Silenzio sulla Palestina. Mentre la cloracne del leader ucraino Yuscenko raggiunge i 5 continenti, sulla morte di Arafat – «fatto fuori», emarginato, cancellato – è sceso l’inesorabile silenzio. Mentre in queste ore i carri armati israeliani continuano ad invadere e ad uccidere in esecuzioni feroci quanto mirate. Sharon manda a dire che il 2005 sarà l’anno della svolta «storica» con i palestinesi. Intanto li uccide. Peccato che restino i nodi «geografici» del suo ritiro unilaterale solo da Gaza e non quello, vero, dalla Cisgiordania, dove gli insediamenti e le presenze militari vengono invece incentivati. Alla fine la Palestina, senza continuità territoriale, persa dentro un ginepraio di colonie e avamposti militari, come potrà definirsi «stato»?
Abu Mazen, il leader palestinese e nuovo candidato a presidente dell’Anp – salutato con fervore da Usa e Israele, che però sono pronti a trattarlo peggio di Arafat appena comincerà a dire di no – mostra di diffidare delle profferte di Sharon (e di Peres). Sa che, appena si diraderà la nebbia, emergerà con chiarezza il buio più nero sui contenuti di fondo: il ritiro da Gaza e da Cisgiordania, il ritorno ai confini del 1967, l’abbattimento del Muro che ruba terra palestinese, il rientro dei profughi, Gerusalemme est capitale. Una consapevolezza, la sua, cosciente anche della debolezza attuale del fronte palestinese e di Al Fatah in particolare, dalla quale è stato designato e che pure si è immediatamente riorganizzata dopo la morte di Arafat. Certo, pesa il boicottaggio di Hamas, ma soprattutto il fatto che il gradimento di Abu Mazen era, e probabilmente resta, eguale a quello di Marwan Barghuti, il leader indiscusso del movimento della seconda Intifada. Basta a rafforzare la compagine palestinese allora il fatto che Barghuti, da due anni e mezzo nelle prigioni israeliane, abbia ritirato la sua candidatura invitando a «votare e a sostenere con forza Abu Mazen»? No, non può bastare. E’ tempo che non solo i palestinesi, ma noi tutti, la sinistra che si «consulta» e che ha a cuore la pace in Medio Oriente – che Bush vuole democratizzare a cannonate – alziamo la voce, chiedendo la liberazione di Marwan Barghuti. L’unico leader che può rafforzare ogni tavolo negoziale e che si è sempre rivolto direttamente al popolo israeliano – anche in ebraico. «Auguro ad Abu Mazen ogni successo nella sua missione per ottenere la liberazione, il ritorno dei profughi, l’indipendenza, la pace e la democrazia nazionale – ha detto Barghuti ritirandosi definitivamente – ma nei negoziati deve essere mantenuta l’opzione dell’Intifada e della resistenza».
Già. l’Intifada. Una rivolta di massa contro la prepotenza dell’occupazione militare israeliana che non ha esitato ad usare gli F-16 contro i campi profughi, partita nell’ottobre 2000 dopo la passeggiata di Sharon sulla spianata delle Moschee, costata più di tremila morti palestinesi e circa mille israeliani, migliaia di case demolite, intere piantagioni sradicate per una terra ripulita per sempre etnicamente. Quel movimento non può essere ridotto alla vergognosa e sanguinosa sequenza di attentati kamikaze contro i civili israeliani. Quella è stata una degenerazione contro cui lo stesso Barghuti si è scagliato più volte, rivendicando però il diritto alla resistenza contro l’occupante e i suoi avamposti coloniali. Nella più completa solitudine palestinese. Chi ha provato a solidarizzare fermando con il proprio corpo le ruspe di Sharon, è stato schiacciato come Rachel Corrie. Barghuti è rinchiuso nel carcere di Bersheva, condannato a 5 ergastoli, «uscirà» tra 100 anni. Ma un movimento d’opinione può chiedere la sua liberazione. Subito. E’ interlocutore addirittura il presidente della repubblica israeliana Katzav che si è detto «pronto a discutere la grazia a Marwan Barghuti se verrà chiesta». Intanto è un silenzio di morte. E farsa. Lo stato maggiore israeliano comunica che per il 9 gennaio, data delle elezioni palestinesi, l’esercito si ritirerà per 72 ore per garantire il «voto libero». Poi rioccuperà.