Vittime della stupidità

Erano poi fioriti in primavera i rami secchi di bouganville che Gino mi indicava, nel giardino dell’ospedale di Kabul otto anni fa. Qualcosa di bello per chi ha negli occhi solo gli orrori della guerra e nel corpo le sue ferite. Erano importanti quei fiori, quanto la sala chirurgica. Ed era fiorito anche l’ospedale, bianco, spiccava sul colore uniforme e sporco di una città fatta di macerie. Come l’altro, su nel Panshir, dall’altra parte del fronte, anche l’ospedale di Kabul si era riempito presto di dolore, grida e silenzi, ma soprattutto della speranza di tanti, che travolti dalla corrente violenta della guerra avevano trovato dove aggrapparsi e mani pronte ad afferrarli per non lasciarli trascinare via.
Quante mani, mani che fasciano, mani che puliscono e cuciono, mani che si stringono, mani che si aprono sul petto in segno di saluto, mani che si stringono a pugno per chiudere un grido di dolore, mani che ricadono inerti aprendosi a lasciare fuggire l’ultimo brandello di vita e che spesso, troppo spesso, sono mani piccole, mani di bambino. E allora la rabbia, la stanchezza e lo sconforto, ma poi di nuovo l’entusiasmo, la determinazione, l’orgoglio nel sorriso di Koko Jalil, coraggioso Moujhaeddin tagiko che combatte per salvare la sua gente, non per ucciderla. Lo stesso sorriso di Rahmatullah, il suo «nemico» pashtun che lavorava accanto a lui. Rahmatullah che sentiva suo il nuovo ospedale sorto a Laskargah, a sud, nella sua terra, a dispetto della guerra che si era aggiunta alla guerra. Più ostinato della guerra.
Quante immagini può contenere un sogno fatto di realtà, di umanità, che cresce per anni dentro un incubo altrettanto reale, quante se ne possono tentare di raccontare e quante invece sono destinate a sedimentarsi nel fondo dell’esperienza? Ora che quegli ospedali chiudono però vorrei proiettarle fuori tutte quelle immagini, una dopo l’altra, una sull’altra, chè ognuna divenisse un testimone di accusa contro i potenti e i prepotenti, contro corrotti e corruttori, contro politici vigliacchi e opportunisti, contro esperti ed editorialisti, contro i «se» e i «ma» di chi diceva di non averne. Una sola immagine, non svelata, riflessa appena negli occhi di Said. Prima sbarrati e rivolti verso la parete mentre Barbara, l’infermiera, gli puliva la medicazione al moncherino della mano amputato da una mina, ma che poi si socchiudevano pacificati una volta finito, quando lei gli accarezzava il capo. C’era fiducia allora nello sguardo di Said.
E’ quella fiducia che avete tradito, barattato per potere, ipocrisia, sudditanza, pavidità, realismo cinico, miope calcolo politico, colpevole indifferenza. Non ci saranno più le carezze di Barbara per i tanti Said che la guerra produce, nel loro sguardo resterà solo il dolore e l’odio, ma siete troppo stupidi per averne paura.