Voloshin via

Mosca. Una volta si tendeva a indicarli tutti come membri della stessa “famiglia”: quella allargata di Boris Eltsin. Ma, come avvertiva il vecchio Lev Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina, “tutte le famiglie felici si somigliano; tutte le famiglie infelici sono infelici alla loro maniera”. Le dimissioni del capo dell’Amministrazione del Cremlino, Aleksandr Voloshin sanciscono un divorzio nell’aria da tempo. Se ne parlava dall’anno scorso, erano state annunciate sulla stampa, e poi smentite. Il successore era stato identificato nel direttore del Fsb (l’erede del Kgb) Nikolai Patrushev. Gli analisti russi concordavano nell’indicarlo come logica conclusione del braccio di ferro tra i due rami della “famiglia”, quello che aveva come esponente di punta il 47enne Voloshin, il primo economista a occupare il ruolo chiave di eminenza grigia dello zar al Cremlino, e quello dei “siloviki”, gli uomini dei “servizi” (tra i cui esponenti figurano, oltre a Patrushev, il vice di Voloshin, ed ex capo del Kgb a San Pietroburgo, Viktor Petrovich Ivanov, il capo della segreteria di Vladimir Putin Igor Sechin, il ministro della Difesa Sergei Ivanov, quello dell’Interno Boris Gryzlov). Il Financial Times ipotizza che il passo successivo potrebbe essere la sostituzione del premier Mikhail Kaysanov con una personalità più gradita ai siloviki. Un equilibrio tra le due anime del Cremlino aveva retto a lungo. E’ saltato con l’arresto del magnate del petrolio Mikhail Kodorkovsky. Il Moscow Times, la cui acquisizione da parte di Khodorkovsky potrebbe essere stata la scintilla che ha dato fuoco alle polveri, scrive che “in Russia c’è stato un colpo di Stato, i servizi di sicurezza hanno preso il potere. Tutti sapevano che il golpe era nell’aria. E il presidente Putin non ha fatto nulla per impedirlo”. Qualcuno lo ha definito “prigioniero” degli ex colleghi dei servizi. C’è chi, come il politologo Mark Urnov, presidente del think tank Ekspertiza, sostiene che, cercando di porsi al di sopra delle parti, avrebbe finito col divenire “il più perdente di tutti”. Altri credono che sia Putin a tirare i fili. Se abbondano voci, analisi, dietrologie su chi sta litigando con chi, molto meno chiaro, a differenza del per cosa, è su cosa stiano litigando. A prima vista Voloshin appariva come orientato verso l’economia di mercato, per dare maggiore spazio alla libera impresa, verso una maggiore integrazione della Russia nell’economia mondiale. Era l’“americano” della compagine. Lo consideravano lo “specialista” nelle missioni internazionali difficili. Che si trattasse di volare a Washington per tessere compromessi dell’ultimora, piani alternativi alla guerra per l’Iraq, o convincere gli europei a portar pazienza sulla Cecenia. In questo quadro avrebbe difeso la strategia di cessione ai giganti americani del petrolio della Yukos-Sibneft di Khodorkovsky, non solo per vecchia “simpatia” nei confronti degli “oligarchi” (la questione è anche non averli tutti contro il Cremlino, nello stesso momento), ma anche in vista delle ripercussioni negative che l’esplodere delle faide interne avrebbe potuto avere sulla fiducia degli investitori stranieri, che avevano ritrovato un Eldorado in Russia. Ora Putin perde il garante, l’ispiratore e il tessitore dei rapporti diplomatici ed economici tra Washington e Mosca. E’ una grave perdita. A guardia dei misteri L’ambizione dei “siloviki” (qualcuno li definisce anche “chekisti”) è stata invece presentata da Yuri Ovchenko (che in quanto funzionario del Fsb e direttore dell’Istituto per la sicurezza economica potrebbe essere considerato loro portavoce) come ancora più “riformatrice”: anziché di una congiura di palazzo da parte dei servizi, si tratterebbe di un piano per guidare la transizione “da un sistema oligarchico a un sistema nazionale”, “eliminando le conseguenze catastrofiche delle riforme del 1992-99” e “riconsiderando i risultati delle privatizzazioni illegali”. Detto così, sembrerebbero discepoli del Nobel per l’economia molto liberal Joseph Stiglitz. Ma c’è chi avverte di non farsi incantare dalle apparenze. “La Russia è come Bisanzio, vive di intrighi dietro le quinte”, dice Boris Nemtsov. E Putin? Fa la sfinge a guardia dei misteri. Nel suo studio ha un ritratto di Pietro il Grande, lo zar che voleva “occidentalizzare” la Russia. Quando gli chiedono chi sia il personaggio che ammira di più e che assumerebbe come consigliere, risponde: Stolypin. Piotr Arkadievic Stolypin era stato il premier riformatore che all’inizio del ’900 aveva introdotto il culto della proprietà privata in Russia. Fu anche quello che introdusse i tribunali speciali per i “nemici dello Stato” e ne fece impiccare 600 (il cappio fu ribattezzato “cravatta di Stolypin”). Non fece in tempo a veder travolgere il suo riformismo dalla rivoluzione. Fu ucciso nel 1917 dalle pallottole di un terrorista a Kiev.