Quando cominciano a girare le voci è perché qualcuno le mette in giro. Così è anche per l’aumento dell’età pensionabile delle donne, che alcuni quotidiani sparavano in buona evidenza ieri. Visto che si vive di più, spiegano, potrebbero tranquillamente andarsene via dal lavoro a 62 anni, invece che agli attuali 57 (con lo «scalone», che invece dovrebbe essere abbattuto, sono stati portati a 60).
E’ toccato al ministro del lavoro, Cesare Damiano, peraltro impegnato insieme al suo partito (i Ds) nel difficile transito verso quello «democratico», smentire decisamente l’ipotesi. «Si tratta di ricostruzioni giornalistiche»; anche perché, concludeva «le proposte si fanno al tavolo della trattativa» sulla riforma della previdenza.
Peccato che negli stessi minuti il suo prossimo compagno di partito, Tiziano Treu – ieri ancora esponente della Margherita ma, soprattutto, presidente della commissione lavoro del Senato – andava illustrando la tesi esattamente opposta: «penso che l’età di pensionamento di vecchiaia delle donne sia un orientamento utile». Non si trattava solo una battuta infelice, ma di una visione della società rivendicata a tutti gli effetti. «Si potrebbe studiare un bonus per i figli; un anno di anticipo di pensione a figlio, come accade in Germania. Così, mettendo il limite a 62 anni, chi ha avuto quattro figli esce a 58 e chi non ne ha avuto si ritira a 62». Sembra quasi una punizione per le donne che hanno scelto di non dare «figli alla patria», ma certo non si può dire che si tratti soltanto di una «ricostruzione giornalistica», visto il peso politico e il ruolo istituzionale che Treu ricopre.
Insomma: se non ancora nelle riunioni del governo, certo in quelle di qualche partito della maggioranza, l’idea ha preso piede e sta marciando spedita. Uno degli argomenti più usati per giustificare un simile – impopolare – provvedimento chiama in causa l’esiguità delle risorse ricavabili dal «tesoretto» per mettere in pratica la riforma dello «scalone». Lo stesso presidente dell’Inps, Gianpaolo Sassi, ha fatto capire di averne studiato attentamente l’effetto sui conti se altre misure – già decise e «vendute» agli organismi internazionali, come la revisione dei coefficienti di calcolo o lo stesso «scalone» – dovessero essere bloccate dall’opposizione dei sindacati o della sinistra nel governo: «bisognerebbe trovare alternative, ma non è che ce ne siano moltissime. Ad esempio, sullo scalone, possiamo modificarlo. Ma quello che conta, come dice il ministro dell’economia, è che i conti rimangano invariati». Come si vede, il ragionamento dei «ragionieri» è lineare: l’unico problema di cui si deve tenere conto è il saldo finale tra entrate e uscite, mentre tutto quello che accade in mezzo (vita delle persone, in primo luogo) è un banale «effetto collaterale». Lo stesso Treu, del resto, non ha fatto mistero di considerare l’età pensionabile femminile come «una compensazione» per i mancati risparmi derivanti dall’eventuale modifica dello «scalone».
Le parole di Damiano appaiono, in questo quadro, più una personale presa di distanze dalle ipotesi «più estreme» che viaggiano nella maggioranza che non una smentita vera e propria. Ipotesi che rischiano di creare ulteriori problemi ai «tavoli» già aperti e, a maggior ragione, a quelli che si stanno per aprire. «C’è poco tempo per la concertazione», ha spiegato a chi gli chiedeva se la riforma previdenziale andrà in porto in tempo utile per impedire che dal primo gennaio scatti la tagliola per centinaia di migliaia di pensionandi. E quindi «questo lavoro si deve concludere prima dell’avvio del lavoro sul Dpef», che detta le linee per la legge finanziaria. Entro giugno, dunque.
L’entità del guasto che questa e altre sciagurate «ipotesi» similari possono provocare è stata esemplificata da Guglielmo Epifani: «Il governo sia conseguente: in caso contrario, si potrebbe avere un’altra conclusione, quella in cui gli accordi non si firmano». Lapidario anche sul tema del giorno: «E per quelle donne che hanno un solo figlio, e magari disabile? E per quelle che si occupano anche di anziani, di nonni? Cosa si propone?». Come dire: attenti a pensare a soluzioni «ragionieristiche» che poi – basterebbe fare l’esempio della riduzione Irpef, praticamente inavvertita ai livelli medio-bassi di reddito – sbattono pesantemente contro la condizione (e il consenso politico) di chi lavora. O semplicemente deve cercare di sopravvivere.