«Come si fa, come faccio a dire ai miei figli: tuo papà è stato licenziato perché faceva il suo dovere, perché è una persona onesta, perché ha dignità?». Ai suoi tre figli forse non lo può spiegare, lo capiranno quando saranno un po’ più grandi. Ma a noi sì, a noi lo può spiegare. Giuseppe Derosa, 44 anni, delegato Fiom e operaio alla “Sai Sali” di Margherita Di Savoia, in provincia di Foggia, può spiegare come il licenziamento sia solo l’ultima percossa in un calvario fatto di ricatti, ritorsioni, umiliazioni, vessazioni, calci e pugni e minacce di morte. Il motivo? Fare bene, troppo bene, il proprio lavoro. Di operaio, certo, ma soprattutto di sindacalista. Chiedere il rispetto del contratto e ancor di più delle condizioni di sicurezza nella fabbrica che pesca nella grande salina del tavoliere pugliese: macchinari obsoleti, cinghie senza protezione, impalcature senza parapetto, impianti elettrici non a norma, pilastri pericolanti, amianto sui tetti e polveri velenose. Per il “padrone” significano soldi da spendere, investimenti onerosi. Rogne. E allora Giuseppe è meglio che stia zitto, bisogna fargliela pagare. La trappola scatta dieci giorni fa: l’azienda lo mette prima in ferie forzate senza però firmare nessuna carta. Quando Derosa rientra a lavoro il capo gli dice: «Dove sei stato?». Assenza ingiustificata. Licenziamento.
Ma è solo la punta dell’iceberg. Antonio Piazzolla, il titolare della ditta, ci aveva già provato nel 2004, ma poi si è riusciti a trovare un accordo e il licenziamento è rientrato. Il fatto è che il superiore non ha mai digerito quell’ostinata battaglia di Giuseppe per i diritti dei lavoratori e per la sicurezza delle loro vite, che fino ad ora gli è costata decine di denunce civili e penali, una condanna per comportamento antisindacale, le prescrizioni dell’Asl che lo obbligano a mettere mano al portafogli e rinnovare gli impianti. E dodici cause pendenti. Tra le altre cose, a maggio dovrà rispondere davanti al giudice di pace di ingiuria e minacce. Nell’atto di citazione i testimoni riferiscono che Piazzolla avrebbe pronunciato all’indirizzo del delegato Fiom le seguenti parole: «Figlio di puttana, io compro te, tutta la tua famiglia e tutti i giudici che chiami». E poi l’intimidazione: «Se non ritiri la querela ti rovino. Io ho i soldi per farti saltare il cervello, mi costi 500 euro».
Sembra l’America del peggiore maccartismo. E invece siamo in Italia, anno domini 2007. In una fabbrica che produce sali alimentari e industriali. Il sale, simbolo di saggezza, icona di prosperità per sacciare il malocchio. Ma in questa storia non c’è buon senso e non c’è fortuna.
I guai di Giuseppe Derosa iniziano cinque anni fa, quando decide di portare il sindacato in azienda per far rispettare gli obblighi contrattuali. Il segretario della Fiom di Foggia Antonio Ladaga riferisce che fino a quel momento i lavoratori erano «quasi in nero, sottopagati, senza retribuzioni e pagamenti di straordinari». E allora Derosa comincia a dare “fastidio”. «Sono stato promotore di un primo sciopero per il licenziamento di un collega – racconta – e mi è costato tanto. Per tutta risposta l’azienda per umiliarmi mi ha tolto dal mio reparto di officina e mi ha spostato al reparto essiccamenti, quello più semplice. Il messaggio era chiaro: il primo che parla lo demansiono».
Il primo affronto, dunque, è il mobbing. Ma le cose iniziano a prendere una brutta piega quando Giuseppe viene eletto Rsu e Rls, responsabile alla sicurezza dei lavoratori. A quel punto avvia richieste all’azienda per mettere a norma gli impianti, bonificare l’ambiente di lavoro e innovare i macchinari consumati dall’erosione del sale: «Ho iniziato a fare istanze prima verbalmente, poi per iscritto. Lui non ne voleva sapere e io lo ho avvertito che sarei stato obbligato a rivolgermi agli organi competenti». Fino a quando nel 2004 un operaio di una ditta esterna che lavorava in fabbrica cade dal tetto, da un altezza di sei metri, e per poco non ci rimette la pelle. Scattano le denunce e arrivano le prime sanzioni della Asl. Bisogna mettersi in regola, investire quattrini. Il padrone, racconta Giuseppe, se ne frega, fa orecchie da mercante. Anzi passa al contrattacco, addita i sindacalisti come nemici dell’azienda e degli operai, cerca di dividere i lavoratori. Li ricatta. Dice che se lui è costretto a cacciare tutti quei soldi per rinnovare gli impianti si chiude baracca e saltano i posti di lavoro. «Ha persino creato un sindacato di comodo – confida Antonio Ladaga – con due galoppini a sostenere le ragioni del padrone». Un pressing asfissiante che produce una prima grave conseguenza: due operai, anche loro iscritti alla Cgil, non ce la fanno più, sono costretti ad abbandonare il posto. Nella lettera di dimissioni uno di loro scrive: «Gli atteggiamenti vessatori, ossessivi, persecutori, denigratori e discriminatori non consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro in modo sereno e civile». Un altro racconta di aver subito «il crollo dell’equilibrio psico-fisico».
Ma Giuseppe no. Con Giuseppe il trucco non funziona. Con lui servono le maniere forti. E allora un bel giorno il fratello di un dipendente si presenta in fabbrica e lo gonfia di botte. Derosa finisce in ospedale e per tutta risposta si vede comminare un provvedimento disciplinare e una citazione per danni di immagine dall’azienda. Ma intanto non molla, marca stretto il titolare della fabbrica, sulle spalle di Piazzolla continuano a piovere denunce e alla fine arriva la sentenza del Tribunale di Foggia che lo condanna per attività antisindacale.
E’ vero, Giuseppe è una persone determinata, coriacea, sanguigna. Ma a furia di portare pesi, si sa, la schiena si spezza. E ora che il posto di lavoro non ce l’ha più, ora che ogni mese deve staccare un assegno di 3-400 euro per pagare gli avvocati, lo sconforto rischia di prendere il sopravvento. «Non so come andare avanti. Ho tre figli, tutti e tre che vanno a scuola, mia moglie è disoccupata. Cosa devo fare, tentare il suicidio?». E nella disperazione si insinua il ricatto dell’azienda: se ritratti tutto, rientri a lavoro. «Se le cose stanno così il contratto nazionale cosa lo discutiamo a fare?» si infuria il segretario Ladaga.
Ma Giuseppe è un uomo integerrimo. Piuttosto che cedere alle ritorsioni è pronto a compiere «gesti eclatanti». Ha digiunato per quattro giorni, ha occupato la sala consiliare del comune di Santa Margherita, ha chiesto incontri col sindaco e col prefetto e in queste ore – per fortuna – sta ottenendo la solidarietà di molti. Mercoledì i colleghi hanno scioperato in blocco, alla Sai Sali non si è presentato nessuno, ma Piazzolla è riuscito a dire che quella protesta è stata un fallimento.
Molti, si diceva, ma non abbastanza, visto che non si riesce ancora «a scardinare questa persona dal suo posto di comando». E Giuseppe pronuncia quella parola che non avremmo voluto sentire mai: mafia. «La mafia non sta solo in Sicilia, in Calabria o in Campania. La mafia sta in tutto il meridione e questa è peggiore dell’altra, questa è lenta, ammazza le persone nell’anima, le costringe a camminare con la testa bassa».