Pubblichiamo un interessante intervento di Claudio Bettarello sul
sistema bancario italiano. Riteniamo utile questo contributo – che
affronta con competenza questioni cruciali – anche se pensiamo che su
taluni passaggi si richiederebbe un supllemento di analisi.
Il problema dei rapporti tra area dell’euro e area del dollaro è
cruciale (e pone la questione di come partecipare in maniera non
subalterna al processo di ulteriori concentrazioni). Il problema non può
tuttavia ridursi all’opposizione tra capitale estero (da avversare) e
capitale italiano (da difendere).
Nel concreto, sarebbe forse opportuno distinguere tra l’operazione
BPL-Antonveneta e quella Unipol-BNL. La prima presenta profili assai
discutibili.
Stando ad autorevoli analisti, appare ben fondato il dubbio che la Banca
di Lodi non disponesse dei requisiti patrimoniali e manageriali per
l’acquisizione (e lasciamo stare qui tutto ciò che ha fatto da sfondo
all’operazione, con i noti, pesanti coinvolgimenti dei vertici di
Bankitalia). L’acquisizione di BNL da parte di Unipol sembre invece
rientrare nella fisiologia delle concentrazioni, in una fase nella quale
l’integrazione banca-assicurazione costituisce una delle grandi linee di
tendenza. L’unico dubbio in proposito concerne semmai la valutazione
dell’istituto bancario, forse sopravvalutato. Ma su questo aspetto sarà
possibile pronunciarsi solo in futuro, alla luce dei concreti sviluppi
dell’operazione
La Redazione de l’ernesto online
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L’articolo di Andrea Ricci (“Il sistema bancario terreno di caccia del capitale straniero”), pubblicato su Liberazione del 10 agosto, rappresenta un contributo di analisi certamente interessante (a tratti originale, in molte parti condivisibile) sulle cronache bancarie che animano quest’estate italiana.
A mio parere, la sua rilevanza potrebbe essere ancora maggiore se fosse assunto come “punto di partenza” per riavviare, all’interno di Rifondazione e della sinistra di alternativa, un ragionamento collettivo sulle dinamiche in atto nel sistema creditizio e finanziario, al fine di dotarci di una “visione” quanto più possibile coerente e condivisa, elemento indispensabile per sviluppare e ridefinire (se necessario) le nostre proposte programmatiche sul settore.
Insomma, si tratta di riempire uno tra i più importanti “post-it”, anche perché quando si discuterà all’interno dell’Unione, in questa più che in altre materie, bisognerà davvero essere preparati …
Sottolineo la necessità di una riflessione collettiva perché, nel numero davvero inconsueto di interventi e di dichiarazioni che molti compagni con ruoli di Direzione del Partito hanno recentemente fatto su banche e dintorni, accanto a tante cose giuste, vi sono anche affermazioni sconcertanti o talune pericolose amnesie.
E, soprattutto, è difficile mettere tutto insieme.
A questo proposito, trovo davvero singolare (e grave) che in tutto questo baillame non si sia mai trovato il tempo per coinvolgere l’Ufficio Credito ed Assicurazioni (che non si riunisce da quasi un anno…). Sono certo che le compagne ed i compagni del settore avrebbero potuto dare un contributo significativo (anche a partire dalle elaborazioni pregresse), non foss’altro che perché all’interno dell’Ufficio o nella rete di contatti esistenti vi sono lavoratori e quadri sindacali di molte aziende coinvolte.
Nell’attesa dell’auspicata riflessione collettiva, mi limito quindi ad alcune prime e sintetiche considerazioni personali che si riallacciano alle cose dette da Ricci nell’articolo ricordato all’inizio.
1) E’ assolutamente corretto far discendere anche le attuali vicende dalle modalità (radicali ed accelerate) con le quali, a partire dagli inizi degli anni novanta, è stato avviato il processo di integrale privatizzazione del sistema bancario italiano.
Nelle condizioni date, ciò significava innescare un imponente processo di concentrazione su più fasi e, a regime, consegnare (spesso a prezzi di saldo) la proprietà ed il controllo della maggior parte dei grandi e medi gruppi bancari o al capitale estero o ad avventurieri nostrani o alle “grandi famiglie” indebitate e decadenti. Il tutto sotto la guida o con il concorso di arroganti tecnocrazie non più direttamente legate alla politica ma al Mercato, in una miscela di autoreferenzialità e di appartenenza a frazioni, famiglie, correnti politico-economiche.
Continuo a credere che il disegno strategico che stava dietro la scelta di privatizzare il sistema bancario, sotto la spinta ideologizzata del processo di unificazione europea, fosse molto chiaro e si sia perfettamente realizzato: consisteva nell’aprire nuove immense occasioni di business e di profitto (anche in collegamento con la programmata distruzione del welfare) e, come derivata, privare di ogni sostanziale possibilità di intervento e di controllo pubblico e democratico un settore nevralgico dell’economia.
Ne hanno pagato e continuano a pagarne il conto l’utenza e la clientela (soprattutto le fasce popolari), i lavoratori del settore (in specie le giovani generazioni), l’intero sistema-paese.
2) Ricci sostiene (invece) che il disegno strategico di allora “… mirava a trasferire la proprietà delle banche a grandi fondi di investimento istituzionali, che sarebbero dovuti nascere a seguito della privatizzazione del sistema previdenziale e di welfare”. Non concordo, ma soprattutto mi sconcerta il seguito: “Questa prospettiva trovò allora particolari consensi nell’ambito della sinistra moderata perché evocava l’avvento di una nuova era di “capitalismo popolare”.
Quello che mi preme riaffermare e che non può mai essere sottaciuto (per evitare fraintendimenti) è che il processo di privatizzazione del sistema bancario italiano non affascinò, in qualche modo, la sinistra moderata italiana ma venne pensato, avviato, diretto e in gran parte realizzato da uomini e correnti di pensiero che oggi guidano il centro-sinistra. A questo proposito basti ricordare che le leggi-chiave che hanno rivoluzionato il sistema si chiamano Amato, Dini e Ciampi o è sufficiente andare a rileggersi gli interventi di allora degli economisti di area PDS-DS (che sono gli stessi di oggi).
Certo, le cose possono sempre cambiare e, ad esempio, negli ultimi anni, persino nella sinistra moderata qualcuno ha cominciato a rivalutare il ruolo delle Fondazioni ex-bancarie come elemento di stabilità del sistema (parte della destra, per la sua strada, lo aveva già fatto).
Naturalmente, non possiamo (ancora?) sperare di far inserire nel programma dell’Unione quanto dice Ferrando, che propone la nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo, e la costituzione di un’unica banca nazionale sotto il controllo dei lavoratori. E nemmeno, temo, quanto dice Cannavò (con il quale concordo) che si limita (!) a proporre una BNL pubblica con il concorso partecipato di lavoratori e risparmiatori.
E tuttavia, il “nodo” rappresentato dal fatto che tra noi e il centrosinistra vi sia un giudizio radicalmente diverso sulle dinamiche che hanno caratterizzato il sistema bancario nell’ultimo ventennio non può essere facilmente eluso, se si vuole governare assieme un’economia a capitalismo avanzato.
Quanto meno, dobbiamo saper riproporre con coerenza e in ogni occasione il nostro “punto di vista” e, guardando al futuro, mettere nero su bianco che cosa intendiamo concretamente, con riferimento al settore bancario, quando parliamo della necessità dell’avvio “di una nuova fase di programmazione e di intervento pubblico”. In primis, parliamo solo di regole o anche di proprietà?
3) Sulla Banca d’Italia. Se le ricette che proponiamo sono condivisibili (ripubblicizzazione della proprietà, mandato a termine, gestione più collegiale, controllo del Parlamento…) suscitano dubbi (che l’articolo di Ricci non contribuisce a fugare) alcune affermazioni che sono state recentemente fatte sia del Segretario sia di altri compagni. Da un lato mi pare ci sia un eccesso di prudenza e di moderatismo nei confronti dell’Istituzione; dall’altro si tende a fare una cesura, davvero troppo schematica, tra la “gestione Fazio” e le precedenti.
Lungi da me, naturalmente, qualunque difesa dell’attuale Governatore (che anzi avremmo dovuto per primi invitare ad andarsene) e, tuttavia, non c’e’ un passato così “virtuoso” da rimpiangere.
Parlando “genericamente” di minore o maggiore autonomia della Banca d’Italia rischiamo di contribuire ad accreditare l’idea che l’Istituzione, in qualche tempo, sia stata davvero super-partes rispetto alle dinamiche sociali ed al conflitto di classe.
Meglio allora, come si faceva una volta, dire che la Banca d’Italia sceglie autonomamente da che parte stare (ed è sempre la stessa)…
Basti pensare proprio al processo di privatizzazione del settore bancario, pesantemente sostenuto da Bankit (Governatore Ciampi). Ricordo bene (allora lavoravo al servizio studi di una grande banca pubblica) l’impatto fondamentale che ebbe, nel febbraio 1988, la memoria “Ordinamento degli Enti pubblici creditizi. L’adozione del modello SpA.” che avviò, con argomentazioni fortemente ideologiche, la demolizione stessa del concetto di banca pubblica nel nostro paese.
E anche in merito al prestigio ed all’autorevolezza della Banca Centrale, al di là delle capacità e dello stile degli uomini che l’hanno per tempo diretta, la “mutazione genetica” è oggettivamente legata alle profonde trasformazioni avvenute nel sistema e alla progressiva riduzione dei propri strumenti di intervento.
Ovviamente era molto più facile esercitare “con stile” la moral suasion e la direzione strategica del settore quando circolava la lira e le banche erano tutte pubbliche o da poco privatizzate; è più difficile oggi, con l’euro e la BCE, e quando i grandi gruppi bancari (con azionisti esteri di riferimento) hanno ormai imparato (più o meno) a camminare da soli nel mercato globale.
4) Siamo stati tra i primi (e soli) a denunciare i rischi di “colonizzazione” del sistema bancario italiano. Oggi, bocciamo senza appello (vedi comunicato stampa di Paolo Ferrero) la scalata dell’Unipol a BNL (che blocca gli spagnoli) o quella di BPI ad Antonveneta (che cercava di bloccare gli olandesi). C’e’ una contraddizione? Assolutamente no, ma occorre precisare meglio.
Quello che dovrebbe essere un ragionevole obiettivo di politica economica (che vi sia un’internazionalizzazione del nostro sistema bancario equilibrata e bidirezionale) non può essere il criterio prevalente di giudizio di ogni singola operazione, soprattutto quando vi sono coinvolte banche nazionali di media dimensione e in non grandi condizioni di salute.
Nel giudicare le operazioni di fusione/concentrazione che il Mercato propone (e, se possibile, nel suggerirne di altre, alternative) altri fattori per noi devono entrare in gioco, soprattutto in un’ottica di medio-lungo periodo: la tenuta dei livelli occupazionali, le condizioni normative e salariali dei lavoratori, la solidità patrimoniale degli acquirenti, l’impatto sulla qualità dei servizi offerti alla clientela privata e sul sostegno al tessuto socio-economico locale.
Sotto molti di questi profili, evidentemente, operazioni nate sotto il segno della speculazione finanziaria e del capitalismo rampante non possono trovarci favorevoli.
Ma Ricci, nel suo articolo, conclude dicendo che nelle partite Antonveneta e BNL tutti i protagonisti nostrani “sono soltanto delle pedine con scarsa o nulla autonomia strategica” e che il confronto, tutto interno al capitale globale, è tra un opzione “europea” (creazione di grandi gruppi bancari dell’area euro in grado di competere a livello mondiale) e una “americana” (che si muove in direzione opposta). In tale scenario (che credo rifletta bene le tendenze di fondo dell’attuale competizione globale neoliberista) per noi, sostenitori di un modello economico alternativo e di un’idea di politica “alta”, non varrebbe quindi la pena di schierarsi da una parte o dall’altra dei contendenti.
Se capisco bene, non concordo. Al di là dei casi specifici, mi sembra che una simile lettura porterebbe all’inazione ed alla sospensione di giudizio su tutti i processi di ristrutturazione del settore in corso. Davvero il loro esito è neutrale rispetto alla possibilità di avviare una “nuova fase di programmazione e di intervento pubblico nell’economia”? E rispetto alla sua efficacia? Con quali obiettivi di fase ci muoviamo, se vogliamo aprire nel settore che è il cuore ed il cervello del neoliberismo spazi “autonomi dagli interessi del grande capitale globale”?
Banalmente: tra pochi giorni le principali banche italiane potrebbero diventare, complessivamente, il primo azionista del Gruppo Fiat. Ci sono indifferenti i loro assetti proprietari di oggi e di domani?
Torino, 20 agosto 2005
*Coordinatore Nazionale Ufficio Credito ed Assicurazioni (ad interim) e CPN