaia di migliaia di vittime civili irachene.
Non ci sono stime sul numero dei manifestanti, perché le autorità hanno cessato da un pezzo di farle, per evitare brutte figure e gli organizzatori della protesta si sono limitati a dire «decine di migliaia», precisando comunque di non aspettarsi la ripetizione dell’altro evento di cui ricorre l’anniversario: la grande manifestazione del 1967 contro l’altra «sporca guerra» americana, quella del Vietnam, che fece epoca per l’enorme numero di persone arrivate da tutto il paese, per la sua «creatività» (se ce la mettiamo tutta a urlare la parola «pace» riusciremo a sollevare il Pentagono, si dicevano l’un l’altro i manifestanti) ed anche per i violenti scontri con la polizia che si verificarono, con il loro corollario di centinaia di arresti.
Anche stavolta ci sono stati arresti. È accaduto l’altro ieri, quando un gruppo di pacifisti aderenti soprattutto a organizzazioni religiose ha realizzato una sorta di «anticipo», radunandosi in circa 4.000 di fronte alla Casa Bianca. Non erano stati «autorizzati» e così la polizia li ha caricati, arrestandone un centinaio. «Dopo la morte di 3200 americani e 600.000 iracheni, è arrivato il momento di finirla con questa guerra», gridava il pastore Lennox Yearwood mentre lo portavano via. E un altro religioso di cui non è stato possibile carpire il nome: «Il nostro dio non chiede di distruggere le altre nazioni». I loro sodali si sono poi ritrovati ieri mattina nella cattedrale di Washington per un servizio religioso «di pace», prima di unirsi a tutti gli altri davanti al Lincoln Memorial (il luogo di raccolta del ’67) per marciare lungo il Memorial Bridge e finire davanti al Pentagono. «Sono tutti eccitati perché è la prima volta da allora che il Pentagono non viene cinto d’assedio», dice la nostra Giuliana Sgrena, che è lì per portare la sua testimonianza.
Fino al pomeriggio di ieri non erano stati segnalati altri scontri con la polizia, che è sembrata soprattutto impegnata a tenere i pacifisti separati dagli «altri», cioè le centinaia di favorevoli alla guerra che urlavano slogan del tipo «Combattete contro la Jihad, non contro i nostri soldati» e dando ai pacifisti degli «amici di Al Qaeda». Si sono calmati un momento solo quando è passata la «sezione» del corteo in cui si erano raccolti i familiari dei soldati che in Iraq hanno lasciato la vita, assieme ai soldati stessi che vi hanno lasciato una gamba, un braccio, la vista. Anche al passaggio di un gigantesco ex marine sono rimasti ammutoliti. Lui portava un cartello con scritto «Sono fiero dei nostri soldati, mi vergogno del nostro presidente» passando davanti ai sostenitori della guerra ha loro urlato: «Stiamo combattendo il paese sbagliato», spiegando ovviamente che la «vera« guerra al terrorismo Bush l’ha trascurata per imbarcarsi nell’assurda avventura irachena. Ma anche fra i «contromanifestanti» si poteva trovare gente con qualche dubbio. Per esempio William Publicover, di Charleston, nel South Carolina, dice di essere lì solo per sostenere le truppe, memore della tristezza che lo assaliva quando era in Vietnam e gli veniva riferito che in America le strade erano piene di gente che protestava. «Laggiù – dice – ho imparato una cosa: che è impossibile avere ragione della mente e del cuore della gente». Poi ci pensa un momento e aggiunge: «Non sono sicuro di sostenere questa guerra». Gli sta a fianco Henry Sowell, un giovane del North Carolina che dall’Iraq è appena tornato e che ha meno dubbi. Dice che i manifestanti «mi stanno privando della ragione per cui ho combattuto, della ragione per cui molti miei commilitoni sono morti».
Ma molti suoi commilitoni sono dall’altra parte, fra i pacifisti. Sono autorizzati a farlo, dicono le nuove norme militari, ma «devono stare attenti a ciò che dicono». Uno di loro, Jonathan Hutto, sale anche sul palco e in un breve intervento dice: «A novembre il popolo ha votato contro la guerra. Noi oggi siamo qui per incassare quell’assegno», lasciando il dubbio se con quelle parole sia stato abbastanza «attento».
Già, il voto di novembre. L’obiettivo concreto di questa manifestazione è palesemente quello di «pungolare» i democratici che proprio per l’impopolarità in cui questa guerra è ormai sprofondata hanno conquistato la maggioranza al Congresso.
Ma loro, almeno fino a questo momento, hanno mostrato soprattutto confusione, perdendosi in una sorta di balletto di date per stabilire, nelle loro risoluzioni più o meno «vincolanti», quando le truppe debbano essere ritirate e dando così a Bush il destro di ripetere il suo slogan – lo ha fatto anche ieri, nel solito messaggio del sabato – che «fissare una data sarebbe un regalo strategico al nemico».