Vogliono uccidere Orso che corre

Non è un santo né un pericolo pubblico. E’ uno dei tanti nativi negli Usa a cui è stata rubata la geografia, falsificata la storia, usurpata la realtà quotidiana
Un sistema giudiziario corrotto e sempre più repressivo, peggiorato dopo l’11 settembre, caccia le sue prede tra i poveracci, i pazzi, i neri. E i Pellerossa

«L’unico indiano buono è quello morto». Il famoso detto del generale Philip H. Sheridan ai tempi del Far West, pare sia, ancora oggi, terribilmente attuale nell’immaginario collettivo del mondo alieno di mister George W. Bush. Fra poco più di due mesi, infatti, un vecchietto cherokee-choctaw dell’Oklahoma, 76 anni a gennaio, tre volte infartuato, diabetico, quasi cieco, ormai ridotto sulla sedia a rotelle, che grida la sua innocenza sicuramente inutile a un’America guerriera, tutta bibbia & moschetto. Se ne sta in fila, aspettando il suo turno, nei bracci della morte di San Quentin, California. E’ in attesa del serial killer di stato, il boia… Dopo 27 anni di galera. Sia chiaro. Ya-nu-a-di-si, Orso che Corre in lingua cherokee, alias Clarence Ray Allen, non è uno stinco di santo né un pericolo pubblico. E’ uno dei tanti delle altre Americhe che conosciamo a memoria: riserve, barrios, ghetti, periferie casalinghe dell’Impero, pascoli d’asfalto di gente di terza categoria, sempre sul filo del rasoio, potenziale candidata alla forca, che «vale meno, mangia meno, ricorda meno, vive meno, dice meno» e muore di più nei loculi in cemento-acciaio di un metro e mezzo per tre delle supergalere hightech sparse per l’America, stipate di 3500 morituri.

Per dirla tutta, Orso che corre è uno dei soliti, tanti, troppi nativi nordamericani «residuati storici», condannati alla diseguaglianza; uno a cui, notava Eduardo Galeano, «è stata rubata la geografia, saccheggiata l’economia, falsificata la storia, usurpata la realtà quotidiana», con l’aggiunta del ladrocinio della vita.

Il mattatoio di stato

La sofisticata «macelleria» giudiziario-legislativa a stelle a strisce con il suo ingranaggio truccato – diritti e libertà formali a iosa e loro minima applicazione pratica e sostanziale – storicamente è stata spietata con i Popoli del Grande Spirito, prima falcidiati con le armi e i superstiti, poi, diventati vittime sacrificali di un sistema babelico con norme differenziate. Un double standard di diritto. Uno per gli eroi bianchi, i Wasichu, e un altro per i dannati: per i neri con la legislazione cosiddettta di Jim Crow, e per i Pellerossa con un’altra legislazione datata 1885 e tuttora vigente e fatta apposta per le loro tribù che non avevano né leggi, né giudici, né prigioni, né manicomi.

Un sistema giudiziario spesso corrotto, farraginoso e sempre più repressivo, a detta degli stessi operatori della giustizia è diventato dopo l’11 settembre con la legislazione antiterrorismo una seria minaccia per l’integrità della stessa giustizia nordamericana e i diritti, la privacy e le libertà dei cittadini di ogni ceto e colore. Un sistema che ha solitamente cacciato le sue prede soprattutto tra gli indifesi, «i poveracci, i pazzi, i neri, i falliti, gli insultati e i feriti, i peccatori estatici…» (Kerouac). Una sorta di roulette taroccata che sforna sempre gli stessi «numeri neri» di morte: minoranze coloured, indigenti, handicappati, minorati, babycriminali, poveri cristi. Con l’illusione di poter estirpare il carnefice che si cela nei recessi oscuri e violenti di ognuno.

Insegnano a uccidere

La nuova legislazione controllerà ogni aspetto della vita quotidiana degli americani – ha dichiarato un avvocato del National Lawyers Guild; e secondo l’American Civil Liberties Union, il disegno politico dei teocon è quello di creare negli Stati uniti uno stato di polizia. Come base per un sempre più perfetto gendarme globale? Una macchina giudiziaria tanto più pericolosa perché possiede la vita dei propri cittadini: non solo uccide, ma quel che è più grave, come scriveva Luigi Pintor, insegna ad uccidere dal suo pulpito minaccioso. Con l’aggravante che nel corso dei secoli non ha mai prodotto gli effetti sperati dagli irriducibili cultori del totem del taglione. L’«industria del delitto» è l’unica al mondo a tutt’oggi che non ha mai creato disoccupati.

E poi, «la pena di morte non è un diritto ma è una guerra della nazione contro un suo cittadino» (C. Beccaria). Uno stato-padrone che gestisce una pena assoluta, senza scampo, irreversibile, la cui schizofrenica applicazione, gli errori, l’assistenza legale inadeguata, le violazioni di procedure, le discriminazioni sociali, razziali, le montature poliziesche (emblematici i casi dell’Objiway-Sioux Leonard Peltier e dell’afroamericano Mumia Abu-Jamal), portano troppo spesso al patibolo persone risultate poi innocenti. Come, del resto, hanno più volte documentato i rapporti di Amnesty International, le analisi e gli studi della Columbia Law School sulle sentenze capitali negli Stati uniti, e come ha evidenziato la ricerca pubblicata sulla prestigiosa The Stanford Law Review. Chi ricorda i casi eclatanti di James Adams giustiziato nel 1984, Doyle Skillern e Roosevel Green 1985, Jesse D. Jacobs 1995, Joseph O’Dell 1997, Edward E. Johnson, Irineo Montoya, Anthony Westley e tanti altri, tutti innocenti?

Matricola B-91240

Orso che Corre, numero di matricola B-91240, quasi una vita da galeotto, sempre a un passo dal cappio, non ha mai avuto i signori dollari, i padrini e gli avvocati giusti per comprarsi una giustizia che negli Stati uniti, si sa, non è per tutte le tasche. Nello sprofondo infernale dell’anticamera del patibolo di San Quentin, dove si vive una pallida morte distillata in secondi infiniti e uguali, «non c’è un ricco a volerlo cercare con il lanternino, e non sono l’unico qui, a San Quentin, ad essere innocente», commentava amaro Ray Allen, in Prigionieri dell’Uomo Bianco, Kaos Edizioni, uno dei suoi libri in cui è coautore insieme allo yaqui-aztec Fernando Eros Caro.

Anche tra avvocati e giuristi di fama – critici sull’applicazione della pena capitale per la scarsa equità e imparzialità – è diffusa l’opinione, confortata da dati empirici e da riscontri oggettivi, che gran parte dei detenuti si trovino nei bracci della morte non perché abbiano commesso i crimini più orrendi (in tanti casi è vero), ma perché appartengono a gruppi sociali ed etnici emarginati, sono i meno uguali d’America, hanno avuto i peggiori avvocati, e un inesistente conto in banca. Tant’è che per questo l’associazione dei 500 mila avvocati americani (Aba) ha più volte protestato e chiesto di fermare le esecuzioni, sollecitando il Congresso americano a intervenire per varare quella che chiamano Innocence Protection Act, per salvaguardare gli imputati meno garantiti che rischiano la pena capitale e dissipare «i seri interrogativi sull’equità della pena», come ha osservato anni fa il giudice della Corte Suprema, Sandra Day O’Connor.

La pena ai senza capitale

«Sapete cos’è la pena capitale in America, gente?», chiedeva sfottente John Spenkeling, prima di salire sulla Old Sparky, cioè la Vecchia Scintilla, com’è ribattezzata la sedia elettrica in Florida. «Ve lo spiego: quelli senza capitale si beccano la pena».Non si dimentichi, inoltre, che il crimine è un affare per lo stato: l’America è il più grande produttore di galeotti al mondo. Un business che ingrassa lobbies governative, industrie tessili, imprese edili, multinazionali. Si è convogliato un esercito, asservito e a costo zero, di forzati del lavoro nelle carceri sempre più privatizzate e trasformate in profitable enterprises (imprese redditizie, che sono naturalmente quotate a Wall Street), ma con le sbarre, cioè le factories with fences, mito di ogni capitano d’industria. I posti-cella sono conteggiati persino nelle statistiche sull’occupazione.

La storia di Orso che Corre

La travagliata storia di Ray, quasi «banale», è fotocopia di quella di molti figli sbandati, «esperti in devianza e disagio», della grande famiglia delle minoranze, afro, latinos, asiatiche o indiane che siano. Si dirà che è la solita vecchia solfa, ma i fatti sono questi. Infanzia da povero in canna, razzismo e pedate per colazione (poetici i suoi racconti sull’America degli anni Trenta e Quaranta, Parola di Vecchio Orso, Multimedia Ed.), hobo per necessità di lavoro, mille mestieri, da raccoglitore di cotone e patate a cowboy nei rodeo, a pilota di vecchi biplani. Poi, un’attività commerciale finita sul lastrico, un contabile ladro con le ali ai piedi, debiti col fisco. Una serie di rapine a mano armata per «rimediare» al fallimento. Avvocati d’ufficio a 25 dollari all’ora o poco più, una montagna di discriminazioni, una giuria composta da soli bianchi, in violazione di una legge federale che prevede il 15% almeno dei giurati della stessa etnia dell’imputato. Infine, una pena sproporzionata al reato e l’abisso nella famosa galera country di Folsom, quella immortalata da Johnny Cash in una famosa ballata. Mentre sta scontando l’ergastolo, la sua vicenda giudiziaria si fa ancora più drammatica. Si becca l’accusa di essere il mandante di un triplice omicidio, e dopo l’ultimo processo, che è eufemistico definire irregolare (durato appena venti giorni, nonostante la presenza di 60 testimoni, e con una giuria «biancocentrica»), è condannato a morte nel 1982. Sentenza confermata nel 1987. Data dell’esecuzione, per lo show di stato dell’olocausto umano, 17 gennaio 2006. Punto e basta.

Nelle mani di Schwarzenegger

L’unico ora che potrebbe salvargli la pelle è l’anabolizzato-terminator Schwarzenegger, governatore della California, a cui è stato fatto un appello, quasi senza speranza.

Chissà se la piccola grande tribù di pen friends di tutte le età che Ray Running Bear Allen ha in giro per il mondo, che si sta mobilitando in questi stracci di settimane, riuscirà a fermare il Funzionario statale estremo – in burocratese lo chiamano così il boia in America – prima che, in nome e per conto della dea bendata dagli occhi marci, inietti la morte nelle vene e negli ultimi sogni di Orso che Corre, che sta contando le ultime lune che gli restano.

Do-na-da-go, O-gi-na-li, a presto, amico.