Così tanti non se li aspettava nessuno,a Vicenza. Invece sono usciti dalle case con le bandiere “no Dal Molin”, unite a quelle no-tav, no-mose, norigassificatori, con i comitati contro le basi militari Usa di mezza Italia, con i sindacati, i partiti di sinistra,i centri sociali e l’associazionismo. La mobilitazione contro il raddoppio della caserma Usa a Vicenza porta a casa un risultato enorme, di partecipazione e di metodo. Riesce a riunire il pacifismo italiano sotto la stessa bandiera, dando una lezione di democrazia dal basso. È fiorita una nuova Val Susa che consegna al governo un messaggio forte e chiaro: sulle opere, sulla nostra terra, sulla complicità con la guerra infinita,non ci facciamo mettere sotto. In barba alla demonizzazioni dei giornali locali, una manifestazione allegra e responsabile ha attraversato il centro storico di Vicenza,battendo sulle pentole,cantando e sventolando centinaia di bandiere diverse fino ai campi di rugby e di granturco,alle vilette circondate dai limiti invalicabili di reti metalliche dell’aeroporto dal Molin, per dire “no grazie”.
Vicenza si parla per la crisi del modello Nord-Est, gli strali imprenditoriali e una certa idea del “mio”, da ieri se ne parlerà anche per la lotta contro le basi militari Usa. Grazie ai comitati contro la base Dal Molin e a tutti quelli che ci hanno creduto, “gente comune” uscita dal silenzio e tanto pacifismo con un obiettivo: «Resisteremo un minuto più di voi». Per dire agli Usa che i loro paracadutisti e i comandi operativi non sono i benvenuti e al governo che non c’è accordo segreto che tenga. Da luglio i comitati si sono moltiplicati, da 4 a 8 a 12, in città e nei paesi attorno, sono scesi in piazza con le pignatte per un inedito “cacerolazo vicentino”, hanno organizzato presidi e volantinaggi porta a porta e si sono moltiplicati ancora. «A Vicenza si va poco in piazza, si lavora e si sta tranquilli – dice Patrizia Balbo, dell’assemblea permanente “No Dal Molin” – non ci aspettavano la nascita d’un movimento trasversale e cittadino così grande, alla prima uscita eravamo un migliaio e continuiamo a crescere». Ci sono i moderati e i ragazzi dei centri sociali, gente che prima non si sarebbe salutata per strada. Hanno iniziato dalle sale delle parrocchie e dall’associazionismo locale, adesso sono decine di migliaia. “E vogliamo dire a questo comune che ci dia il referendum sulla base e al governo di non prestarsi a questo scempio”, chiude Patrizia. Nelle assemblee tutti hanno parola e le beghe della politica devono restare fuori dalla porta. Democrazia dal basso.
Il corteo si apre con i bambini armati di palloncini e pazienza per otto chilometri di marcia, passando per il centro storico protetto dall’Unesco e poi via per la campagna. Un cartello dice: “Il futuro non è di destra né di sinistra, è nostro!”. Un papà tira un carretto con sopra cinque “gnomi”: «Siamo stanchi degli americani, non vogliamo più essere complici delle loro guerre», dice. Aggiunge una mamma: «Siamo con la parte di America che vuole la pace». Vicentini più che magna gatti, magna americani. Lo sostengono ridendo dei signori di mezza età con le bandiere della Cgil: «La base porta degrado, droga e prostituzione, affitti alle stelle e militarizzazione del territorio, dal ’54 andiamo avanti così. Loro vogliono portare l’ordine nel mondo invece portano disordine ovunque». Più in là due ragazzi discutono dello stesso argomento: «Ma cosa lasciano qua? Rifiuti e qualche birra in centro il sabato sera, per il resto vivono e consumano dentro la base». Poco dietro c’è una signora con un fazzoletto verde-padania al collo. Come mai qua e non a Roma? «Mi batto per la mia terra, mica per Berlusconi». Ci sono anche i Veneti-Europei con i leoni di San Marco: “Turisti si, militari no”. Lo striscione dell’assemblea invita a “Difendere la terra per un futuro senza basi di guerra”, lo tengono dodici donne. Quelli del comitato di Polegge hanno facce da impiegati, insegnanti e buoni vicini di casa. Scrivono: “Aria, terra, acqua, per i nostri figli, diamo spazio alla pace”, come dire “give peace a chance”. Don Albino Bazzotto dei Beati costruttori di pace non ha più spazio in faccia per il sorriso: «Mai vista una partecipazione così a Vicenza e poi serve anche a tutti noi pacifisti per riprendere il progetto e superare le divisioni». A sostenere i comitati sono venuti i no-tav dal Piemonte, i no-mose, i norigassificatori, i toscani contro Camp Darby che vorrebbero chiudere la base e far rimpatriare i nostri militari anche dal Libano «perché non si sta tra due belligeranti se si fanno accordi militari con uno di essi», dice Andrea.
Ci sono pure i siciliani per la “smilitarizzazione di Sigonella” che lottano per la stessa causa, l’ampliamento della base, con tanto di mega-speculazione edilizia bi-partisan. Subito dietro c’è tutto il movimento e il pacifismo italiano, insieme; dai genovesi del G8 con Haidi Giuliani a quelli di “Firenze città aperta”, lo striscione del primo Sfe, con Lisa Clark, c’è Emergency dietro i centri sociali dell’antagonismo (Vittoria di Milano, Gramigna di Padova e altri), a loro volta accanto a migliaia di “disobbedienti” del NordEst, le bandiere rosse e nere degli anarchici della Fai con quelle a strisce con la pace al posto delle stelle degli “americans for peace and justice” e ancora scout Agesci, Cgil, Rifondazione-Verdi-Pdci e varie altre declinazioni di proletari e comunisti.
Tutti uniti per dire che le basi devono chiudere e noi dobbiamo risparmiare il mezzo miliardo di euro che ci costano all’anno. Alla fine il risultato è pieno. Alfio Nicotra, responsabile pace del Prc, invita «Parisi e Prodi a una scelta di pace, negando il consenso agli accordi segreti di Berlusconi con Bush e iniziando una politica di disarmo». Claudio Grassi, senatore del Prc dice che «il governo dovrà tenere in conto questa partecipazione» e Fosco Giannini, deputato del Prc, segnala come siano «i movimenti, dal precariato alla guerra, a spostare l’asse del governo su politiche di pace e per i lavoratori», Piero Bernocchi (Cobas) vede a Vicenza «l’unità popolare che mette in crisi la politica e il governo e che i movimenti dovrebbero ritrovare sull’Afghanistan», mentre Giorgio Cremaschi sottolinea soprattutto che «sono tornati a muoversi i cittadini e i territori, dalla tav alle basi militari, li chiamano nimby (dall’inglese: non nel mio cortile, ndr) ma sono il nuovo protagonismo della cittadinanza e della democrazia». Tiziana Valpiana, senatrice veneta del Prc, sorride e si gode la sua gente. Cala la sera sulle luci dell’aeroporto Dal Molin. «Nessun aereo è decollato», dice un ragazzo. E domani?