Violenti regolari, violenti di fatto

Un uomo violento è un uomo violento, una donna picchiata è una donna picchiata. In Italia, come si sa dalla cronaca nonché da una messe di convegni, giornate mondiali di denuncia e simili che evidentemente lasciano il tempo che trovano, ci sono troppi uomini violenti che picchiano o maltrattano le «loro» donne: mogli, fidanzate o conviventi fa lo stesso, la sostanza non cambia. Secondo la suprema corte di cassazione invece cambia: se picchi tua moglie rischi due mesi di galera, se picchi la donna con cui convivi te la cavi con mille euro di multa. E questo perché nel primo caso ti becchi l’aggravante che il codice pone a tutela dell’istituzione familiare «basata sulla stabilità dei rapporti», nel secondo caso no, nemmeno, poniamo, se la convivenza dura da trent’anni.
Depositata il 27 febbraio, la sentenza non poteva arrivare in un momento migliore – o peggiore, secondo i punti di vista. Ora che il senatore Andreotti ci ha spiegato che i Dico sono un’autorizzazione alla pedofilia, ora che il presidente del consiglio Prodi se n’è lavate le mani dopo avere incautamente impegnato il governo su una questione di squisita competenza parlamentare, ci mancava solo un pronunciamento della cassazione a legittimare il discrimen e la discriminazione fra i matrimoni veri e le unioni per finta.
Coincidenza casuale o coincidenza politica? La corte, si dirà, non fa che applicare alla lettera il codice, che all’articolo 577 comma 2 prevede l’aggravante di pena per il reato di lesioni nel caso sia commesso «contro il coniuge». E siccome l’interpretazione della legge penale è rigida, basandosi sulla regola del favor rei, la corte non poteva rischiare che il reo in questione, un cinquantunenne che aveva picchiato non la sua coniuge ma la sua compagna e che la corte d’appello aveva condannato a due mesi di reclusione, venisse punito più del dovuto.
Senonché la corte non si limita ad applicare la norma alla lettera, smentendo i giudici che saggiamente avevano esteso il senso della parola «coniuge» ai due conviventi: con un eccesso di zelo (e appellandosi a un precedente pronunciamento della Consulta, ma su un caso di non punibilità) si lancia in una difesa militante della norma stessa, sostenendo che la disparità di trattamento per i coniugi e i conviventi «non è irrazionale», dato che il vincolo matrimoniale ha «un carattere di tendenziale stabilità e riconoscibilità» che le convivenze more uxorio non hanno.
Forse i giudici della cassazione dovrebbero guardarsi le statistiche sui divorzi.. Forse non ci hanno pensato, ma la loro sentenza, scritta a sostegno della superiorità del matrimonio rispetto alle coppie di fatto, rischia paradossalmente di rovesciarsi in uno spot delinquenziale a favore di queste ultime, suggerendo agli uomini violenti che convivere è meno rischioso, penalmente parlando, che sposarsi. Paradossi a parte, la sentenza getta sale sulla ferita della frenata del governo sui Dico e benzina sul fuoco della manifestazione del 10 marzo in loro difesa. Mettendo il crisma della legge al servizio della ventata di disciplinamento, discriminazione e gerarchizzazione dei rapporti affettivi e della sessualità che attorno ai Dico si sta alzando. E rivelando le fratture che in materia percorrono lo stesso sistema giudiziario, e l’abisso che può aprirsi fra l’esperienza reale e l’astrattezza della norma. Non per caso i giudici della corte d’appello, evidentemente più sensibili o più prossimi al mutamento sociale, avevano annullato quella differenza fra «coniuge» e «convivente», che la cassazione ripristina. Ma quando in un paese si allarga la forbice fra esperienza e diritto e fra esperienza e politica, l’aria che tira non è buona. Sempre per paradosso, il giorno in cui il governo cadeva più sui Dico che sulla politica estera, il calendario parlamentare prevedeva anche una discussione sulla violenza sulle donne.