Violenze alle donne nei callcenter: “E io avevo gli occhi gonfi di lacrime”

«Mi facevano fretta», ricorda con voce tremante e un sorriso nervoso C. «Mi dicevano “sbrigati!, chiudi! ” e io avevo gli occhi gonfi di lacrime e sapevo che non avrei potuto dirle una parola di conforto, ci avevano detto di no, “non intervenite! ”…»
C. lavora all’Unicab, call center romano ricco di commesse pubbliche, molte delle quali provenienti dall’Istat. Sei mesi fa, appena laureata in sociologia e piena di speranze, invia il proprio curriculum all’istituto nazionale di ricerca. Viene subito chiamata dal call center appaltatore, firma un contratto da cocoprò, quattro giorni di formazione «inutile, e non pagata» e inizia a scorrere il suo lungo elenco di telefonate, per il sondaggio sulla “condizione delle donne in Italia”: chiede alle intervistate dall’altro lato della cornetta se hanno mai subito violenze.
L’organizzazione del lavoro, la “forma” è quella propria della produzione di fabbrica: strumenti di controllo e di misurazione dei risultati ottenuti, rigida turnazione, ripetitività delle mansioni. Il call-center è forse quanto di più terribilmente taylorista ci consegni la contemporaneità, e le sue grandi sale dove si lavora gomito a gomito, ma separati, divisi ognuno nella propria postazione individuale, é la rappresentazione emblematica di una lavoro autonomo solo nelle forme contrattuali, ma in realtà del tutto dipendente: lavoro salariato. Ma il “contenuto” è diverso: qui non si producono beni materiali, né materiali sono gli strumenti di produzione. Si “fabbricano”, invece, relazioni e le capacità relazionali sono lo strumento da mettere in produzione. Per questo C. è il perfetto salariato per la ricerca di mercato. E’ giovane, può essere pagata poco poco, ha voglia di dimostrare a se stessa e agli altri di aver studiato qualcosa di utile e importante, ha una voce calda e dolce, rassicurante. E’ una donna: la relazionalità è la sua natura, che altri decidono di mettere a valore. E’ la commessa che sopporta silenziosa il cliente sgarbato, la venditrice suadente e carina, la telefonista che sorride al suo monitor.

Gli incontri di feedback lo dicono subito: i dati registrati dal sistema Cati (una specie di “cronometrista digitale”, che registra tutte le operazioni telefoniche sul database dell’azienda) dicono che C. è produttiva, riesce a far raccontare dalle donne intervistate le violenze che hanno subito. Altre sue colleghe, invece, vengono subito sgridate, accusate di non essere abbastanza convincenti. Vengono umiliate: «cambiate mestiere, siete delle buone a nulla». Molte lasciano il call center, mentre il questionario di C., sullo schermo, si riempie di crocette, e nelle poche righe dedicate alle note appaiono tanti particolari importanti per la ricerca.

Ma la “capacità relazionale” di C., messa a lavoro, si rivolta contro di lei, troppo “umana” per riuscire a dividere con nettenza la “catena di montaggio” dai propri sentimenti: «Quella signora mi ha raccontato tutto, ogni particolare delle violenze che aveva subito. Era la prima volta che lo faceva, ero la prima persone che sentiva dalla sua voce queste cose terribili. Non ho retto alla tensione, sono scoppiata in lacrime, speravo che quel racconto finisse subito, era una tortura. E insieme avrei voluto aiutarla, dirle parole di conforto, farle capire che le stavo vicino».

Una telefonata senza violenza- dicono alle telefoniste i dirigenti dell’Unicab- dura 18-20 minuti. Con la violenza circa 30 minuti. Dieci minuti di differenza per raccontare dolori che continuano a bruciare nella memoria. Solo dieci minuti. «Mi facevano fretta, la telefonata durava ormai da oltre due ore, un’infinità. Dietro c’erano tutti i “controllori”, il caposala e le psicologhe dell’Istat. Poi hanno interrotto la telefonata», racconta C. «Allora sono fuggita in bagno, sono rimasta lì per mezz’ora, per riprendermi».

Una mezz’ora non pagata, ovviamente. Perché le collaboratrici a progetto dell’Unicab, che per il ministro Damiano sono “lavoratrici genuinamente autonome”, hanno solo 8 minuti di pausa ogni ora, ridotte a sei con una decisione che l’azienda, questa volta sì, ha preso autonomamente. «Ci avevano detto che si trattava di un lavoro delicato: “dovete sentirvi a vostro agio, prendete quando volete una boccata d’aria“. E poi calcolano al secondo i tempi delle pause», dice C. Si lavora strette, una accanto all’altra, all’interno di un fruscio infernale, frutto della somma di decine di voci, uguali, ininterrotte. 40 o 50 persone in uno spazio di 100 metri quadrati. Obbligo di seguire alla lettera il questionario, per tre volte 17 domande identiche. «Dopo un po’ facevo le domande senza pensare, e parlavo coi miei amici con la stessa voce usata al telefono». E
la disciplina di fabbrica: «Non li sopporto, sono persone orribili, non hanno nulla di umano, sanno che sei sostituibile, e ti controllano in ogni tuo gesto, se bevi, mangi, se sfogli un giornale».

Nei primi mesi, in realtà, il lavoro nel call-center non ha ritmi elevatissimi. Alle lavoratrici è dato un contratto di sei mesi, nel quale però, il progetto e l’organizzazione dei turni non è specificata. «Potevamo gestire i tempi di lavoro con una certa autonomia, saltare un turno, magari, per recuperarlo l’indomani», precisa C. Poi l’Unicab decide di accelerare i tempi. E dunque via le pause, i turni diventano fissi, i “cronometristi” si fanno più attenti e fiscali. Si vuole chiudere il più presto possibile, accontentare il committente e moltiplicare gli utili: «l’Istat ci chiede tempi precisi e noi dobbiamo rispettarli», dicono i dirigenti alle lavoratrici. «Se continueranno a considerarci come un’azienda fidata ci assegneranno nuove commesse e voi potrete continuare a lavorare». Ma la paga, sette euro e cinquanta lorde all’ora, continua ad arrivare con tre mesi di ritardo. C. userà quei soldi durante le vacanze. E in un call-center, giura, non lavorerà mai più.