Immaginate una scena aperta sulla elegante suite di un hotel. Scatti di tasti meccanici. Due zip di accendino. Una voce dice: «Adesso sta registrando, puoi andare tranquillo.» La scena è quella descritta da Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro, a cura di Antonio Attisani e Marco Dotti (per le edizioni Medusa). Le voci sono di Umberto Artioli e Carmelo Bene, e formano un testo/copione redatto dai curatori attraverso una fedele trascrizione delle registrazioni reperite tra le carte di Artioli dopo la sua morte improvvisa, nell’estate del 2004, a distanza di due anni da quella di Bene.
L’azione si svolge tra la fine del 1988 e l’inizio del 1989, quando i due uomini di teatro si incontrarono per concordare i termini di una possibile collaborazione; ma nonostante la convergenza dei loro progetti, quella collaborazione da entrambi immaginata non si realizzò mai. L’occasione specifica che diede luogo agli incontri dell’inverno ’88-’89 era stata costituita da una serie di anteprime della Cena delle beffe, spettacolo per il quale Artioli intendeva redigere una nota da inserire nel programma di sala.
In realtà, da tempo Artioli e Bene avevano riconosciuto nei rispettivi percorsi di ricerca orientamenti affini, sebbene venissero da esperienze diverse. Il primo, autore tra l’altro della prima monografia italiana dedicata a Antonin Artaud con il titolo Teatro e corpo glorioso (Feltrinelli, 1978) era uno studioso e uno storico del teatro dotato di straordinarie competenze nell’ambito delle tradizioni mistiche, gnostiche ed esoteriche, competenze delle quali si è nutrita una parte rilevante della teatrologia novecentesca. È proprio nel solco del teatro della crudeltà di Artaud che le sue ricerche hanno incrociato il lavoro scenico di Carmelo Bene, il quale viene ricordato in uno studio del 1984, intitolato Il ritmo e la voce. Alle sorgenti del teatro della crudeltà, come uno tra i frequentatori più consapevoli della bruciante eredità di Artaud.
Fu la lettura del Ritmo e la voce (ripubblicato nel 2005 da Laterza in una versione aggiornata e integrata dal lavoro attento di amici e allievi) a spingere Carmelo Bene a prendere contatti con Artioli. La loro frequentazione rimase sostanzialmente a distanza, se non fosse appunto per gli incontri motivati dal lavoro sulla Cena delle beffe, che offrirono l’occasione per un confronto serrato: come mostra il testo delle loro conversazioni, in gioco non c’era solo la preparazione di una nota di sala, ma anche l’eventuale condivisione di lavori a venire e, anzitutto, l’organizzazione della Biennale Teatro di Venezia di cui Bene era stato nominato direttore per il 1989.
Tuttavia, poiché nessun progetto si concretizzò dopo quegli incontri, le preziose registrazioni dei colloqui rimasero senza un seguito operativo o editoriale. La nota per la Cena delle beffe, intitolata «Il fascinans e il tremendum dell’inorganico», è riprodotta in appendice al testo della sbobinatura, insieme all’intervista che Artioli trasse dalle conversazioni registrate, e a una lettera che egli scrisse a Bene, nel 1996, in occasione del centenario di Artaud. Basterebbe il confronto tra i materiali delle registrazioni e i due testi che a partire da esse vennero composti da Artioli per mostrare l’importanza del lavoro svolto da Attisani e da Dotti. Colta nel vivo del suo sviluppo, infatti, la conversazione propone un movimento delle idee fatto di passi lesti e intrecciati in un dedalo di citazioni e incitazioni reciproche, con scatti improvvisi e sospensioni dubbiose che si offrono senza veli all’interlocutore, ricamando un percorso ben più complesso e più ricco di quello che sarebbe stato ricomposto entro gli schemi formali dei testi redatti per la stampa. Un dio assente ha dunque il carattere del «monologo a due voci», di una performance nella quale, come dice Attisani nella sua introduzione, «un pensiero si manifesta contemporaneamente in due individui, come in una sessione di free jazz».
La «sessione» si articola in un ritmico rilancio di temi, incrociati e variati con maestria; ma unitaria è l’interrogazione che anima lo scambio tra i due protagonisti, anche là dove i timbri non si corrispondono e le voci si incrociano in controcanto. Quel che è in campo riguarda essenzialmente i destini e le possibilità etiche del teatro, inteso come luogo originario dove si sperimenta lo stare in bilico tra senso e non-senso, tra vita agita e vita pensata, tra provenienza ineffabile e progetto inattingibile. La concezione del teatro che ne viene fuori, dunque, è quella di un laboratorio posturale dove si scandagliano i modi dell’essere, tra nostalgia di una pienezza dimenticata e dimenticanza di una origine mai conosciuta.
Proprio l’aggettivo «originario», del resto, riaffiora di continuo nel conversare di Umberto Artioli e Carmelo Bene, insieme alle parole «oblio» e «sottrazione»: oblio di sé e sottrazione di forme come esercizio di messa a nudo dei significati, fino a sfiorare l’a-significante, l’indicibile, e anche l’osceno. Perché tra i compiti etici del teatro sondati dai protagonisti di questa conversazione c’è quello di fornire un allestimento all’osceno, folgorarlo e andarlo a stanare là dove si nasconde. La scena infatti è vuota. E non vuole essere riempita perché, come spiega Carlo Sini nella postfazione che chiude il monologo a due voci, «quella origine non c’è e non è stata mai». Di essa si può avere solo l’eco, così come un eco di questo scambio tra Artioli e Bene restò preso nelle registrazioni che accavallano brandelli di parole, lasciano sfumare le voci in un ronzio meccanico, alternando scatti a fruscii. E poi il silenzio, su una scena aperta, sotto una luce immobile.