Che il conflitto sia necessario per migliorare in modo sostanziale le condizioni dei lavoratori, lo dimostrano i risultati ottenuti in queste settimane dagli operai vietnamiti. Ci sono voluti mesi di scontri e di scioperi a ripetizione nelle imprese straniere affinché il governo si decidesse a imporre minimi salariali più alti. Dal primo febbraio le molte aziende sudcoreane, tailandesi, e soprattutto taiwanesi, che producono per grandi marchi occidentali come Nike, Adidas e Disney, dovranno mettersi in regola e pagare il 40% in più ai propri dipendenti, portando gli stipendi da 45 a 55 dollari al mese, a seconda delle diverse zone del paese e perciò del costo della vita. Per più di sei anni il governo non era intervenuto nella regolazione dei salari, ma la velocità con cui si sta estendendo la protesta spontanea in Vietnam, con lo scarso contributo del sindacato di stato, ha spinto le varie Commissioni del lavoro e le autorità nazionali a muoversi. La rabbia e la disperazione dei lavoratori è cresciuta soprattutto per la perdita progressiva del valore d’acquisto dalla moneta nazionale, il dong, che in questi anni si è notevolmente svalutato rispetto al dollaro (del 15%) mentre l’inflazione reale è aumentata del 28%, rendendo praticamente impossibile alla gran parte delle famiglie la semplice sopravvivenza. L’ondata di scioperi ha bloccato in soli due mesi l’attività di 60 fabbriche straniere, di cui 24 taiwanesi e concentrate nelle cosiddette «zone di trasformazione per l’esportazione», nell’area industriale di Ho Chi Minh city e di Binh Duong, dove il bisogno di attrarre investimenti ha azzerato il livello delle tutele e dei diritti. La mobilitazione ha raggiunto il suo massimo poche settimane fa, quando più di 18mila operai della compagnia tessile e calzaturiera Freetrend, taiwanese, hanno incrociato le braccia e sono scesi in strada. «Il problema non riguarda solo gli stipendi – spiegano gli operai di Freetrend all’agenzia di stampa Ips – , ma anche le condizioni di sicurezza all’interno delle fabbriche, gli orari prolungati e i maltrattamenti continui che dobbiamo subire delle guardie private dell’azienda». Gli industriali di Taiwan controllano circa 1.400 imprese in Vietnam, per un volume d’affari di quasi otto miliardi di dollari. Non meraviglia, pertanto, che il governo abbia esitato finora a intervenire, anche se le autorità non sembrano volere percorrere la via della repressione, come invece sta accadendo in altri paesi asiatici di fronte alle proteste. Va detto, però, che nonostante l’aumento salariale, il lavoro vietnamita continua a essere altamente competitivo per le aziende straniere, anche rispetto a quello cinese, dove il costo sale di circa il 13% e si parte da minimi di 63 dollari mensili. La legge del lavoro, in attesa di riforma, pur non ammettendo sindacati liberi, offre comunque alcune garanzie ai dipendenti che altri governi, formalmente democratici, ancora non prevedono. Ad esempio, impone la costituzione di comitati aziendali e di rappresentanti dei lavoratori in ogni singola impresa entro sei mesi dalla sua costituzione. Inoltre, tollera le azioni di sciopero e le manifestazioni, anche se spontanee e non autorizzate, limitatamente al settore privato. La confederazione nazionale del lavoro, Cvl, controllata dal partito comunista, rappresenta oggi solo il 10% degli occupati, che sono in tutto circa 38 milioni su una popolazione di 80, ma sta cercando di riconquistare fiducia e credibilità. «Il nostro è un sindacato debole – ammette la presidentessa, Cu Thi Hau -, ma ci sono ancora troppe restrizioni e ritorsioni perché i lavoratori siano incoraggiati a seguirci». «Se la riforma del lavoro che abbiamo chiesto passerà – aggiunge – presto anche noi saremo in grado di organizzare scioperi più facilmente e senza paura di perdere il posto, così come potremo gestire con più autonomia le risorse necessarie alla sindacalizzazione». Vale la pena ricordare che il Vietnam, a dicembre, ha accelerato la procedura per ottenere l’ingresso formale nell’Organizzazione mondiale del commercio.