«Bob Ney è un bugiardo, un criminale, uno che ha infangato la funzione pubblica che gli è stata affidata. È un cancro annidato nel Congresso che deve essere eliminato. È una sciagura che il signor Ney continui a insultare i parlamentari restando aggrappato al suo potere». La politica americana, che pure non è affatto immune da episodi di corruzione, è abituata a punire i rei confessi, a isolarli. Ma le parole durissime del presidente dei repubblicani dell’ Ohio Bob Bennett contro Ney, un deputato del suo stesso partito e del suo stesso Stato che venerdì scorso si è dichiarato colpevole di corruzione (favori politici in cambio di alcuni viaggi di piacere e di 50 mila dollari ricevuti sottobanco), hanno colpito anche gli osservatori più smaliziati. Tanto più che, pressati dai deputati dell’ Ohio, tutti i principali leader del fronte conservatore, a partire da Dennis Hastert e John Boehner, i capi del partito repubblicano alla Camera, hanno firmato un documento che ha il sapore di una frettolosa sepoltura politica: «Non c’ è posto per Bob Ney in questo Parlamento. Se non si dimette subito, saremo noi a prendere l’ iniziativa di espellerlo: sarà il primo ordine del giorno alla ripresa dei lavori del Congresso, dopo le elezioni del 7 novembre». In altri tempi la scelta di Ney di tergiversare per qualche tempo prima di dimettersi, avrebbe suscitato critiche assai più blande. Non oggi, a tre settimane da un’ elezione di «mezzo termine» nella quale i repubblicani – in piena crisi per un’ ondata di scandali, l’ «impasse» in Iraq e la scarsa popolarità di Bush – rischiano di perdere il controllo sia della Camera che del Senato. E non solo in Ohio che è l’ epicentro della crisi. Nel sistema americano i parlamentari uscenti che si ricandidano partono in netto vantaggio: nelle precedenti votazioni solo sette di loro mancarono la rielezione. Ma stavolta è diverso. Gli stessi strateghi del partito conservatore considerano ormai probabile un «sorpasso» che, ancora poco tempo fa, sembrava impensabile (i repubblicani partono da una maggioranza di 15 deputati e 5 senatori). Nell’ Ohio, il campo di battaglia decisivo per l’ elezione di Bush alla Casa Bianca nel 2000 e poi per la sua riconferma due anni fa, si delinea insomma un ribaltamento dell’ assetto politico: uno Stato in cui il governatore uscente, la maggioranza del parlamento statale, i due senatori e 11 dei 18 deputati sono repubblicani, a novembre eleggerà un governatore democratico (nei sondaggi Ted Strikland è in vantaggio di ben 28 punti sul candidato repubblicano Ken Blackwell), mentre i democratici sono convinti di poter conquistare anche il seggio senatoriale in palio e di prevalere in almeno dieci collegi per la Camera (oggi ne hanno sei). Un ottimismo suffragato dai dati delle rilevazioni, come confermano i sondaggi dal New York Times al Wall Street Journal. L’ Ohio, Stato considerato un’ «America in miniatura», diviso com’ è tra un Nord industriale prevalentemente democratico e un Sud agricolo profondamente conservatore, è da anni terreno di caccia dei repubblicani che sono riusciti a imporre la loro «politica dei valori» e a mobilitare i cristiani evangelici che per decenni si erano astenuti dal voto. Perché, ora, un cambiamento così radicale? Perché, come spiega Carl Wiser, commentatore politico del Cincinnati Enquirer (giornale conservatore di una città conservatrice), in Ohio si è scatenata una specie di «tempesta perfetta» nella quale tutto – la crisi dell’ industria manifatturiera, lo scandalo finanziario che ha travolto il governatore uscente Taft, la corruzione di Ney e perfino lo scandalo a sfondo sessuale di cui è protagonista Mark Foley – generano scosse telluriche che si scaricano su questo Stato (Foley è della Florida ma alcuni repubblicani accusati di non aver denunciato il caso di molestie a minori, pur essendone a conoscenza, sono parlamentari dell’ Ohio). John Green, politologo dell’ Università di Akron che due anni fa aveva previsto la vittoria di misura di Bush in Ohio, grazie al voto massiccio dei cristiani conservatori, stavolta la pensa diversamente: «Mobilitare gli evangelici, spingerli a votare, sarà difficilissimo, visto il clima di sfiducia che circonda il partito repubblicano. E il caso Foley aggrava la situazione». Guerra, scandali, fabbriche che chiudono, sono circostanze negative messe bene in fila. A trasformarle in tempesta perfetta è il contraccolpo del successo colto nel 2004 sul fronte evangelico. Allora Karl Rove, lo stratega di Bush, riuscì a portare alle urne alcuni milioni di cristiani integralisti. Ma la cosa non finì lì: nei due anni successivi sono emersi candidati come il nero della destra radicale Ken Blackwell che ha strappato ai moderati la «nomination» repubblicana a governatore, proprio grazie all’ appoggio degli evangelici. Ma la maggioranza moderata considera Blackwell un pericoloso corpo estraneo e gli sta facendo mancare il suo sostegno. Intanto, i nuovi elettori della destra protestante vogliono che Bush attui subito la loro agenda etica: stop all’ aborto e inserimento nella Costituzione del divieto dei matrimoni gay. Quando il presidente ha ribadito a parole i suoi impegni ma poi non ha fatto seguire i fatti, è cominciato il malessere degli evangelici che, dopo gli scandali, si sono ancor più allontanati dal partito repubblicano. Sono conservatori nel profondo e quindi non voteranno democratico, ma molti di loro sicuramente il 7 novembre resteranno a casa. La slavina Blackwell sembra destinata a travolgere anche il senatore Mike DeWine: a Washington è una potenza, ma nel cortile di casa è stato raggiunto e superato nei sondaggi dal candidato democratico Sherrod Brown. I democratici, partito diviso e tuttora senza una strategia definita, recuperano terreno grazie alle colpe altrui e alle loro furbizie tattiche. Due anni fa i repubblicani erano riusciti a legare il voto per Bush alla questione dei valori affiancando all’ elezione del presidente un referendum sui matrimoni gay. Stavolta i democratici hanno promosso un referendum statale per l’ aumento del salario minimo da 5,15 a 6,85 dollari l’ ora. «Pura demagogia? Probabilmente sì – ammette il responsabile del partito democratico di Cincinnati, Tim Burke -. Ma non vogliamo essere spiazzati un’ altra volta dalla spregiudicatezza e dalla demagogia dei repubblicani». Con i democratici che cercano di sottrarre ai loro avversari anche militari e veterani («non siamo pacifisti a oltranza, siamo contro chi vi manda in guerra senza equipaggiamenti e, quando tornate, vi abbandona alla disoccupazione»), per i repubblicani è difficile anche trovare argomenti convincenti nel dialogo con gli elettori. Il deputato Steve Chabot, arrivato nella casa di riposo «Evergreen», un pensionato per anziani ricchi immerso nel verde della valle del fiume Ohio, è la materializzazione delle difficoltà del partito di Bush: prende le distanze dal presidente sulla guerra in Iraq e sulla spesa pubblica, si tiene sulla difensiva sui temi economici. Poi sceglie come terreno d’ attacco quello degli immigrati: «Vengono qui a ondate, senza controlli. Alcuni lavorano, altri portano criminalità. E poi costano: vogliono sanità, pensioni e, se hanno un bambino, mandarlo alla scuola pubblica costa 8000 dollari l’ anno. Pagate voi». La platea non è certo progressista, ma non è convinta. Si alza una signora: «Scusi, ma se vengono, lavorano onestamente e fanno quello che noi non vogliamo fare, perché i loro figli dovrebbero restare analfabeti?».