ERI MATTINA, illuminata dall’aurora, gli occhi ancora assonnati dei leader del centrosinistra hanno dovuto mettere a fuoco una realtà da mesi rimossa. E col succedersi dei lanci di agenzia, quando gli iniziali «tre feriti lievi» sono diventati «quattro di cui uno grave» e infine «tre feriti e un morto», nessuno ha potuto più far finta di dimenticare che delle linee di frattura che solcano la maggioranza, la politica estera non è la minore.
ORA CHE il Libano è fuori controllo, ora che in Afganistan è morto un altro militare italiano, il copione si ripete infatti come in passato, ma a recitarlo sono attori sempre più provati e sempre meno inclini alla mediazione. Le parti in commedia, comunque, sono le stesse. Con Prc, Verdi e Sd che accolgono il lutto cercando di evitare polemiche, il Pdci che parte a testa bassa chiedendo il ritiro delle truppe, e tutti gli altri, Bertinotti compreso, che gli vanno dietro. L’unica differenza è che, anziché invocare esplicitamente il rompete le righe, sostengono la necessità di una profonda «riflessione». «Serve una riflessione strategica», ammonisce infatti il presidente della Camera. E mentre il segretario del Prc, Giordano, dice che «non è questo il momento di dividersi», il suo capogruppo al Senato, Russo Spena, invoca la «conferenza internazionale di pace» e il suo ministro, Ferrero, chiede di «riflettere sul senso e le modalità della nostra presenza in Afganistan». Analoghe, e analogamente calibrate, le posizioni dei vertici di Verdi e Sd. Anche se tra le seconde file dei tre partiti già si levano voci che invocano il ritiro, si appellano all’articolo 11 della Costituzione, parlano di mutate regole di ingaggio e descrivono un Afganistan sempre più simile all’Iraq. La differenza col Pdci è che, in questo caso, ad assumere le posizioni più estreme è direttamente il segretario. Dopo aver dato mandato al proprio responsabile Esteri, Jacopo Venier, di invocare l’affrancamento dagli Usa e «il ritiro dei nostri militari», Diliberto la mette così: «La missione in Afganistan è sempre meno umanitaria e vorrei che qualcuno mi spiegasse perché e per quanto tempo ancora dovremo esprimere cordoglio a famiglie che sacrificano i loro figli». Naturalmente, secondo copione, le altre forze politiche della maggioranza, così come tutti i partiti dell’opposizione, deprecano le posizioni della sinistra massimalista e si appellano al rispetto degli accordi internazionali. Prodi è chiaro. Si dice «preoccupato per la recrudescenza dei metodi terroristici», ma aggiunge che «l’eroico sacrificio del maresciallo Paladini» e «il gesto ingnobile del kamikaze» che l’ha ucciso «non metteranno in discussione le scelte fatte dall’Italia riguardo alle missioni di pace». Concetti ribaditi ieri sera ad Abu Dabi, negli Emirati Arabi, dove il premier ha incontrato i militari feriti sulla via del ritorno in Italia: «Siamo lì per aiutare l’Afganistan e lì rimaniamo. L’attentato non era contro gli italiani».
E COME PRODI la pensano il ministro della Difesa Parisi («guai se lasciassimo gli afgani alla mercè delle aggressioni»), quello degli Esteri D’Alema (ansioso di ricordare che la nostra è una «missione di pace sotto l’egida dell’Onu») e il capo dello Stato, che ha espresso «profonda tristezza per l’efferato attentato terroristico». Per Napolitano, dunque, si tratta di terrorismo e non, come dicono a sinistra, di guerra civile. Divaricazioni note. Fatto sta che, all’alba di ieri, la maggioranza s’è ricordata che tra gennaio e febbraio dovrà votare il rifinanziamento della missione in Aghanistan. E non è stato un piacevole risveglio.