Virtù narrative in forma di diario

È probabile ci voglia una grande carica di generosità per alzare ogni tanto gli occhi dal foglio, quando si è uno scrittore, per provare a sentire più liberamente, ma sempre deliberatamente, e in modo persino arreso, il fiato di una giornata, una ombra che si accorcia di là dalla finestra, le voci sbadate di fuori e quelle che invece ronzano nell’interno domestico, con tutte le parole dei giornali, di un libro altrui rimasto aperto, i discorsi che vengono dalla radio, persino le sagome che si agitano in un video il cui volume sia tenuto rigorosamente basso. Ciò per dire che la forma-diario è forse, e da sempre, il nucleo più riposto e intangibile (protetto senza essere schermato, anzi paradossalmente sovresposto) della scrittura di Enzo Siciliano. All’origine, e lo sanno specialmente i lettori dell’inserto che inaugura da tanti anni i fascicoli di Nuovi Argomenti, c’è una semplice osservazione, un gesto di gratuita attenzione, ovvero un attimo di dubbio o di reminiscenza improvvisa (ad esempio nell’ultimo numero della rivista, si tratta di un libro letto in giovinezza, la Vita di Vittorio Alfieri); quella stessa osservazione tende subito a sciamare, a nutrirsi e ibridarsi soprattutto di colori (sono nel suo caso i colori – rossi, verdi e celesti catastrofici – di una Roma che non esiste più, la città che era stata di Mario Mafai, cui Siciliano ha dedicato l’altr’anno il suo libro terminale, bello della asciuttezza assoluta, Il sorriso della bionda sirena) ma c’è un momento, sempre, in cui quella presa, quel sentire l’attimo o l’atmosfera, si decolora e dà anzi l’impressione di voler sbiadire: quello è l’attimo in cui la nuda sensazione diviene, a seconda della congiuntura che l’ha resa possibile, un pensiero o un ricordo, o tutt’e due. (È il procedimento inverso della prosa d’arte, vessillo e ipoteca tremenda del nostro Novecento: il ‘far bello’ al posto del ‘dire’, l’estenuazione invece dell’emozione, insomma filisteismo, calligrafia. Siciliano deve avere molto lottato per liberarsene, quando tutto per uno scrittore della sua generazione congiurava a che se ne nutrisse e ubbidisse a una poetica sostanzialmente elusiva, ambiguamente infettiva.
Non l’ha fatto e anzi ha fatto il contrario, cercando una pagina esatta prima che elegante – semmai l’eleganza era di lui come individuo, naturaliter – uno spessore di riferimenti storici e culturali che tale esattezza tendeva semmai a levigare, metabolizzandoli, e a mitigarne l’invadenza. Non è affatto secondario che negli anni decisivi della formazione avesse studiato Wittgenstein e curato la prima uscita italiana dei meravigliosi Saggi di Auden. E poi la costante presenza di Moravia, vicino a lui, quel suo scrivere sempre nel grigio più spoglio e ossessivo deve avere avuto la funzione, per lui, dello specchio ustorio e insieme del veleno di Mitridate). È in questo modo (nel modo suo tipico non già di mescolare bensì di intramare racconto e riflessione) che Siciliano ha scritto alcuni libri straordinari. Libri in cui ne va regolarmente del più classico degli antagonismi secolari, quello tra letteratura e vita, le cui dimensioni devono tuttavia rimanere distinte in quanto già vaccinate e dall’estetismo vitalistico (la vita come letteratura) e dalla metafisica più o meno confessionale (la letteratura come vita). E sono infatti diari, biografie, memorie, descrizioni ovvero, avrebbe detto il suo grande amico Pasolini, «descrizioni di descrizioni». Ad esempio Prima della poesia un volume di oltre quaranta anni fa (riproposto di recente da Quiritta) che si direbbe il congedo ufficiale dalla prima giovinezza dove tuttavia la sua opzione d’autore è già chiara: ed è il rifiuto netto, persino vibrante, dell’intellettualismo come simulazione/surrogazione dell’intelligenza (di qui il rigetto del lungo arroccamento ermetico quanto il dichiarato sospetto, già allora, per il fumus persecutionis neoavanguardistico e neotecnologico) e invece, d’altro lato, l’orgoglio di sentirsi a casa propria su un terreno dove la letteratura non è un frigido contenzioso teorico o terrorismo à la page ma la forma forse più complessa dove entrino in fusione sentimenti e pensieri; dunque un gesto di necessità, di possibile verità, o nient’altro: perciò sentiva concomitanti e poi complici in quel credo elementare scrittori in tutto differenti da lui, i quali gli erano stati maestri, mallevadori, e poi a lungo, compagni di via come Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Sandro Penna unitamente ad alcuni coetanei, per esempio il regista Bernardo Bertolucci e il poeta Massimo Ferretti, il cui ardore giovanile splende nel memoriale intitolato una decina d’anni fa Campo de’ fiori. Come già a Mafai e al suo più grande amore musicale, Giacomo Puccini, ad Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, Siciliano ha dedicato il suo lavoro di biografo.
Si tratta di opere sempre documentate, filologicamente fondate, eppure sono opere fino in fondo «scritte». Qui gli si farebbe un torto a dire che sono dei romanzi o, peggio, che si leggono come dei romanzi. Non lo vogliono essere e non lo sono affatto; viceversa sono folgoranti narrazioni, da intendersi alla lettera (nel paese in cui «narrazione» equivale ormai a mistura, smaccato artificio, volendo dire tutto e niente), pagine ritmate e protette da uno sguardo che temendo l’onnipotenza del biografo si rivolge ai propri referenti (corpo, pagine, tracce di quella che fu vita viva) con delicatezza e tuttavia con una presa implacabile, con l’istinto cognitivo di chi una sola cosa persegue, e cioè il senso, una figura possibile di senso. Il senso di una vita, di quella vita lì, denudata al cospetto di chi intanto sta scrivendone e perciò sente l’obbligo di interrogarla ma anche di proteggerne la infungibilità, le ferite e i terribili segreti che qualunque vita dissimula. Il nostro Goncourt, il diarista del nostro tempo e dell’ esistenza di molti, è stato detto. Innanzitutto un testimone, dunque uno scrittore vero.